Le proteste non sono l’inizio di una rivoluzione, ma dimostrano che i Cinesi sono pronti a scendere in strada per chiedere la tutela dei propri diritti: raramente mettono nel mirino il governo centrale, ma piuttosto autorità locali, privati o politiche specifiche
“No ai test Covid, sì al cibo. No all’isolamento, sì alla libertà. No alle bugie, sì alla dignità. No alla rivoluzione culturale, sì alla riforma. No al grande leader, sì al voto. Non essere schiavo, sii cittadino”. È il 13 ottobre 2022. Sul Sitong Bridge, un cavalcavia nel distretto di Haidian a Pechino, compare uno striscione di protesta con questa frase. Viene rapidamente rimosso e sul web cinese vengono censurate le parole chiave in esso contenute. Pochi giorni dopo, Xi Jinping viene nominato per la terza volta segretario generale al termine del XX Congresso del Partito comunista cinese. Nelle settimane seguenti, slogan simili appaiono anche in altre città cinesi. Soprattutto nei bagni pubblici, uno dei pochi spazi privi delle telecamere di sicurezza. A fine novembre, poi, esplodono diverse proteste contro le restrizioni imposte dalla strategia zero Covid allora in vigore. All’inizio c’è persino chi parla di “rivoluzione degli A4”, prendendo spunto dai fogli bianchi tenuti in mano da diversi manifestanti che così sperano di evitare problemi con le autorità per l’assenza di slogan critici nei confronti del governo. Il tutto poi viene riassorbito in fretta, con Xi che dosa concessioni e repressione, arrivando velocemente alla riapertura della Cina e allo stesso tempo presidiando in maniera diffusa i centri nevralgici delle città del Paese per evitare la prosecuzione delle proteste.
È forse questa contingenza di poco più di un mese e mezzo l’esempio internazionalmente più celebre di protesta in Cina. Quantomeno da quanto accaduto in piazza Tiananmen nel 1989. Come se nei 33 anni seguenti i cinesi non abbiano mai rivendicato diritti, nella visione spesso stereotipata che se ne ha in Occidente. Ovviamente, non è così. Anche se le forme di protesta raramente mettono nel mirino direttamente i leader o il governo centrale, ma semmai autorità locali, privati o politiche specifiche. Un po’ per convinzione, un po’ per convenienza. Dopo Tiananmen, il Partito ha giurato di non lasciar mai più ripetere una protesta di massa in grado di mettere in discussione la sua governabilità. Per questo nelle proteste di fine novembre si cantava spesso l’Internazionale o l’inno cinese, come ad allontanare preventivamente l’accusa di mancato patriottismo o mancata fedeltà al Paese.
Come risponde il governo alle proteste
Nonostante i riflettori internazionali siano spesso rimasti spenti o semi spenti, anche a causa della censura interna, in questi 30 anni ci sono state molte altre proteste. Per restare sul tema sanitario, già nel 2003 in diverse città ci furono proteste contro la gestione dell’epidemia di SARS. Una delle principali critiche era la mancanza di trasparenza e la presunta lentezza della risposta del governo, che inizialmente aveva negato l’esistenza della malattia, silenziando medici e giornalisti che mandavano segnali d’allarme. Le proteste e le critiche portarono le autorità a riconoscere la gravità della malattia e ad adottare misure per contenerla, tra cui l’attuazione di misure di quarantena e l’aumento delle risorse per le cure mediche. Una vicenda con diversi paralleli con quella del 2019.
Al di là del fronte sanitario, ci sono stati altri episodi in cui la gestione centrale è finita nel mirino. In particolare, nel 2011, quando un treno ad alta velocità a Wenzhou si scontrò con un altro treno, uccidendo 40 persone e ferendone quasi 200. Anche in quel caso ci fu la percezione di mancanza di trasparenza e molti furono insoddisfatti della gestione dei soccorsi e del trattamento delle vittime. Una delle prime ondate di indignazione popolare a essere veicolata attraverso i social, alla quale il governo e in particolare Xi (che di lì a poco avrebbe assunto il potere) risposero rafforzando l’affidabilità della rete ferroviaria e la sua modernizzazione tecnologica.
In altri casi, invece, il governo non si è adeguato alle richieste di chi protestava. Per esempio sul caso della Diga delle Tre Gole, oggetto di insoddisfazione sin dagli anni Novanta, quando milioni di persone sono state sfollate dai pressi del fiume Yangtze per la costruzione dell’immensa opera idroelettrica. Tra i motivi delle proteste, anche il timore dell’impatto ambientale del progetto, visto il florido habitat faunistico dell’area e l’alterazione del flusso del fiume e seguenti problematiche per le comunità a valle. Il governo ha comunque continuato a sostenere la diga, sottolineandone i benefici in termini di produzione di energia elettrica, argomento divenuto cruciale dopo la crisi energetica dell’autunno del 2021.
