La danza giapponese supera i formalismi del Kabuki e del Nō.
“Ancora oggi ho davanti agli occhi questa immagine: bambino, sono scivolato e sono caduto in tutta la mia lunghezza nel fango. Ero disteso nella merda e mi sentivo così penoso e miserevole che mancano le parole per descriverlo. Persino il ceppo d’albero mozzo voleva urlare di pena, tanto ero una preda impotente, là disteso […].Qui devo fissare chiaramente che il mio Butō è cominciato nel fango primaverile e non in relazione all’arte tradizionale del tempio e dello shintoismo. Vi posso assicurare che la mia danza è nata dal fango”. (Tatsumi Hijikata)
Fu nel 1959 che il coreografo Tatsumi Hijikata presentò per la prima volta il suo Kinijiki (“Colori proibiti”, in riferimento all’opera dello scrittore Yukio Mishima), in occasione del Festival Giapponese della Danza a Tokyo.
Si racconta che la rappresentazione, della durata prevista di appena cinque minuti, risultasse talmente oscena e scioccante che il sipario venne fatto calare prima ancora del termine della performance. Sulla scena rimasero solamente il buio e lo sconcerto del pubblico. Fu il grande trionfo del Butō.
Lo scenario in cui ha origine questa “danza delle tenebre” – come viene per l’appunto definita – è quello del Giappone post-bellico, ancora prostrato dalla bruciante sconfitta e dal dramma nucleare, in folle corsa verso un progresso tecnologico che di lì a pochi anni avrebbe prevalso su quell’ancestrale rapporto tra uomo e Natura, da sempre considerata nella cultura nipponica come lo specchio simbolico dell’animo umano.
Nel frattempo, in un processo iniziato già nei decenni precedenti, lo scenario culturale del Giappone degli anni ‘50 e ‘60 aveva iniziato a elaborare attivamente le proposte dell’avanguardia europea, sia per quanto riguarda la pittura (come Dada e Surrealismo); che la letteratura (con la traduzione di autori come il Marchese De Sade, Jean-Paul Sartre e Antonin Artaud) e naturalmente la danza.
Su quest’ultimo fronte, è importante citare il forte interesse che suscitò in Giappone la corrente dell’espressionismo tedesco (attraverso la ricezione dell’opera di Nietzsche), da cui scaturì il teatro danza di Pina Bausch, al quale spesso il Butō viene equiparato per alcune – seppur esclusivamente apparenti – similitudini formali.
La propensione al meticciato e la capacità di resistenza a ogni tentativo di codifica e velleità di “purezza” venne felicemente testimoniata da un evento europeo di grande portata quale fu il Festival di Butō, presentato a Brema nel 1992. Una vera esaltazione della diversità, sia per quanto riguarda gli ambiti culturali di provenienza dei vari artisti, che le varie concezioni di danza proposte.
Kazuo Ōno, la massima figura ispiratrice del Butō insieme a Hijikata, studiò con Baku Ishii e Takaya Eguchi, influenzati dal balletto classico occidentale e dalla scuola di Mary Wigman (pioniera della danza espressionista tedesca). La formazione di Ōno e Hijikata non è dunque legata alla tradizione coreutica giapponese del Kabuki o del Nō, che nessuno dei due peraltro aveva praticato. Né è possibile riscontrare, nella loro danza, una pedissequa imitazione dei modelli occidentali.
Il Butō di Ōno e Hijikata è qualcosa nuovo, di mai visto prima. È il grido di ribellione della materia viva contro il vuoto materialismo. È il grido del “corpo giapponese” martoriato dalla guerra, soffocato da vecchi modelli culturali in cui non si riconosce più e violentato dal “corpo estraneo” della cultura occidentale e dei suoi valori.
I richiami alla cultura tradizionale nipponica (come i kimono, o la mimica facciale che rimanda a maschere ed espressioni utilizzate nel teatro tradizionale), frequentemente utilizzati sulla scena, si amalgamano con elementi del tutto innovativi, come la completa nudità e la polvere bianca che ricopre tutto il corpo, con lo scopo di annullare la personalità individuale del danzatore, rendendolo figura neutra, pronta ad assumere qualsiasi forma, ad accogliere in sé il segreto stesso della vita.
Ma la vera rivoluzione del Butō risiede nella scelta di rappresentare tutto ciò che fino a quel momento era stato negato. Esso è esaltazione dell’erotismo del corpo, del grottesco, del deforme, di tutto ciò che rappresenta il gusto per lo scandalo e per l’iconoclastia.
Ed ecco quindi rappresentate sulla scena non la bellezza e l’eleganza aristocratica del Nō o l’estremo formalismo del Kabuki, ma la rudezza della vita contadina; la pena di corpi deformati e contorti; gli elementi della natura; bestie e spiriti inquieti. Il danzatore evoca il proprio rapporto primordiale con la terra calpestandola con i nudi piedi (da cui il significato stesso del termine Butō); assegnando a ciò che interpreta non più solo un mero valore simbolico, ma assumendolo come possibilità trasmutativa del corpo stesso, dando vita a una pura espressione corporea.
È proprio in questa sua caratteristica di creatura ibrida – quale è il Butō – in perenne tensione tra l’essere se stesso e qualcos’altro, che risiede tutto il suo “oscuro splendore” e fascino primordiale, oltre che la sua universale umanità.
“La mia danza è un incontro con l’umanità, un incontro con la vita. Ma non posso dimenticare che dormiamo tutti sulla morte […]. Se decidiamo ciò che vogliamo fare, la nostra sarà una danza morta”. (Kazuo Ōno).
La danza giapponese supera i formalismi del Kabuki e del Nō.