Perché si parla di “maledizione delle risorse”? Oggi più che mai viviamo le conseguenze delle economie estrattive, nate con il colonialismo. I luoghi più ricchi di materie prime, ma poveri di altro, sono i più soggetti a questa maledizione
Amitav Ghosh non è nuovo al tema del cambiamento climatico; non solo nei saggi ma anche nei suoi romanzi spesso gli sconvolgimenti metereologici si accompagnano e determinano la vita dei personaggi. Può darsi che questa attenzione sia figlia delle sue origini, ma il punto vero, come ci dice, è che “C’è poco da fare, il cambiamento climatico è la cosa più grande che sia mai accaduta alla specie umana. Ed è qualcosa che riguarda i tempi in cui viviamo, in cui io vivo. Come autore ho sempre scritto della realtà del mondo che mi circonda e il cambiamento climatico è parte della nostra realtà quotidiana. Oggi ovunque andiamo incontriamo questi eventi climatici strani e senza precedenti: dovrei dunque tapparmi gli occhi per evitare di scriverne”. Ghosh non affronta quindi il tema del cambiamento climatico attraverso narrazioni distopiche o fantascienza catastrofica, ma raccontando storie e personaggi del mondo contemporaneo (Il paese delle maree, Neri Pozza 2005;, L’isola dei fucili, Neri Pozza 2019); oppure, come nel suo ultimo libro (La maledizione della noce moscata, in uscita per Neri Pozza), risalendo alle vicende storiche premonitrici degli avvenimenti che ci avrebbero portato all’emergenza che stiamo vivendo: l’estate appena passata ci ha confermato quanto questo suo approccio sia corretto e necessario.
Abbiamo incontrato lo scrittore di origine indiana mentre lavoravamo a “Gli Spaesati”, un documentario che racconta l’effetto del cambiamento climatico sulle migrazioni interne e internazionali del Bangladesh (uno dei Paesi al mondo più esposti a questo fenomeno). Ghosh, che oggi vive negli Stati Uniti, stava lavorando all’allestimento teatrale di Jungle Nama (Neri Pozza, 2021), un racconto illustrato e in versi che racconta un’antica leggenda delle Sundarbans, la più grande foresta di mangrovie del pianeta, santuario delle tigri del Bengala oggi minacciato da cicloni sempre più numerosi e devastanti.
Nell’intervista siamo partiti dal suo ultimo saggio (La maledizione della noce moscata) dove lo scrittore affronta il tema del drammatico incontro/confronto tra culture diverse: l’Occidente non solo ha promosso e diffuso l’economia delle fonti energetiche fossili, ma più in generale ha posto il rapporto tra umano e non umano come agenti in opposizione tra loro, mentre molte culture tradizionali vedono la natura e l’uomo come entità integrate e in equilibrio. Nel libro si parte da un “incidente minore” e dimenticato, quello che portò i colonizzatori olandesi a sterminare la popolazione di un’isola dell’arcipelago delle Banda (all’interno delle Molucche) per ripercorrere la nascita dell’idea della Terra come di un insieme di risorse da sfruttare e da cui trarre profitto: l’idea divenuta egemonica e che costituì la base dell’espansione degli imperi coloniali europei. Ghosh sostiene che la dissociazione degli esseri umani dalla natura e il considerare l’ambiente che ci circonda come un insieme di risorse a cui attingere, metafisica della dominazione coloniale, si possa rintracciare per la prima volta nella storia (terrificante) delle isole Banda e che da allora sia divenuta l’idea alla base del modus operandi della società contemporanea.
