Le incertezze che circondano l’appuntamento con le europee sono da ricercarsi nella sfiducia degli elettori nei confronti dei Governi nazionali. Non nella Ue
Il Parlamento Europeo che verrà eletto nel 2019 sarà diverso dal precedente. Entrambi i principali gruppi politici, il Partito popolare europeo (Ppe) e i Socialisti e Democratici (S&D), perderanno seggi. Per la prima volta dal 1979, cioè da quando il Parlamento viene eletto direttamente, i due gruppi non saranno in grado di formare una maggioranza parlamentare. Dovranno ottenere il sostegno dei liberaldemocratici (ALDE) per controllare il potere legislativo, magari con il sostegno del movimento di Emmanuel Macron. Ma questa grande coalizione presenterà importanti lacune rappresentative.
I due partiti di Governo italiani saranno esclusi dalla nuova maggioranza, così come il partito di Governo polacco e il principale partito belga. Se il Ppe taglierà i rapporti con Viktor Orban, neanche il partito di Governo ungherese parteciperà. A seconda dell’esito delle elezioni, mancherà anche il primo o secondo partito politico francese: il Rassemblement national di Marine Le Pen. Ciò non significa che questi gruppi formeranno un unico blocco di opposizione “populista”, contrapposto alla nuova maggioranza del Parlamento Europeo; sono troppo distanti tra loro perché un simile sviluppo sia plausibile. Piuttosto vale la pena osservare che il nuovo Parlamento Europeo sarà come la maggior parte dei parlamenti nazionali europei, la composizione politica dell’assemblea sarà estremamente frammentaria. A seconda del Paese in cui vivono gli elettori, il nuovo Parlamento Europeo sarà anche poco rappresentativo.
Questa frammentazione, insieme alla mancanza di rappresentazione che comporta, è importante sia come causa che come effetto . Il messaggio che trasmette all’elettorato è che le vecchie ideologie tradizionali continuano a dominare le posizioni di rilievo e l’agenda legislativa, mentre nuove questioni, idee o forme di rappresentanza politica faticano a imporsi. Questo messaggio non giova all’immagine del Parlamento Europeo in un momento in cui la partecipazione alle elezioni europee non fa che diminuire. Ed è un messaggio che non promette bene nel momento in cui la generazione più anziana, forgiata da un’esperienza di Europa come progetto di pace durante la Guerra Fredda, passa il testimone alle generazioni successive, che hanno poca o nessuna memoria del conflitto tra liberalismo, comunismo e fascismo che ha plasmato il “mainstream“.
Le nuove generazioni guardano piuttosto all’Europa come a un baluardo contro le forze della globalizzazione e forse anche come a un’opportunità per costruire una democrazia oltre lo Stato nazionale. Per questi giovani elettori (“giovani” rispetto ai sostenitori del Ppe, dei S&D e dell’ALDE) vedere i gruppi ideologici mainstream far fronte comune per proteggere i propri privilegi istituzionali può essere una fonte di profonda frustrazione e disillusione. Al momento possiamo solo speculare sull’impatto che una simile coalizione avrebbe sugli atteggiamenti popolari. È sempre possibile che gli elettori, abituati alle grandi coalizioni in politica interna, si scrollino di dosso il simbolismo di questa nuova maggioranza nel Parlamento Europeo. È tutto da vedere, ma è difficile immaginare che le giovani generazioni trovino in un nuovo sodalizio tra Ppe, S&D e ALDE una fonte d’ispirazione per l’Europa.
Molto dipenderà dalle forze che hanno portato la politica europea alla situazione attuale, indebolendo il sostegno ai partiti politici tradizionali e l’entusiasmo degli elettori per le elezioni europee. Qui abbiamo basi analitiche più solide: gli esperti di scienze sociali si interrogano infatti da oltre un quarto di secolo, ovvero da quando il popolo danese pose per la prima volta il veto alla ratifica del Trattato di Maastricht, sulle ragioni alla base del calo di popolarità del progetto europeo e della frammentazione dell’elettorato. Nel frattempo sono state formulate due diverse teorie per spiegare gli sviluppi della politica europea, sia a livello nazionale che in tutta l’Ue. La prima riguarda la tensione tra l’integrazione europea e la sovranità nazionale; la seconda riguarda il crescente disincanto degli elettori dei diversi Paesi nei confronti delle classi dirigenti.
La tesi avanzata da studiosi quali Liesbet Hooghe e Gary Marks riguarda l’eccessiva ambizione europea. A un certo punto le classi dirigenti hanno fatto promesse troppo grandi in relazione al progetto europeo e hanno investito troppo capitale politico nell’espansione delle competenze europee al fine di onorare tali promesse. Hanno promosso la libera circolazione delle persone tra Paesi dell’Unione, fissato i tassi di cambio per creare una moneta europea, esteso l’adesione all’Ue a una vasta gamma di Paesi lontani per costumi e tradizioni dai Paesi “centrali” dell’Europa occidentale e posto vincoli ai nuovi Stati membri che le loro popolazioni non erano né pronte né disposte ad accettare. In base a questa teoria, le ambizioni delle élite filoeuropee avrebbero sorpassato il naturale scetticismo degli elettori nazionali.
