Cina e Iran, rivali degli Stati Uniti, sono vicini a un accordo di partnership strategica di 25 anni. Quali conseguenze per il Medio Oriente?
La Cina è un gigante geografico, demografico ed economico. Siamo quindi abituati a sentir parlare di cifre stratosferiche in relazione alla Repubblica Popolare. Ma questo non ha impedito a molti osservatori di strabuzzare gli occhi, a metà luglio, di fronte alle indiscrezioni in merito a un accordo di partenariato strategico, della durata di 25 anni, in corso di definizione tra Pechino e Teheran e del valore di 400 miliardi di dollari. In estrema sintesi l’intesa, qualora venisse siglata, prevedrebbe un aumento esponenziale della presenza e degli investimenti cinesi in numerosissimi settori economici iraniani, come quello bancario, delle telecomunicazioni – alla Cina sarebbe concesso anche lo sviluppo della rete 5G – portuale e ferroviario (questi ultimi nell’ambito del progetto infrastrutturale Belt and Road Initiative). Senza dimenticare la sfera militare, rispetto alla quale sarebbe prevista una sempre più approfondita cooperazione attraverso la creazione di un organismo congiunto per la condivisione di esercitazioni e di progetti di varia natura. La Cina si “accontenterebbe” di ricevere in cambio una fornitura regolare di petrolio iraniano a un prezzo, secondo alcune fonti, fortemente scontato.
Perché un accordo con l’Iran?
Per quanto la pubblicazione della notizia da parte del New York Times abbia attratto immediatamente grandissima attenzione internazionale, la volontà cinese di siglare un accordo di questo tipo con l’Iran era nota almeno dal 2016. Nel frattempo, a giugno 2020 il Governo guidato da Hassan Rouhani ha approvato l’iniziativa – che pare sia sostenuta dietro le quinte anche dalla Guida Suprema Khamenei – mentre manca ancora il via libera definitivo del Parlamento di Teheran oltre che, sul fronte cinese, quello del Governo della Repubblica popolare. A favorire il mantenimento di un certo grado di incertezza circa una positiva conclusione dell’intesa è, soprattutto, la volontà di chiarimenti da parte iraniana su quali concessioni la Cina effettivamente otterrebbe. Il timore, condiviso anche dall’ex Presidente iraniano Ahmadinejad, è che l’Iran venga svenduto a Pechino, che sfrutterebbe l’isolamento internazionale ed economico della Repubblica Islamica.
Anche per questo, il Ministro degli Esteri iraniano Zarif si è affrettato a smentire le voci di una possibile cessione alla Repubblica Popolare del controllo dell’isola di Kish, territorio strategico a nord dello Stretto di Hormuz. Sul fronte economico, l’esempio di numerosi paesi africani e asiatici, incastrati in vere e proprie “trappole del debito” a causa della loro adesione alla BRI, è certamente un precedente non incoraggiante dal punto di vista iraniano, ma potrebbe non essere sufficiente a impedire un’adesione di Teheran. L’economia iraniana è a dir poco disastrata: il crollo del prezzo del petrolio, il fortissimo impatto del Covid-19 e il costante fardello rappresentato dalle sanzioni statunitensi legate al progetto nucleare iraniano, sono infatti fattori difficilmente ignorabili da parte della Repubblica Islamica.
Al di là delle considerazioni di natura economica e delle reali ambizioni della Cina, è innegabile che questa intesa, qualora effettivamente conclusa, avrebbe un peso geopolitico di rara importanza. Dal punto di vista iraniano, essa rappresenterebbe l’alleggerimento del crescente isolamento internazionale, acuitosi dopo l’elezione di Donald Trump e l’uscita unilaterale, nel maggio 2018, degli Stati Uniti dall’accordo sul programma nucleare di Teheran. La successiva imposizione di nuove sanzioni e l’inizio della campagna di “massima pressione” da parte di Washington hanno colpito duramente l’Iran, spingendo le autorità del paese a guardare sempre più a est per instaurare nuove relazioni, tendenza definita “Look East Policy”.
Gli obiettivi geopolitici
Questa necessità si è sposata perfettamente con i vari obiettivi che la Cina si pone di raggiungere con un accordo di questa natura. In primo luogo, un’accresciuta sicurezza energetica, considerando che dal Golfo Persico transita circa il 50% del fabbisogno energetico cinese. È pur vero che a marzo 2020 il valore del petrolio importato da Teheran da parte di Pechino ha toccato il suo minimo da 20 anni, ma l’importanza dell’area per la Cina è comunque difficilmente sovrastimabile. In secondo luogo, nell’ambito della più ampia partita strategica con Washington, la Repubblica Popolare accrescerebbe notevolmente la propria influenza in un’area a cui da sempre si guarda con grande attenzione negli Stati Uniti e che, in ogni caso, rappresenta un hub energetico imprescindibile. Inoltre, inserendo questa volta l’intesa nel quadro della BRI, le autorità cinesi sarebbero in grado di far rientrare anche il Golfo Persico nel loro mastodontico progetto infrastrutturale, coinvolgendo sempre di più in esso anche l’alleato di ferro ormai rappresentato dal Pakistan, colpendo in contemporanea le mire indiane sull’Iran.