“La dinamica che sta alla base del cambiamento climatico deriva dal modello di economia estrattiva. Questo modello di estrazione ha iniziato a imporsi nel mondo a partire dal XVI e XVII secolo. È iniziato con il colonialismo, con l’esproprio delle terre indigene in Sudamerica, e si è poi esteso a parti dell’Asia. Nel mio libro esploro l’argomento attraverso alcuni esempi: la noce moscata, che cresceva solo in un minuscolo gruppo di isole nell’Indonesia orientale, nelle Molucche, le isole delle spezie. La noce moscata ha reso gli abitanti di quella regione ricchi e prosperi, ma nel 1621 gli olandesi hanno prima negoziato il commercio di quel bene con i locali, poi, dopo alcuni dissidi, hanno scelto un’altra strada: sono arrivati con una flotta e hanno sterminato l’intera popolazione di queste isole. Così, questa gente, che dalla Terra aveva ricevuto una grande benedizione, fu al contrario maledetta proprio a causa di quella originaria benedizione. I pochi che sopravvissero lo fecero scappando altrove. Sono stati i primi a sperimentare quella che oggi viene chiamata la “maledizione delle risorse”. In un certo senso il cambiamento climatico è la globalizzazione della maledizione delle risorse. Ora siamo tutti maledetti da ciò che abbiamo sottratto alla terra. Soprattutto i combustibili fossili. Naturalmente alcuni luoghi del mondo, ricchi di materie prime ma poveri di altro, sono i più soggetti a questa maledizione”.
Il discorso sul cambiamento climatico non può evitare quello sull’imperialismo o quello sulle disuguaglianze, sulle diverse responsabilità…
In senso generale, l’imperialismo e le disuguaglianze globali sono assolutamente al centro del cambiamento climatico. Se vi capita di parlare di cambiamento climatico con gli occidentali, vi sentirete ripetere che il cambiamento climatico è qualcosa che si affronta con la tecnologia e scelte tecnocratiche, che bisogna affrontarlo da un punto di vista scientifico, e così via. Ma se andate nel Sud globale, se parlate con le persone in Indonesia o in India, e chiedete loro se sono disposte a ridurre le emissioni di carbonio, sapete cosa vi risponderebbero? Vi chiederebbero perché mai dovrebbero ridurre le emissioni quando l’Occidente per secoli ha estratto e utilizzato le risorse fossili dominandoli e lasciandoli in povertà; quando l’Occidente diventava ricco mentre loro sempre più deboli e indifesi. “Ora è il nostro turno”, direbbero. La percezione del cambiamento climatico nel Sud globale è completamente diversa da quella dell’Occidente. Questo è un aspetto che la gente in Occidente non comprende, e che invece le persone del Sud globale considerano una questione esistenziale. Hanno la sensazione che tutto quello che gli è stato fatto in passato si ripeterà di nuovo imponendo delle scelte.
Ciò detto, è molto importante riconoscere che anche le élite del Sud globale, in India, in Cina, in Indonesia, hanno adottato il modello di economia estrattiva, che sta contribuendo al colossale problema che abbiamo davanti. Il neoliberismo è stato completamente accettato dalle élite globali ed è oggi fondamentalmente un progetto coloniale secolare: estrarre, estrarre, estrarre… Quindi, quello che stiamo vedendo ora è che alcuni Paesi come l’India, l’Indonesia e così via, stanno effettivamente implementando un modello di economia coloniale all’interno dei loro stessi Paesi. Gli agenti più voraci del capitalismo estrattivo contemporaneo sono forse quelli che sono arrivati più tardi sulla scena.
Raccontata così sembra una maledizione che nulla e nessuno potrà invertire. Chi sono i buoni e chi i cattivi in questa vicenda che coinvolge tutto il genere umano?
Prima del Coronavirus, grazie alla mobilitazione delle giovani generazioni in tutto il mondo, i movimenti per l’ambiente stavano incidendo quanto meno sulla percezione delle cose, ponendo il tema al centro dell’agenda politica. Dopo il Covid tutto è sembrato di nuovo difficile, nonostante durante la pandemia dicevamo che “nulla sarà più come prima”, che avremmo cambiato il nostro modo di vivere. La guerra in Ucraina, poi, ha definitivamente spazzato via quel clima che sembrava portare a una presa di coscienza seria. I cattivi di oggi, in senso generale, sono le multinazionali dell’energia e gli altri gruppi che, in un modo o nell’altro, sono legati a quel modello di sviluppo. È davvero sbalorditiva la quantità di risorse che le corporations dell’energia hanno investito per ritardare qualsiasi tipo di azione efficace o di mitigazione del cambiamento climatico.