Molto più spesso, invece, le proteste sono dirette contro aziende private o funzionari locali. Un esempio celebre è quello di Wukan, un piccolo villaggio di pescatori nella provincia di Guangdong che nel 2011 hanno protestato contro il sequestro dei loro terreni da parte dei funzionari locali a fini di sviluppo. Le proteste sono degenerate e gli abitanti hanno eretto barricate e si sono scontrati con la polizia. Alla fine si è arrivati a negoziati tra gli abitanti del villaggio e il governo, che hanno portato all’elezione di un nuovo comitato di villaggio.
Le rivendicazioni dei cinesi della “nuova era”: il lavoro
Negli ultimi anni, a differenza di quanto accadeva una volta, è diventato peraltro più complicato contenere la diffusione di questi episodi in rete. Vero che il web cinese viene definito da molti esperti una sorta di gigantesco intranet, ma allo stesso tempo tra le maglie della rete qualcosa riesce a passare. Una questione da tenere presente per Xi, che ha appena iniziato il suo terzo mandato. Le rivendicazioni dei cinesi della “nuova era” riguardano diversi argomenti. Uno di questi è il lavoro. Tra gli esempi più recenti e significativi, quello di Zhengzhou, dove il mega impianto della Foxconn è stato teatro di fughe di massa e scontri tra operai e polizia. Motivo del contendere, presunti bonus non pagati ai lavoratori che avevano scelto di restare chiusi nella bolla della fabbrica per continuare a produrre durante il Covid. Una vicenda che ha avuto un impatto rilevante sul principale fornitore di iPhone per Apple. Già nel 2019, negli stabilimenti Foxconn c’erano state proteste di dipendenti che chiedevano salari più alti e il diritto di formare un sindacato. Medesimi ingredienti della rivolta agli impianti cinesi della Honda, nello stesso anno.
Il governo è spesso riuscito a presentarsi come tutore dei diritti dei lavoratori, in particolare nel caso della cosiddetta gig economy. Già prima del Covid, i riders di servizi di consegna come Deliveroo e la cinese Meituan hanno iniziato a inscenare scioperi e proteste per le paghe troppo basse e l’assenza quasi totale di tutele. Il Partito è intervenuto per regolare maggiormente il settore, colpendo anche i colossi digitali e le loro posizioni di monopolio. Arrivando anche a mettere in discussione la famosa “cultura del 996”, cioè la tradizione di lavorare dalle nove del mattino alle nove di sera per sei giorni alla settimana, imposta dai giganti del settore tecnologico.
L’ambiente
Un altro tema che sta a cuore dei cinesi è quello ambientale. Già nel primo decennio del nuovo millennio c’erano state diverse proteste contro l’inquinamento, causato dalla rapida industrializzazione della Cina. Anche in questo caso, il governo ha recepito e agito con forza per ridurre lo smog. Soprattutto nelle grandi città come Pechino, molto meno altrove in province meno centrali. Nel 2019, in diverse città cinesi si sono verificate proteste contro i piani di costruzione di inceneritori di rifiuti. I cittadini erano preoccupati per i rischi sanitari e ambientali degli inceneritori e le proteste hanno portato alla cancellazione di diversi progetti. Anche nel 2016, la rivolta contro un impianto chimico a Chengdu, motivata dal timore di esalazioni tossiche, ha portato all’accantonamento del progetto. Ancora prima, nel 2011, stessa sorte per un impianto di produzione di paraxilene a Xiamen, sulla costa del Fujian. Più recente il caso della centrale a carbone proposta nella provincia dello Zhejiang. Nel 2021, residenti e attivisti sono riusciti a bloccare l’idea, col governo che ha contestualmente annunciato di voler aumentare gli investimenti nelle fonti di energia rinnovabili.
Le politiche identitarie e la questione immobiliare
Certo, non finisce sempre così bene. Anzi, nell’ultimo anno e mezzo sono state costruite moltissime nuove centrali a carbone. E su altri argomenti ritenuti più sensibili il governo non opera concessioni. Per esempio sulle politiche identitarie. Nel 2020, in Mongolia interna si sono verificate diverse proteste per la decisione di aumentare l’insegnamento della lingua mandarina nelle scuole della regione autonoma. Questa politica è stata vista da molti mongoli come un tentativo di erodere la loro identità culturale e di minare l’uso della lingua mongola. Le proteste hanno incluso grandi dimostrazioni e boicottaggi delle scuole, con i genitori che hanno tenuto a casa i figli per dimostrare dissenso. Ma in questo caso il governo ha risposto arrestando e detenendo diversi manifestanti e attuando misure severe per reprimere il dissenso. Come prima in Tibet o nello Xinjiang, su temi del genere Pechino non prevede nessuna possibilità di arretrare.