Lo scarto tra le politiche dell’Ue e le aspirazioni dei cittadini europei ha permesso ai partiti di opposizione di mobilitare gli elettori contro l’Europa. Paradossalmente, tale mobilitazione è stata più efficace laddove vi era consenso della classe dirigente. Circa l’85% dei politici danesi votò a favore del Trattato di Maastricht quando fu sottoposto per la prima volta al referendum nel giugno 1992, mentre la maggioranza del popolo danese era contraria. Nei decenni successivi questo paradigma si è ripetuto nei Paesi più disparati, dall’Irlanda alla Francia e dai Paesi Bassi al Regno Unito. Sempre più spesso, inoltre, la stessa dinamica ha giocato un ruolo fondamentale nelle elezioni europee. È per questo che i partiti euroscettici hanno prevalso in passato; non c’è motivo di credere che queste elezioni vadano diversamente. Anzi, la frustrazione per le eccessive ambizioni europee è oggi più radicata che mai.
Un’altra tesi, discussa nelle opere di studiosi come Stefano Bartolini e Peter Mair, si concentra sulla debolezza delle istituzioni nazionali. Secondo questa teoria l’espansione dell’Europa non sarebbe la causa della disaffezione popolare, ma una sua conseguenza. L’inesorabile mix di cambiamento demografico, innovazione tecnologica e globalizzazione economica costringe i politici ad adattarsi continuamente, sia per quanto riguarda la fornitura di beni e servizi pubblici, sia nella gestione delle aspettative popolari. In molti casi questo comporta la rottura di impegni di lunga data al fine di creare opportunità formative o favorire l’avanzamento, o per contrastare l’incertezza legata all’assistenza sanitaria, all’occupazione o alla pensione. I politici nazionali si rivolgono alle istituzioni europee per evitare scomodi dibattiti interni e per scaricare le colpe di decisioni politiche impopolari. Allo stesso modo si rivolgono ad altre istituzioni “politicamente indipendenti” come i currency board (o le valute comuni), i consigli di bilancio e le banche centrali.
Simili tentativi di eludere i processi democratici non producono soluzioni a lungo termine. Anzi, gli adattamenti una tantum non hanno saputo offrire altro che soluzioni provvisorie. La “riforma” è diventata un punto fisso su ogni agenda politica. In un contesto del genere i partiti di opposizione non hanno avuto difficoltà a mobilitare gli elettori contro i Governi nazionali, accusati di esimersi dalle proprie responsabilità e di tradire la fiducia dell’elettorato. Vale la pena sottolineare che l’Ue non è al centro di questa teoria, secondo la quale la disaffezione per l’Europa sarebbe soltanto il sintomo di una frustrazione più profonda nei confronti delle classi dirigenti nazionali. In questo senso le elezioni europee ci dicono quello che gli elettori vogliono comunicare ai politici nazionali, piuttosto che rispecchiare ciò che pensano dell’Ue. La soluzione non risiede quindi nel ridimensionare il progetto europeo limitandone la portata e l’espansione, ma nel porre rimedio alla mancanza di fiducia degli elettori nei confronti dei politici nazionali.
La difficoltà sta nel decidere quale tra queste due tesi sia corretta, ma bisogna riconoscere che gli elementi a sostegno della seconda, quella che pone l’accento sulla disaffezione nazionale, sono piuttosto convincenti. I sondaggi mostrano che la disaffezione nei confronti dell’Europa di per sé è un problema meno grave di quanto non suggerisca la teoria dell’eccessiva espansione: l’integrazione europea continua a consolidarsi, eppure il sostegno popolare all’Europa è aumentato negli ultimi tre anni ed è più forte tra le giovani generazioni. Allo stesso tempo i sondaggi dimostrano puntualmente che nella maggior parte dei Paesi europei gli elettori sono più disincantati nei confronti dei governi nazionali che rispetto all’Ue. Nel frattempo i populisti, che faticano a guadagnare popolarità con i loro tentativi di mobilitare i giovani contro le istituzioni europee, hanno cominciato a prendere di mira altre istituzioni politicamente indipendenti, tra cui innanzitutto le banche centrali.
Se questa teoria fosse corretta, allora la frammentazione del prossimo Parlamento Europeo non dovrebbe allarmarci. Dovremmo preoccuparci piuttosto della debolezza delle istituzioni politiche nazionali e della frustrazione degli elettori per il modo in cui sono rappresentati dalla classe politica nazionale. La frustrazione nei confronti dell’Ue è sintomatica di un più profondo problema di governance democratica e non si estinguerà del tutto finché questo problema non verrà affrontato.
@Erik_Jones_SAIS
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
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Le incertezze che circondano l’appuntamento con le europee sono da ricercarsi nella sfiducia degli elettori nei confronti dei Governi nazionali. Non nella Ue