Su quest’ultimo fronte, per quanto il Pakistan possa vedere come un “rivale” l’Iran nel ruolo di hub portuale – basti citare i due progetti gemelli Chabahar e Gwadar – Islamabad potrebbe comunque valutare positivamente la mossa cinese, in quanto a detrimento del suo rivale storico, l’India. Proprio quest’ultima, infatti, pochi giorni dopo le indiscrezioni relative all’accordo strategico Cina-Iran, ha dovuto subire un altro duro colpo da parte della Repubblica Islamica. Teheran ha comunicato a Nuova Delhi l’intenzione di procedere in autonomia alla costruzione della ferrovia dal porto di Chabahar al confine con l’Afghanistan, rinunciando agli investimenti dell’India. La ragione ufficiale è un ritardo nell’arrivo dei fondi necessari allo sviluppo dell’opera, ma è abbastanza evidente come, data anche la cadenza temporale dell’annuncio, dietro la mossa vi sia di più.
Il collegamento ferroviario era uno dei cardini del progetto infrastrutturale indiano International North-South Transport Corridor, pensato per connettere il territorio del subcontinente con quello russo/est europeo attraverso l’Iran e bypassando il Pakistan. Oltre ad aver legato quest’ultimo a sé con un fondamentale ramo della BRI, il China-Pakistan-Economic-Corridor (CPEC), la Cina sembra quindi essere stata in grado di portare dalla sua parte anche l’Iran, negli ultimi anni fatto oggetto delle mire strategiche indiane proprio in chiave anti-pakistana. Il successo cinese emerge anche se si guarda alla crescita della relazione bilaterale Islamabad-Teheran: è di metà settembre la notizia dell’apertura di 18 mercati lungo il confine tra Iran, Pakistan e Afghanistan, con l’obiettivo di potenziare gli scambi tra i tre attori; inoltre, secondo alcuni report, l’Iran sarebbe intenzionato a diminuire le proprie importazioni di riso indiano del 20% a favore di quelle in arrivo dal Pakistan.
Quali conseguenze?
Quali che siano le dinamiche “secondarie” che un’eventuale conclusione dell’accordo tra Cina e Iran innescherebbe, è innegabile come la mossa cinese implichi, come spesso accade, ripercussioni su più fronti. Sul fronte economico/logistico, Pechino potrebbe dare un’ulteriore spinta alla BRI, progetto infrastrutturale dalle ramificazioni sempre più ampie e significative. Sul fronte geopolitico, la Repubblica Popolare metterebbe un’ulteriore bandiera in un’area dall’immensa valenza strategica, considerato che da Hormuz transita il petrolio estratto da Arabia Saudita, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti e Qatar. L’intesa, infine, dimostrerebbe una volta di più che le politiche statunitensi a firma Donald Trump rispetto all’Iran hanno avuto come conseguenza principale lo slittamento di Teheran nell’orbita di Pechino. Il recentissimo successo elettorale di Joe Biden potrebbe far tornare gli Usa su una strada meno intransigente nei confronti della Repubblica Islamica – il presidente eletto ha anche messo sul tavolo un potenziale ritorno al nuclear deal – ma si tratta di un’eventualità che dovrà essere verificata concretamente.
E l’Unione europea? Purtroppo, come spesso succede parlando di questioni internazionali, non pervenuta, perché non in grado di mettere in campo una posizione unitaria che avrebbe consentito di resistere alla pressione degli Usa a guida Trump per un allineamento di Bruxelles con la posizione irriducibile di Washington.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
Cina e Iran, rivali degli Stati Uniti, sono vicini a un accordo di partnership strategica di 25 anni. Quali conseguenze per il Medio Oriente?
La Cina è un gigante geografico, demografico ed economico. Siamo quindi abituati a sentir parlare di cifre stratosferiche in relazione alla Repubblica Popolare. Ma questo non ha impedito a molti osservatori di strabuzzare gli occhi, a metà luglio, di fronte alle indiscrezioni in merito a un accordo di partenariato strategico, della durata di 25 anni, in corso di definizione tra Pechino e Teheran e del valore di 400 miliardi di dollari. In estrema sintesi l’intesa, qualora venisse siglata, prevedrebbe un aumento esponenziale della presenza e degli investimenti cinesi in numerosissimi settori economici iraniani, come quello bancario, delle telecomunicazioni – alla Cina sarebbe concesso anche lo sviluppo della rete 5G – portuale e ferroviario (questi ultimi nell’ambito del progetto infrastrutturale Belt and Road Initiative). Senza dimenticare la sfera militare, rispetto alla quale sarebbe prevista una sempre più approfondita cooperazione attraverso la creazione di un organismo congiunto per la condivisione di esercitazioni e di progetti di varia natura. La Cina si “accontenterebbe” di ricevere in cambio una fornitura regolare di petrolio iraniano a un prezzo, secondo alcune fonti, fortemente scontato.
Perché un accordo con l’Iran?
Questo contenuto è riservato agli abbonati
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all'edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica