L’ex colonia francese è un punto chiave per la sicurezza del Sahel e il principale alleato delle forze occidentali nel contrasto all’insorgenza jihadista
Quando lo scorso 20 aprile il portavoce dell’esercito del Ciad, generale Azem Bermandoa Agouna, ha annunciato alla televisione di Stato la morte del Presidente Idriss Déby Itno per le ferite riportate mentre guidava un’operazione militare nel nord del Paese contro la coalizione ribelle del Fronte per l’alternanza e la concordia del Ciad (FACT), il futuro della nazione dell’Africa occidentale è stato messo in discussione.
Déby sarebbe deceduto, a detta dei suoi generali, per le ferite riportate in combattimento, ma non è ancora del tutto chiaro come siano andate le cose. È invece certo, che pochi giorni prima della sua morte aveva vinto le elezioni per la sesta volta, dopo aver governato il Ciad con il pugno di ferro per più di tre decadi. Altrettanto certo, è che era visto dagli alleati occidentali, in particolare dai francesi, come un punto di riferimento per la stabilità del Sahel e la lotta ai gruppi jihadisti.
L’improvvisa scomparsa dell’uomo forte di N’Djamena si è quindi subito caratterizzata come foriera di forte instabilità per il Ciad e per l’intera area saheliana. Anche se è importante evidenziare che la corruzione, l’esclusione sociale, la crescente disuguaglianza e la repressione del dissenso sono stati a lungo marchi del suo governo.
Non è dunque un caso, se il Ciad nel Democracy Index pubblicato annualmente dalla rivista The Economist è classificato come una delle cinque peggiori dittature del mondo. Mentre nel più recente Indice di sviluppo umano (ISU) del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) si posiziona 187esimo su189 Paesi totali considerati.
Un piazzamento che conferma il macroscopico sottosviluppo del Paese africano, che sotto il Governo di Déby si è costantemente classificato come uno dei cinque più poveri del mondo. Una persistente debacle che trae soprattutto origine dalla mancanza di politiche atte a favorire la diversificazione economica, come emerge chiaramente dal fatto che il settore petrolifero fornisce circa il 60% dei proventi delle esportazioni e contribuisce fino a un terzo del Pil complessivo.
Senza contare, che solo il 6% della popolazione ha accesso all’elettricità mentre un misero 8% ha accesso ai servizi igienici di base; solo un adulto su cinque è alfabetizzato e soltanto un parto su tre avviene in presenza di un operatore sanitario. Anche l’aspettativa di vita è una delle più basse al mondo (53 anni), a causa della malnutrizione e della carente assistenza sanitaria.
Dopo che ha cominciato a diffondersi la notizia dell’improvvisa scomparsa di Déby, è apparso evidente che l’espansione dell’insicurezza in Ciad avrebbe potuto avere implicazioni ben oltre i suoi confini, notoriamente porosi in ogni direzione.
Il Paese africano rappresenta di fatto un punto chiave per la politica militare di sicurezza e difesa della regione del Sahel, soprattutto come principale alleato delle forze occidentali nel contrasto all’insorgenza jihadista. Per questo, il venire meno del suo apporto nel combattere le minacce provenienti dai gruppi islamisti transnazionali produrrebbe conseguenze assai dannose.
I numeri sono eloquenti: N’Djamena ha impegnato 1.800 soldati nella Forza congiunta del G5 Sahel e 3mila nella Multinational Joint Task Force(MNJTF) impegnata nel contrasto ai militanti del gruppo jihadista nigeriano Boko Haram. Senza dimenticare, la scesa in campo del Ciad nel 2013 (su richiesta della Francia) con 1.440 uomini a supporto della MINUSMA (la missione multidimensionale delle Nazioni Unite per la stabilizzazione in Mali) e il recente impiego di 1.200 effettivi in appoggio all’operazione anti-terrorismo Barkhane, a guida francese.
Allo stesso modo, la presa del potere da parte di un Consiglio militare, che ha dato avvio a una transizione contraria alla Costituzione, potrebbe avere ripercussioni per la fragile transizione del Sudan. Un Paese dove le aspirazioni democratiche devono confrontarsi con lo scenario politico degli Stati confinanti governati da regimi autoritari.
