Secondo Monnet, “L’Europa si farà attraverso le crisi”. Con la pandemia da Covid, l'Ue ha sostenuto i suoi Paesi con un piano di rilancio senza precedenti, da non sprecare
Secondo Monnet, “L’Europa si farà attraverso le crisi”. Con la pandemia da Covid, l’Ue ha sostenuto i suoi Paesi con un piano di rilancio senza precedenti, da non sprecare
Nella primavera del 2020 la gestione sanitaria della pandemia è stata accompagnata da uno sforzo titanico dei Governi per mantenere in vita un sistema produttivo artificialmente ibernato dai lockdown. Dopo qualche esitazione iniziale (e con qualche eccezione: si pensi alla Svezia), è stato chiaro abbastanza in fretta per governi e istituzioni internazionali che non si trattava di scegliere tra il salvare le vite o l’economia, ma tra il salvare entrambe o nessuna.
In Europa, la prima linea nel contrasto alla pandemia sono stati i governi dei paesi membri; questo era inevitabile. L’Unione europea è un’unione di Stati sovrani e né la gestione della sanità, né la politica fiscale e di bilancio sono tra gli ambiti per cui le competenze sono di tipo federale. Per la seconda non può essere altrimenti, in ossequio al motto no taxation without representation, le decisioni di spesa e di tassazione non possono che essere prese al livello che è responsabile di fronte agli elettori.
Sono stati quindi gli Stati ad introdurre un arsenale di misure volte a sostenere famiglie e imprese. Le misure di sostegno all’economia rientravano in tre grandi categorie: in primo luogo il sostegno ai sistemi sanitari sotto stress (anche, se non soprattutto, perché sistematicamente sottofinanziati da almeno un decennio); poi, misure per preservare l’occupazione e sostenere i redditi dei lavoratori licenziati e degli autonomi; infine, misure a sostegno della liquidità delle imprese, con rinvii o cancellazione delle scadenze fiscali e sostegno dell’offerta di credito con garanzie statali. Il primo paese ad introdurre misure lungo queste linee è stato proprio l’Italia, con il decreto “CuraItalia”. In quasi tutti i paesi europei le misure sono state estese e rinnovate man mano che gli effetti economici della pandemia si dispiegavano; con la seconda ondata sono state prorogate quasi ovunque fino al primo trimestre del 2021. L’effetto delle misure sulle finanze pubbliche è stato immediato; per l’eurozona per il 2020 il disavanzo medio è schizzato all’8,7% (in Italia 10,8%) e il debito pubblico aumenta di quasi venti punti, dall’86% al 104,5% del Pil (in Italia dal 135% al 158% almeno).
Questo sforzo colossale dei governi europei ha prodotto i suoi frutti. Nel suo bollettino trimestrale dell’ottobre scorso la Banca d’Italia notava che il numero di occupati si è ridotto in misura sensibilmente inferiore del Pil e delle ore lavorate, anche grazie al diffuso ricorso alla cassa integrazione e alle misure di tutela dell’occupazione a tempo indeterminato. La speranza (non solo in Italia) è che quando queste misure di sostegno verranno meno, occupazione e salari non crolleranno ma saranno sostenuti dalla ripresa economica.
Il fatto che l’Europa non fosse in prima linea non deve far immaginare che essa sia stata assente. Negli anni scorsi ho spesso pensato che la crisi del debito sovrano fosse venuta a smentire il detto di Jean Monnet per cui L’Europa si farà attraverso le crisi, e sarà costituita dalla sommatoria delle soluzioni che saranno date a queste crisi. La cattiva gestione della crisi greca, l’adesione generalizzata ad un’austerità fine a sé stessa, riforme istituzionali che nel loro complesso avevano mirato a rafforzare la sorveglianza sulle finanze pubbliche; tutto questo componeva un quadro desolante, di una crisi sprecata e non utilizzata per costruire un’Europa più coesa. La primavera del 2020 ha smentito queste convinzioni fosche. È come se gli errori degli anni precedenti, in qualche modo metabolizzati, abbiano spinto a “fare la cosa giusta”.
Le istituzioni europee si sono fatte garanti dello sforzo dei paesi membri. La Commissione ha immediatamente deciso di sospendere la vigilanza sul debito e ammorbidire la normativa sugli aiuti di Stato. Contemporaneamente, la Bce ha aperto un ombrello protettivo varando un vasto programma di acquisti di titoli pubblici (il Pepp) che recentemente è stato esteso fino alla primavera del 2022. Questo ha contribuito a ridurre i tassi di interesse, rendendo più sostenibile il debito. Le istituzioni europee hanno anche messo a disposizione degli Stati membri prestiti per le spese più urgenti, sanità e mercato del lavoro. Che si trattasse di meccanismi esistenti come il Mes, o di nuova creazione come il Fondo Sure per i mercati del lavoro, il principio era lo stesso: l’Europa si indebita a tassi di favore e gira i fondi ai paesi che possono così risparmiare sulla spesa per interessi. Se il Mes non è decollato (e andrebbe definitivamente accantonato) per difetti strutturali che la nuova linea pandemica non ha eliminato, il Sure è stato plebiscitato e nell’autunno 2020 ha iniziato a erogare prestiti per 90 miliardi a 18 paesi.
Se il ruolo dell’Europa nel breve periodo non poteva che essere limitato, le cose cambiano se ci si proietta nel lungo periodo. Una volta messa alle nostre spalle la crisi occorrerà affrontare le sfide che la pandemia ci ha lasciato in eredità. Si tratta in questo caso di provvedere alla fornitura di “beni pubblici globali”, fondamentali per la ripresa e per il lungo periodo, come la transizione verso una crescita sostenibile, il rilancio dell’investimento pubblico, la digitalizzazione, il ripensamento dei nostri sistemi di welfare. Nemmeno i paesi europei più grandi possono sperare di affrontare queste sfide da soli: la maggiore efficacia di investimenti coordinati, le economie di scala, le “esternalità”, sono tutti elementi che militano in favore di politiche condotte, o almeno finanziate e coordinate, a livello comune.
È questo che ha ispirato il piano Next Generation EU che affianca il Fondo per la Ripresa e altri meccanismi al bilancio europeo stanziando una somma colossale, circa 750 miliardi. Il Fondo per la Ripresa ha un valore simbolico importante, perché la Commissione si indebiterà, per la prima volta per somme così ingenti, e ridistribuirà i fondi ai paesi membri in base ai bisogni: un meccanismo di mutualizzazione del debito, sia pure temporaneo e limitato, che ha per la prima volta visto il consenso della Germania. Inoltre, la Commissione ha innestato questo programma di rilancio sulle sue priorità di lungo periodo: crescita verde, sostenibile e inclusiva, modernizzazione.
Sarebbe stato auspicabile che questo sforzo di indebitamento comune potesse essere messo al servizio di un vasto programma di investimenti europei. Ma, ancora una volta, l’Ue non è uno stato federale. Proprio il fatto che concezione e attuazione dei Piani nazionali di ripresa e resilienza (i PNRR) del Next Generation siano affidate ai paesi membri ha reso necessarie stringenti condizioni. Gli strettissimi paletti posti per la stesura dei PNRR sono da valutare con favore perché volti a garantire una coerenza d’insieme delle strategie nazionali e una maggiore efficacia nella fornitura dei beni pubblici globali. È un peccato anzi che i Paesi membri non siano andati oltre, collaborando tra loro nella definizione dei propri piani di investimento nazionali. Chi si straccia le vesti per queste condizioni, peraltro, dimentica che i finanziamenti a fondo perduto sono un’eccezione, in Europa come a livello nazionale. Condizioni sulla destinazione d’uso sono la norma, che si tratti di prestiti o di trasferimenti.
Insomma, l’Europa ha risposto ‘presente’ di fronte alla pandemia, sostenendo i paesi membri nell’immediato e lanciando un programma comune per governare la ripresa nel medio periodo. Dove i vecchi vizi della nostra casa comune si sono confermati è nel comportamento degli stati membri, che come quasi sempre in passato hanno anteposto l’interesse nazionale a quello comune. Si è visto nel caso della minaccia di veto ungherese e polacca al bilancio europeo; e si è visto soprattutto nell’ambito dei negoziati per il Next Generation EU, dove i paesi cosiddetti “frugali” hanno eretto barricate contro politiche comuni e hanno alla fine ceduto solo in cambio di concessioni finanziarie significative (quei rebates che con la Brexit avremmo sperato di non vedere più). Ancora più grave è stato il pretendere la riduzione dei finanziamenti per beni pubblici autenticamente europei come l’istruzione, il programma Invest Europe e la sanità. Delle lotte fra stati preoccupati di pagare il meno possibile ha fatto ad esempio le spese la proposta per un embrione di Unione della sanità (il programma EU4Health, già modesto, ha visto i suoi finanziamenti dimezzati).
Insomma, la gestione della pandemia sembra dirci che fatta (almeno in parte) l’Europa, ora occorra concentrarsi sul fare gli Stati europei.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Nella primavera del 2020 la gestione sanitaria della pandemia è stata accompagnata da uno sforzo titanico dei Governi per mantenere in vita un sistema produttivo artificialmente ibernato dai lockdown. Dopo qualche esitazione iniziale (e con qualche eccezione: si pensi alla Svezia), è stato chiaro abbastanza in fretta per governi e istituzioni internazionali che non si trattava di scegliere tra il salvare le vite o l’economia, ma tra il salvare entrambe o nessuna.
In Europa, la prima linea nel contrasto alla pandemia sono stati i governi dei paesi membri; questo era inevitabile. L’Unione europea è un’unione di Stati sovrani e né la gestione della sanità, né la politica fiscale e di bilancio sono tra gli ambiti per cui le competenze sono di tipo federale. Per la seconda non può essere altrimenti, in ossequio al motto no taxation without representation, le decisioni di spesa e di tassazione non possono che essere prese al livello che è responsabile di fronte agli elettori.
Questo contenuto è riservato agli abbonati
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all'edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica