Croazia: la presidenza spingerà per l’allargamento dell’Ue, per lo sblocco dei negoziati con la Macedonia del Nord e l’Albania contro il veto di Francia e Olanda
Croazia: la presidenza spingerà per l’allargamento dell’Ue, per lo sblocco dei negoziati con la Macedonia del Nord e l’Albania contro il veto di Francia e Olanda
A inizio gennaio Zoran Milanović, esponente dei socialdemocratici dell’SDP, è stato eletto Presidente della Croazia (52.7% dei voti), sconfiggendo al secondo turno la candidata uscente, Kolinda Grabar-Kitarović (47.3%), sostenuta dall’HDZ, il centro-destra attualmente al Governo. La vittoria del centro-sinistra è arrivata come un fulmine a ciel sereno: al primo turno Milanović aveva incassato il 30% delle preferenze e Grabar-Kitarović il 27%, ma l’estrema destra guidata da Miroslav Škoro aveva strappato un clamoroso 24%. A fronte di questo exploit complessivo della destra, Grabar-Kitarović sembrava avviarsi verso una facile riconferma. In previsione del ballottaggio aveva non a caso ammiccato all’elettorato più radicale. Una strategia controproducente: i sostenitori di Škoro hanno votato in massa scheda bianca e Milanović ha incassato il voto degli elettori moderati, tra cui molti che si erano astenuti al primo turno.
Questo risultato sorprendente ha inaugurato una fase di dibattito interno all’HDZ, da cui la politica croata potrebbe emergere rivoluzionata. Il partito di maggioranza è diviso tra una fazione più moderata ed europeista, rappresentata dal premier Andrej Plenković, e una più oltranzista, favorevole ad una maggiore interazione con gli Usa e all’avvicinamento al Gruppo diVisegrád. Il congresso dell’HDZ, previsto per la primavera, si prospetta come il redde rationem tra le due anime del partito, che dovrà scegliere se concludere la propria metamorfosi in una formazione di centro-destra o ritornare agli estremismi degli esordi. Su questa crisi di identità incombono le elezioni parlamentari, in programma per dicembre: i sondaggi danno l’HDZ davanti al SDP solo per due punti.
La vittoria di Milanović ha quasi perfettamente coinciso con l’inizio del semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione europea a guida croata − una première. La presidenza del semestre europeo è una carica perlopiù cerimoniale. Agende e priorità sono comunque decise (e influenzate) dagli effettivi rapporti di forza tra gli Stati membri, a prescindere da chi segga sullo scranno più alto per un determinato semestre. È altresì un’opportunità prestigiosa, soprattutto per gli Stati più piccoli o periferici, per guadagnare visibilità a livello internazionale. Nel caso della Croazia, l’ultima arrivata in casa Ue (2013), questi sei mesi sono dunque un passaggio simbolico molto significativo. Come spiega l’analista Dejan Jović, della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Zagabria, “la Croazia anela a essere riconosciuta come uno Stato normale. Tra il 1991 e il 2013 è stato un Paese osservato, giudicato, valutato da soggetti terzi. La presidenza equivale a poter dire: ora siamo divenuti un soggetto, non più solo un oggetto, della politica europea”.
Un’analisi che sembra riecheggiare nelle parole pronunciate da Plenković alla cerimonia inaugurale: “La presidenza è un momento importante per la Croazia, che completa il nostro ciclo storico dall’indipendenza all’affermazione in Europa e nel mondo”. Dopo anni movimentati (guerra di secessione 1991-95, reintegro dei territori, adesione a Nato e Ue), oggi Zagabria mira a integrarsi compiutamente nelle strutture euroatlantiche. Proprio lo scorso anno sono giunti riconoscimenti prestigiosi su questo versante. “La nomina di alcune figure politiche – tutte donne − in alcune posizioni chiave, come Marija Pejčinović Burić, eletta Segretario del Consiglio d’Europa, e Dubravka Šuica, vicepresidente della Commissione europea, è funzionale a questo obiettivo: sentirsi inclusi ed integrati negli affari europei. Vogliamo passare di categoria, politicamente ed economicamente”, spiega Jović. Dimostrando a sé e ai propri partner di essere ormai divenuto uno Stato “normale”, la repubblica post-jugoslava mira ad ottenere anche due concreti obiettivi politici: l’entrata nell’area Schengen, approvata compattamente da tutta la cittadinanza, e quella nell’Eurozona, meno popolare, ma caldeggiata dalla maggioranza dell’establishment.
Sulla carta, le quattro priorità della presidenza croata, espresse in un programma di cinquanta pagine disponibile sul sito del Governo, sono le seguenti: un’Europa che si sviluppa; un’Europa che collega; un’Europa che protegge; un’Europa influente. Come sanno bene gli addetti ai lavori, questi slogan astratti, caratteristici della paludata comunicazione Ue, non sono granché utili per individuare le aree di concreto interesse su cui interverranno i decisori politici continentali, destinate a egemonizzare il semestre croato. Realisticamente, queste sono principalmente tre: la gestione della fase conclusiva della Brexit, le negoziazioni del quadro finanziario pluriennale 2021-2027 e la riforma del processo di allargamento dell’Ue ai Balcani occidentali. Se sui primi due incandescenti dossier la voce di Zagabria, peso piuma nel ring comunitario, non potrà che essere molto flebile, sull’ultimo, a lei più prossimo per ragioni storico-geografiche, potrebbe dire la sua.