Senza dimenticare, che una fase di forte instabilità in Ciad potrebbe avere effetti anche sulla crisi nella regione occidentale sudanese del Darfur, dove N’Djamena ha storicamente svolto un ruolo attivo e la recrudescenza della violenza sta mettendo alla prova la capacità di Khartoum di garantire la sicurezza nell’area.
Nei fatti, la morte di Déby ha evidenziato le criticità interne del suo Governo autoritario, che dopo la sua eliminazione è stato perpetuato dai lealisti del regime. Gli stessi che lo scorso 2 maggio hanno istituito un Consiglio militare di transizione (CMT), guidato dal generale Mahamat “Kaka” Idriss Déby (figlio del defunto Presidente), che con un colpo di mano ha assunto immediatamente i pieni poteri per un periodo di 18 mesi, sospeso la Costituzione ciadiana, vietato le manifestazioni, sciolto il governo e l’Assemblea nazionale.
La giunta militare ha deciso di ignorare i dettami della vigente Costituzione promulgata nel 2018, che all’articolo 81 prevede che in caso di caso di vacanza del potere presidenziale o di definitiva incapacità del capo di Stato riconosciuta dalla Corte suprema, la presidenza ad interim dovrebbe essere esercitata dal presidente dell’Assemblea nazionale, che dovrebbe organizzare le elezioni entro 90 giorni.
La Costituzione stabilisce, inoltre, che ogni candidato alla presidenza deve avere almeno 45 anni ed essere un civile, il che esclude automaticamente Mahamat Déby, che ha 37 anni ed è un generale dell’esercito. Il fatto che tali disposizioni costituzionali non siano state rispettate, lascia ben poche speranze per un possibile cambiamento democratico tanto desiderato dal popolo ciadiano.
Intraprendendo queste azioni, la giunta ha mostrato una chiara riluttanza a cedere l’autorità a un rappresentante dell’autorità civile, preferendo gestire la ribellione alle sue condizioni. Questo è particolarmente evidente negli scontri in corso tra i militari e i ribelli del FACT, i quali dopo aver inizialmente respinto la presa del potere da parte della giunta militare hanno proposto di intavolare il dialogo e un cessate-il-fuoco.
La giunta, però, ha risposto escludendo seccamente ogni possibilità di trattativa con alte probabilità che un simile approccio prolunghi le ostilità e rafforzi il convincimento dei gruppi ribelli, che l’uso della forza è l’unico mezzo per sostenere le proprie rivendicazioni.
Appare così evidente che un cambiamento non può arrivare da un Governo militare di transizione, che non riflette l’ampia inclusione aspirata dalle forze d’opposizione e dalla società civile.
Una trentina di partiti d’opposizione e importanti associazioni come la Lega ciadiana per i diritti umani e l’Unione dei Sindacati del Ciad, hanno immediatamente denunciato il colpo di mano della giunta militare e chiesto una transizione a guida civile. Oltre a lamentare la mancanza di un dialogo inclusivo e invocare una transizione senza la tutela militare esercitando pressione sul governo, spesso a rischio di una dura e sanguinosa repressione.
I fattori fondamentali che per tre decenni hanno guidato l’instabilità del Ciad rimangono quindi invariati. Tra questi spiccano la mancanza di legittimità, il diffuso malcontento e un’opposizione civile sempre più mobilitata. Senza tralasciare la ribellione ben armata, composta da almeno quattro gruppi, che durante lo scorso decennio hanno utilizzato il sud della Libia come base per attaccare il Nord del Ciad. Da tutto questo, è facile dedurre che la giunta militare sarà costretta a intensificare la repressione per mantenere il potere.
Per questo, dal Governo retto dal Consiglio militare di transizione sembra altamente improbabile attendersi miglioramenti sia nel tessuto socio-economico sia nel quadro politico e securitario del Ciad. Senza tralasciare, che l’assenza di una legittima transizione politica civile prevista dalla Costituzione ciadiana, rischia di rafforzare l’eredità di Déby basata sul ricorso alla forza per risolvere le divergenze politiche e oscurare il dissenso interno.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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L’ex colonia francese è un punto chiave per la sicurezza del Sahel e il principale alleato delle forze occidentali nel contrasto all’insorgenza jihadista