Due accademici sudafricani spiegano perché la chiusura delle frontiere non risolverà l’emergenza Covid-19. Soprattutto nei Paesi più poveri
“Supponiamo che abbiate la scelta tra due politiche sanitarie, A e B. La politica A comporterebbe la morte di molti anziani. La politica B provocherebbe la morte di molti bambini, soprattutto neonati. Quale scegliereste?” Comincia così un articolo scritto per “LSE (London School of Economics) Africa” da Alex Broadbent, direttore dell’Institute for the Future of Knowledge” e dal professore associato Benjamin T H Smart, entrambi della University ofJohannesburg.
“In questo momento” – scrivono i due docenti – “ci troviamo di fronte a una scelta tra misure più o meno drastiche per rallentare la diffusione di Covid-19, un virus che, al momento di scrivere, non ha fatto una vittima sotto i 10 anni, e pochissime sotto i 30 anni, con il rischio che invece aumenta esponenzialmente con l’età. Stiamo mettendo in atto misure che porteranno alla malnutrizione e alla fame milioni di persone, mettendo a rischio soprattutto i neonati e i bambini. Moltissimi dei quali nascono e moriranno in Africa.”
“Eppure” – continuano i due ricercatori – “si discute poco sulle conseguenze per la salute umana delle misure che stiamo prendendo. Né si discute di come le grandi differenze tra l’Africa e l’America, l’Europa e l’Asia possano essere importanti. Il sito web dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) non contiene alcuna guida tecnica su come i Governi africani dovrebbero affrontare i loro contesti notevolmente diversi. Il consiglio è lo stesso a livello globale, ma il contesto non lo è. Non riconoscere che una sola dimensione non è adatta a tutti potrebbe avere conseguenze letali in questa regione, forse anche più letali di quelle del virus stesso.”
Sulla pandemia che stiamo vivendo, il tema delle analisi, delle strategie e delle scelte che ne discendono è cruciale. Eppure, pochi Paesi, forse ad eccezione della Cina e della Russia, sembrano ragionare in questi termini. In Occidente sembra prevalere una logica emergenziale, venata da molta emotività, che agli attacchi del virus ha risposto con le serrate. Ha chiuso i cittadini in casa, le attività produttive e i confini. È una scelta comprensibile che risponde soprattutto a una drammatica emergenza sanitaria, ma che forse non tiene in conto gli effetti che nel medio e nel lungo periodo questo tipo di chiusure provocheranno.
Alcuni effetti drammatici di queste chiusure in realtà già li vediamo. L’abolizione de facto di Schengen mette fine a un patto che dal 1985 consentiva a tutti gli europei di circolare liberamente. Alla prima vera emergenza l’accordo totem della Comunità europea è saltato. La questione eurobond: il nord dell’Europa non li vuole perché li giudica troppo onerosi e perché non si fida dei Paesi del sud. In testa a questo fronte vi è la Germania, dimentica del fatto che dopo la guerra le fu di fatto abbonato tutto il suo debito pubblico, che, essendo pari al 100% del Pil, non avrebbero mai potuto rimborsare. Sul pulpito del No agli eurobond, tanto per fare un altro esempio, è salita anche l’Olanda la cui economia sta in piedi perché il Paese, nel silenzio delle autorità comunitarie, si è trasformato in un paradiso fiscale a danno di tutti gli altri.
Sembrava impossibile, e invece sta succedendo. L’Europa delle chiusure e dei No, costruita dopo due guerre mondiali che hanno fatto milioni di morti, è già spezzata in due e rischia di essere spazzata via da una politica che di fatto non ha visione di lungo periodo. Certamente gli eurobond sono un sacrificio per i più virtuosi e meno indebitati Paesi del nord. Ma quale sarà anche per loro il costo di una spaccatura o, peggio, della fine della comunità europea? Si sono chiesti quali prezzi pagherebbero anche loro? A valutare le parole di Angela Merkel e di Ursula von der Leyen sembrerebbe proprio di no. E la risposta alla domanda su come mai statisti di questa portata si comportino così ha una risposta sconsolante ma incontrovertibile. La politica di oggi non cerca sempre le soluzioni migliori, quelle più efficaci per sé stessa.