Più pronta ad accogliere le insoddisfazioni dei cittadini, invece, in merito alla questione immobiliare. Soprattutto se le lamentele sono in direzione di aziende private. Gli esecutivi locali e quello centrale sono intervenuti più volte per imporre o sostenere la consegna degli appartamenti da parte dei grandi sviluppatori immobiliari, caduti in una grossa crisi tra il 2021 e il 2022. In diverse occasioni, i clienti di colossi come Evergrande si sono presentati sotto le sedi delle aziende per contestare la mancata fine dei lavori di case già pagate. Le autorità sono spesso intervenute sostenendo piani di ristrutturazione aziendale che prevedono anche l’intervento diretto dello stato. Con la priorità di garantire la consegna degli appartamenti ai cittadini cinesi per evitare che la questione potesse turbare ulteriormente l’ordine sociale o diventare argomento di rivendicazione contro il sistema politico. I prezzi delle case sono stati oggetto di manifestazioni in questi anni anche a Pechino e Shenzhen, mentre a Suzhou e Chongqing si sono contestati piani di demolizione. In questi due ultimi casi si sono verificati anche degli scontri tra i residenti e le forze di polizia.
Negli ultimi anni ci sono state anche alcune proteste scaturite da abusi e violenze di genere, ma un vero e proprio movimento #MeToo non si è mai riuscito a formare. Non tanto per misoginia del Partito, quanto per la sua avversione verso qualsiasi forma di associazionismo in grado di avanzare istanze non direttamente gestibili dalle autorità.
Dopo la riapertura post Covid, le autorità locali devono invece far fronte a un altro problema: la mancanza di liquidità nelle proprie casse. A febbraio si sono verificate diverse proteste a Wuhan, Guangzhou e altre città. Coinvolti soprattutto i pensionati, arrabbiati per i tagli alle detrazioni delle spese mediche. Le autorità sanitarie locali sono d’altronde costrette a rivedere le spese, dopo che negli scorsi tre anni hanno disperso enormi risorse per lockdown e tamponi di massa, all’interno della mastodontica macchina anti Covid imposta dalla strategia di tolleranza zero voluta da Xi.
Pronti a scendere in strada
La rapida e improvvisa riapertura dei mesi scorsi non ha cancellato tutti i problemi o i motivi di rivendicazione.
Le proteste non sono l’inizio di una rivoluzione, ma dimostrano che i cinesi sono pronti a scendere in strada per chiedere la tutela dei propri diritti. Anche con più vigore di un tempo. Un elemento di cui il governo dovrà tenere conto, visto anche che la crescita imponente degli ultimi decenni ha cominciato a rallentare. Col calo demografico e una probabile quanto necessaria riforma delle pensioni che incombono all’orizzonte, Pechino sarà chiamata a dosare con ancora maggiore attenzione concessioni e repressione. Anche perché il Partito sa bene che alla base delle proteste di fine novembre, rimaste un fuoco fatuo ma comunque molto significative per la loro diffusione contemporanea in diverse città, non c’era solo la stanchezza per le politiche anti Covid. Nel mix c’erano anche la disoccupazione giovanile e l’incertezza verso il futuro, sentimento inedito quantomeno sul fronte economico per le ultime generazioni di cinesi che erano state abituate a stare sempre meglio di quelle precedenti.
Oltre ai tempestosi mari del Pacifico, il nuovo timoniere Xi dovrà essere in grado di navigare anche le acque interne, per evitare che eventuali improvvise correnti finiscano per provocare qualche burrasca.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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È forse questa contingenza di poco più di un mese e mezzo l’esempio internazionalmente più celebre di protesta in Cina. Quantomeno da quanto accaduto in piazza Tiananmen nel 1989. Come se nei 33 anni seguenti i cinesi non abbiano mai rivendicato diritti, nella visione spesso stereotipata che se ne ha in Occidente. Ovviamente, non è così. Anche se le forme di protesta raramente mettono nel mirino direttamente i leader o il governo centrale, ma semmai autorità locali, privati o politiche specifiche. Un po’ per convinzione, un po’ per convenienza. Dopo Tiananmen, il Partito ha giurato di non lasciar mai più ripetere una protesta di massa in grado di mettere in discussione la sua governabilità. Per questo nelle proteste di fine novembre si cantava spesso l’Internazionale o l’inno cinese, come ad allontanare preventivamente l’accusa di mancato patriottismo o mancata fedeltà al Paese.