Ci siamo abituati ai droni. Nei filmati dei telegiornali li vediamo sfrecciare sui campi di battaglia lanciando missili più o meno intelligenti o raccogliendo vitali informazioni che facilitano l’impiego delle truppe sul campo.
Altri modelli sorvolano gli incendi boschivi per individuare, attraverso telecamere all’infrarosso, dove il fuoco covi ancora sotto la cenere ed indirizzarvi nuovi, mirati, interventi degli addetti allo spegnimento. Sempre sul terreno, piccoli robot cingolati disinnescano ordigni improvvisati o aprono portiere di auto sospette.
Ogni giorno si scoprono attività che l’uomo ha una gran voglia di delegare a velivoli, veicoli ed apparecchiature senza personale a bordo. Sono le cosiddette mansioni D3 cioè quelle “dull, dirty and dangerous” (noiose, sporche e pericolose), cose da lasciare di preferenza alle macchine.
Ma se lo spazio, l’atmosfera ed il terreno si vanno gradualmente popolando di mezzi non presidiati dall’uomo, cosa succederà sopra e sotto la superficie del mare?
In superficie il pattugliamento delle coste e, soprattutto, le attività anti-pirateria sono probabilmente la prossima frontiera che potrà essere affrontata da piccoli natanti autonomi, lanciati da terra o dalle navi commerciali.
Ci si può immaginare ad esempio il capitano di una petroliera che avvista sul radar un natante sospetto, in una zona sospetta di pirateria e vara un velocissimo ASV (autonomoussurface vessel), grande meno di una scialuppa di salvataggio, ma dotato di armamento automatico e di telecamere notturne e diurne: i tecnici a bordo potranno gestirlo in remoto dal ponte di comando, valutando in tempo reale le immagini dell’equipaggio sospetto, il loro equipaggiamento ed atteggiamento, per poi infine decidere come intervenire. Il tutto a distanza di sicurezza.
La Marina americana già da tempo conduce esercizi con sciami di piccole “gun boat” autonome, che si guidano da sole per intercettare e attaccare i bersagli in mare, per quanto – finora almeno – il compito di premere materialmente il “grilletto” è ancora affidato a un marinaio umano che segue le loro evoluzioni.
Dal punto di vista tecnologico le applicazioni di superficie non sono più problematiche di quelle aeree, anzi… Un motore in avaria o un computer difettoso sono ovviamente un problema meno drammatico su di una imbarcazione che su di un velivolo.
Sott’acqua invece le cose cambiano. Va da sé che tutte le attività sottomarine sono anch’esse classificabili “D3” perché, se l’uomo è nato senza ali, è nato purtroppo anche senza pinne e senza branchie.
L’individuazione e la neutralizzazione di campi minati, la mappatura dei fondali marini, ricerche oceanografiche sulle correnti, sulle temperature e sull’inquinamento, sono tutte operazioni lunghe e costose se eseguite da unità navali. Si vanno quindi diffondendo progetti di ricerca finalizzati all’utilizzo di sciami di mini sommergibili autonomi (AUV), sotto il controllo di stazioni ubicate sulla terraferma o a bordo di vascelli di servizio.
Il NATO CMRE, centro per la ricerca e le sperimentazioni navali, basato a La Spezia, in Italia, ha già condotto numerose campagne nel Mar Ligure e nel Mar di Sardegna per testare l’utilizzo di questa tecnologia.
Purtroppo la navigazione subacquea, rispetto a quella di superficie ed aerea, ha alcuni problemi: i sistemi di navigazione satellitare e le comunicazioni in radiofrequenza non sono possibili; i motori a combustione interna non si possono usare per mancanza di ossigeno e la propulsione elettrica, a mezzo di batterie, non assicura autonomie sufficienti per la gran parte delle missioni.
Ecco quindi nascere gli alianti subacquei come quelli, ad esempio, sviluppati dalla Teledyne Webb Research con il suo Slocumo dalla Kongsberg Maritime con il Seaglider.
Immaginateli come piccoli siluri dotati di lunghe ali orizzontali. Delle pompe elettriche espellono o incamerano modeste quantità di acqua di mare in pochi secondi, variando così la galleggiabilità dell’AUV ed inoltre spostando il baricentro verso prua o verso poppa. Quando l’aliante è più leggero dell’acqua, inizia ad emergere, acquistando un assetto cabrante e guadagnando una spinta in avanti. Raggiunta una determinata quota, ma avendo anche percorso una certa distanza orizzontale, aziona nuovamente le pompe per caricare acqua ed affondare.
Adesso il suo assetto sarà in picchiata ed otterrà ancora una spinta orizzontale per tutta la durata della discesa. Simile ad una barca a vela, che avanza controvento tirando degli stretti bordi di bolina, così questo AUV procede a dente di sega: un po’ in sù, un po’ in giù… ma sempre in avanti.
Impegnando i motori elettrici solo occasionalmente e per brevissimo tempo, il veicolo consente missioni della durata di settimane o addirittura mesi tra una ricarica e la successiva… naturalmente a scapito della velocità che non supera il mezzo metro al secondo.
Ma come fa questo bradipo subacqueo a conoscere la sua posizione, comunicare i dati raccolti dai suoi numerosi strumenti e ricevere eventuali istruzioni durante la missione?
In questo esso emula il comportamento dei cetacei: ha bisogno di tanto in tanto di una breve emersione. Giusto il tempo perché le sue piccole antenne (GPS ed RF) si mettano in contatto con la base e gli facciano “respirare” i dati che gli servono ed “espirare” quelli che da lui ci si aspetta. Poi il sistema di navigazione inerziale di cui è dotato, gli consentirà di mantenere una sufficiente consapevolezza della propria posizione… fino alla successiva “boccata d’aria”.
Ci siamo abituati ai droni. Nei filmati dei telegiornali li vediamo sfrecciare sui campi di battaglia lanciando missili più o meno intelligenti o raccogliendo vitali informazioni che facilitano l’impiego delle truppe sul campo.
Altri modelli sorvolano gli incendi boschivi per individuare, attraverso telecamere all’infrarosso, dove il fuoco covi ancora sotto la cenere ed indirizzarvi nuovi, mirati, interventi degli addetti allo spegnimento. Sempre sul terreno, piccoli robot cingolati disinnescano ordigni improvvisati o aprono portiere di auto sospette.