Da anni ormai vediamo una classe dirigente politica che di fronte ai problemi cerca il consenso dei propri elettori, non la soluzione più giusta. E questo introduce il tema della fine della democrazia, che studiosi e politologi di tutto il mondo portano avanti inascoltati da ormai troppo tempo. Se la politica europea ascolta la pancia e non la testa dei propri elettori si arriva a situazioni implosive come questa. Non c’è quindi da stupirsi se anche i più accesi democratici guardano oggi a Cina e Russia con attenzione e interesse.
E allora, in questo contesto, le intuizioni dei due professori sudafricani appaiono particolarmente appropriate. Loro si concentrano sull’Africa e a noi, questa loro preoccupazione, in un momento del genere può anche sembrare non prioritaria. Ma così non è. In un’economia globale e iperconnessa dalle crisi non se ne esce chiudendo i confini e pensando solo a sé stessi. Questo vale per i tedeschi nei confronti degli europei del sud, ma vale anche per gli americani, gli asiatici e gli europei nei confronti degli africani.
“In Africa” – scrivono Broadbent e Smart – “milioni di persone moriranno di fame se l’economia globale entrerà in una fase di rallentamento prolungato. Dobbiamo chiederci se il numero sarà superiore a quello che Covid-19 ucciderà in una regione dove solo il 6,09% della popolazione ha più di 65 anni. Stiamo assistendo solo all’inizio del disastro economico, e quindi del disastro sanitario, che ci travolgerà come conseguenza delle misure di distanziamento sociale.”
La situazione non è facile. Ma per questo occorre sbagliare il meno possibile. La pandemia è drammatica. La sua escalation in tutto il mondo è di dimensioni bibliche. Il rischio di contagio – oramai è chiaro – sarà realmente finito soltanto quando arriverà il vaccino, cioè tra circa un anno. Ma la tristissima contabilità dei decessi dovrebbe farci riflettere. Saranno più quelli che farà il virus o quelli che produrrà la crisi economica? Qual è la logica che ci deve guidare?
È la logica del male minore. I medici, oggi in prima linea come mai, tutti i giorni si trovano a dover compiere scelte del genere. Chi salvare e chi abbandonare al proprio destino. Anche la politica in questo caso è condannata alla logica del male minore. Ma le scelte vanno fatte con la testa e non con la pancia e avendo uno sguardo ulteriore, prospettico. Valutando ogni scenario e gli effetti nel lungo termine, facendosi aiutare da chi è competente, da chi ha capacità di analisi e previsione. Ci stiamo giocando molto più della salute di pochi, ci stiamo giocando il futuro di tutti.
“Supponiamo che abbiate la scelta tra due politiche sanitarie, A e B. La politica A comporterebbe la morte di molti anziani. La politica B provocherebbe la morte di molti bambini, soprattutto neonati. Quale scegliereste?” Comincia così un articolo scritto per “LSE (London School of Economics) Africa” da Alex Broadbent, direttore dell’Institute for the Future of Knowledge” e dal professore associato Benjamin T H Smart, entrambi della University ofJohannesburg.
“In questo momento” – scrivono i due docenti – “ci troviamo di fronte a una scelta tra misure più o meno drastiche per rallentare la diffusione di Covid-19, un virus che, al momento di scrivere, non ha fatto una vittima sotto i 10 anni, e pochissime sotto i 30 anni, con il rischio che invece aumenta esponenzialmente con l’età. Stiamo mettendo in atto misure che porteranno alla malnutrizione e alla fame milioni di persone, mettendo a rischio soprattutto i neonati e i bambini. Moltissimi dei quali nascono e moriranno in Africa.”
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