Ma ci sono altre due cose importanti che dovremmo ricordare: una quota enorme delle emissioni di gas serra proviene dagli eserciti, dalle marine e dalle forze armate di tutto il mondo. Faccio l’esempio americano: il 25% delle emissioni di gas serra degli Stati Uniti è legato alle forze armate. Si dice che il Pentagono sia il singolo maggiore emettitore di gas serra al mondo. Solo per le operazioni in Medio Oriente durante la guerra in Iraq, il Dipartimento della Difesa statunitense ha emesso più gas serra dell’intero Bangladesh, un Paese di 180 milioni di persone. Ma credo che non si debba dimenticare che quando diciamo che si tratta del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, si tratta anche di tutte le relazioni che legano gli Stati Uniti all’Italia, alla Gran Bretagna, ecc. Sono sicuro che siete stati in Sicilia, dove ogni giorno si sentono volare decine di F16. Uno di questi aerei in un’ora può emettere tanto gas serra quanto un’intera cittadina italiana. Stiamo parlando del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ma questo vale per tutte le strutture militari del pianeta. Uno degli effetti non visibili di questi mesi di guerra in Europa è l’abbandono temporaneo di alcune scelte energetiche e un aumento enorme delle emissioni militari. Il significato della parola power in inglese è doppio, può voler dire potere oppure energia. Ecco, il potere e l’energia, a partire dal XVIII secolo vengono dai combustibili fossili. Penso che la parola power catturi bene il senso per cui la geopolitica è stata e continua ad essere assolutamente al centro del discorso sul cambiamento climatico. Tra l’altro, a proposito di potere, nessuno, in nessuna delle COP (Conference Of the Parties), ha mai parlato di ridurre l’impronta di carbonio militare. Anzi, è stata esplicitamente esclusa dai negoziati sul cambiamento climatico a partire dal Protocollo di Kyoto siglato nel 1997.
In Bangladesh e altrove il cambiamento climatico si traduce anche in emigrazione di massa, interna e internazionale. Viaggiando nel Paese abbiamo parlato con decine di contadini pronti a muoversi per andare nella capitale. Questo a causa delle difficoltà dovute all’imprevedibilità delle piene dei fiumi e delle esondazioni che portano via case e terreni coltivabili; o dall’aumento della frequenza e intensità delle tempeste tropicali.
I territori fragili ed esposti ad eventi climatici estremi hanno sempre dovuto convivere con un certo livello di precarietà. È vero per il Bangladesh, come per altri Paesi. Per certi aspetti, anche se per ragioni diverse, anche gli Stati Uniti e l’Italia conoscono questa fragilità. Il Bangladesh è una pianura estuarina molto estesa e sovrappopolata: circa un terzo del suo territorio si trova a un metro dal livello del mare. E con il rapido innalzamento del livello del mare è ovviamente un Paese in pericolo. Ma si dimentica anche che le regioni estuarine di tutto il mondo stanno sprofondando a una velocità quattro volte superiore a quella dell’innalzamento del livello del mare. È uno dei problemi della regione di Venezia, è un problema per il delta del Nilo, per il delta del fiume Chao Praya in Thailandia, per Giacarta. Tuttavia vorrei aggiungere una nota di cautela: il Bangladesh non è solo una vittima. Il Bangladesh è molto all’avanguardia soprattutto nella diffusione del messaggio sul cambiamento climatico; è un vero leader nella mitigazione del cambiamento climatico, nell’adozione di misure per informare la popolazione sui suoi effetti e anche nel tentativo di difendere le proprie coste. La seconda cosa che credo si debba comprendere è che questa regione, il delta del Bengala, è molto popolata, è una delle regioni più densamente popolate del mondo. Si sente sempre parlare delle nazioni del Pacifico e di quanto siano minacciate dall’innalzamento del livello del mare. L’intera Tuvalu, che è una delle nazioni del Pacifico più minacciate, ospita 2000 persone. In Bangladesh, una singola isola, l’isola fluviale di Bola, è stata quasi completamente sommersa e questa inondazione ha fatto fuggire 500mila persone. Questa è la dimensione del fenomeno in Bangladesh.