A oggi il processo di allargamento è virtualmente congelato, in seguito al gravoso non all’apertura dei negoziati con Macedonia del Nord e Albania sancito dal Consiglio europeo lo scorso ottobre su diktat francese. La repubblica post-jugoslava potrebbe sfruttare la presidenza per ridare nuova linfa all’integrazione dei Balcani occidentali, facendosi interprete tra la regione cui appartiene e i membri Ue più restii ad accettare nuovi membri, in primis Francia e Paesi Bassi. Proprio per esaudire le loro richieste, a inizio febbraio il Commissario europeo Olivér Várhelyi ha presentato una versione riformata del processo di adesione, che rende ancora più stringenti i criteri cui devono ottemperare gli Stati candidati. In previsione del summit di metà maggio a Zagabria, la diplomazia croata proverà a muoversi dietro le quinte per rimettere comunque in moto l’espansione europea verso sud-est, quantomeno per i due candidati scartati a ottobre. L’azione mediatrice della Croazia è facilitata dal non avere alcuna controversia in corso né con Skopje né con Tirana. Con gli altri tre Stati balcanici candidati − Montenegro, Bosnia Erzegovina e Serbia (il Kosovo lo è solo in teoria) − i rapporti sono invece molto più tesi.
Proprio per imporre le sue ragioni alle antiche consorelle jugoslave Zagabria aspira a riattivare il processo di allargamento, dove è in grado di sfruttare il fatto di avere già in tasca la tessera Ue per piegare Podgorica, Sarajevo e Belgrado a più miti consigli. Se con la prima gli attriti sono minimi (una mera questione di demarcazione territoriale nella penisola di Prevlaka), con le seconde due sono svariati gli ambiti di frizione, quasi tutti risalenti ai conflitti degli anni ’90 e al loro pesante lascito. Sul fronte bosniaco, la Croazia pretende un miglior trattamento della propria diaspora. I croato-bosniaci (circa il 15% della popolazione) sono riconosciuti come “popolo costituente” della Bosnia Erzegovina, ma vivono principalmente nella Federazione croato-musulmana e non in un’entità autonoma, come invece i serbi, maggioranza nella Republika Srpska, l’altra entità che compone il Paese. I croati oltreconfine si aspettano che la madrepatria difenda le loro ragioni e ne faccia le veci con il Governo centrale di Sarajevo, nell’intento di strappare maggiori tutele e privilegi. Sul fronte serbo, la rivendicazione è invece sempre la stessa: Zagabria esige che Belgrado ammetta di essere stato il principale responsabile delle guerre che hanno frantumato la federazione titina.
Anche visto dal quadrante sudorientale dell’Ue, il processo di integrazione dei Balcani occidentali si conferma dunque plasmato più dalle istanze dei singoli Stati già membri che, come sarebbe stando ai trattati, dagli effettivi progressi dei paesi candidati. Continuare a bocciare gli alunni balcanici pur a fronte di pagelle discrete è una scelta miope, che rischia di minare la credibilità del collegio docenti comunitario in maniera fatale. Probabilmente, quest’ultimo se ne accorgerà solo quando gli studenti se ne saranno andati.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
A inizio gennaio Zoran Milanović, esponente dei socialdemocratici dell’SDP, è stato eletto Presidente della Croazia (52.7% dei voti), sconfiggendo al secondo turno la candidata uscente, Kolinda Grabar-Kitarović (47.3%), sostenuta dall’HDZ, il centro-destra attualmente al Governo. La vittoria del centro-sinistra è arrivata come un fulmine a ciel sereno: al primo turno Milanović aveva incassato il 30% delle preferenze e Grabar-Kitarović il 27%, ma l’estrema destra guidata da Miroslav Škoro aveva strappato un clamoroso 24%. A fronte di questo exploit complessivo della destra, Grabar-Kitarović sembrava avviarsi verso una facile riconferma. In previsione del ballottaggio aveva non a caso ammiccato all’elettorato più radicale. Una strategia controproducente: i sostenitori di Škoro hanno votato in massa scheda bianca e Milanović ha incassato il voto degli elettori moderati, tra cui molti che si erano astenuti al primo turno.
Questo risultato sorprendente ha inaugurato una fase di dibattito interno all’HDZ, da cui la politica croata potrebbe emergere rivoluzionata. Il partito di maggioranza è diviso tra una fazione più moderata ed europeista, rappresentata dal premier Andrej Plenković, e una più oltranzista, favorevole ad una maggiore interazione con gli Usa e all’avvicinamento al Gruppo diVisegrád. Il congresso dell’HDZ, previsto per la primavera, si prospetta come il redde rationem tra le due anime del partito, che dovrà scegliere se concludere la propria metamorfosi in una formazione di centro-destra o ritornare agli estremismi degli esordi. Su questa crisi di identità incombono le elezioni parlamentari, in programma per dicembre: i sondaggi danno l’HDZ davanti al SDP solo per due punti.
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