Credo che occorra comunque essere cauti nel definire che le persone del Bangladesh si spostano esclusivamente come migranti climatici. Ho girato l’Italia e ho incontrato molti migranti bengalesi e pakistani che attraversavano il Mediterraneo per arrivare in Italia. Molte tra le persone che ho incontrato erano chiaramente profughi a causa di eventi climatici imprevedibili. Mentre li intervistavo, chiedevo sempre loro: ti definiresti un rifugiato climatico? Nessuno di loro era d’accordo con questa definizione. Non si consideravano rifugiati climatici. Il motivo è che il loro viaggio era iniziato per una serie di ragioni diverse. Come disse una volta la scrittrice Margaret Atwood: “Non è solo il cambiamento climatico, è il cambiamento di tutto”. Molti di questi viaggi iniziano in parte certo a causa del cambiamento climatico, ma anche a causa di disordini politici, dell’instabilità, delle difficoltà di sopravvivenza.
Per ogni viaggio ci sono ragioni complesse e credo che la tecnologia della comunicazione, i cosiddetti social media, stiano contribuendo a creare uno straordinario tipo di disordine nella vita sociale di tutto il mondo. Supponiamo che siate un giovanissimo ragazzo del Bangladesh o di qualsiasi parte del Sud globale, e che vostro padre sia un piantatore di riso. Come sapete, piantare il riso è una cosa molto faticosa e difficile. Sotto il sole cocente, giorno dopo giorno, immerso nell’acqua fino alle ginocchia… Ma questo ragazzo ha uno smartphone e grazie a questo può vedere le foto e i video inviate dai parenti o dagli amici che sono riusciti ad andare in Italia, o in altri paesi d’Europa, a Dubai, in Malesia. Il ragazzo vede quelle immagini e cosa si aspetta? Sviluppa nuovi desideri, desideri che non sono mai esistiti prima. Storicamente. E quando è abbastanza grande si decide a partire.
Per concludere credo che cambiamento climatico e intensificazione delle migrazioni siano entrambi aspetti della stessa questione: la crescente accelerazione dell’industrializzazione, del consumo e della comunicazione pervasiva.
Il Bengala tutto (indiano e Bangladesh) è una regione ricca di tradizione e cultura. Quanto rischiamo di perderne con queste crisi convergenti?
Il Bengala è un’area di meravigliosa diversità culturale ed ecologica. Ha un’incredibile cultura culinaria. Un’incredibile cultura letteraria. Siamo di fronte a perdite inconcepibili. Una delle cose più interessanti del Bengala, se si risale alle narrazioni bengalesi premoderne, è che qui si trovano una quantità di storie meravigliose sulle relazioni tra umani e non umani. Per gli indù c’era una dea dei serpenti che diventava la voce del non umano, una storia condivisa con il mondo musulmano.
E qui ritorniamo a Jungle Nama, il racconto che Amitav Ghosh ha trascritto in versi a partire da una leggenda popolare bengalese. La sua protagonista è Bon Bibi, la “signora della foresta”, lo spirito guardiano della costa delle mangrovie, del Paese delle maree, l’essere che crea l’equilibrio tra umano e non umano. Divinità venerata sia dagli indù che dai musulmani. Quella che la cultura predatoria dell’Occidente ha distrutto, sostituendola con quella egemonica del “potere”, che ha trasformato il nostro ecosistema in una somma di risorse da prelevare e generando oggi il suo l’ultimo frutto amaro, quello che chiamiamo emergenza climatica.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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