Elezioni USA viste da Cina e Asia
Sia Kamala Harris sia Donald Trump sembrano voler mettere l'Indo-Pacifico al centro della propria politica estera, ma i due candidati hanno un approccio assai diverso al sistema di alleanze americano nella regione.
L'Asia si prepara alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Quanto accadrà a Washington e dintorni avrà un forte impatto anche sul fronte orientale. Sia Kamala Harris sia Donald Trump sembrano voler mettere l'Indo-Pacifico al centro della propria politica estera, ma i due candidati hanno un approccio assai diverso al sistema di alleanze americano nella regione. Un sistema di alleanze che è stato molto rafforzato da Joe Biden durante il suo mandato. È presumibile attendersi che un'eventuale amministrazione Harris resti su quel solco.
I risultati raggiunti dalla Casa Bianca in materia, aiutata anche dagli effetti collaterali della guerra in Ucraina, sono diversi: lancio dell'AUKUS, il patto per sviluppare in modo congiunto sottomarini a propulsione nucleare con Regno Unito e Australia, allo scopo di schierarli nelle acque del Pacifico. È stata rivitalizzata ed estesa l'alleanza con il Giappone, mentre gli accordi militari con Corea del Sud e Filippine sono stati ampliati e rafforzati. La Casa Bianca ha anche favorito la creazione di un'architettura di sicurezza regionale attraverso la promozione di iniziative minilaterali. Per esempio, attraverso il disgelo tra Giappone e Corea del Sud, certificato dal summit di Camp David dell'agosto 2023 col premier (poi diventato ex) Fumio Kishida e il presidente Yoon Suk-yeol. Ma anche la creazione di un nuovo asse tra Giappone e Filippine col più recente summit di Washington con lo stesso Kishida e il presidente Ferdinand Marcos Junior. Non solo. Giappone e Corea del Sud si sono inseriti nei meccanismi di partnership della Nato, con cui hanno siglato due documenti di cooperazione. Dopo una storica visita a Hanoi nel settembre 2023, gli Usa hanno iniziato anche a stabilire legami in materia di difesa e sicurezza con il Vietnam.
Allo stesso tempo, le tensioni si sono inasprite su diversi teatri. Primo: lo Stretto di Taiwan, con la Cina che ha aumentato il pressing strategico e militare dopo la visita di Nancy Pelosi dell'agosto 2022. Secondo: il mar Cinese meridionale, con i frequenti incidenti nelle acque contese tra Cina e Filippine, nonché alcuni incidenti sfiorati tra jet e navi di Pechino e Washington. Terzo: la penisola coreana, con Biden che non è riuscito in alcun modo a riavviare il dialogo con Pyongyang, che anzi ha alzato enormemente il tiro e ha stretto un preoccupante accordo di mutua difesa con la Russia.
Ciononostante, diversi Paesi vedono in Harris un potenziale conforto e segnale di stabilità, una rassicurazione sull'impegno di Washington nella regione. Elemento ancora più importante dopo che le elezioni della scorsa settimana hanno restituito un Giappone in preda all'incertezza politica.
Per la stessa Cina, Harris significherebbe probabilmente continuità. Vero che lo status quo delle relazioni non entusiasma di certo Pechino, ma allo stesso tempo i democratici hanno mostrato il desiderio di provare a gestire la competizione tra le due grandi potenze, mantenendo sempre aperto il dialogo a tutti i livelli.
I sentimenti cinesi verso Trump sono ambivalenti. Dal punto di vista strategico, la Cina potrebbe avere qualche vantaggio. Diversi governi regionali temono che il possibile ritorno di Trump possano mettere in discussione la rete di sicurezza intessuta da Biden. Già durante il primo mandato, il leader repubblicano chiese aumenti esponenziali delle spese di difesa agli alleati, Corea del Sud in primis. Rischiando di far saltare intese decennali. Non a caso, Seul ha spinto per mesi con l'amministrazione Biden per rinnovare l'accordo quinquennale sulle spese di difesa, necessarie tra le altre cose a mantenere i 28mila e 500 soldati statunitensi presenti sul suo territorio. Dopo otto cicli di negoziati, condotti per lo più con un basso profilo e con grande riservatezza ecco l'intesa, nonostante l'accordo in essere scada solo alla fine del 2025. Il nuovo accordo entrerà in vigore nel 2026 e durerà fino al 2030. Lo stesso schema potrebbe ripetersi con Taiwan. In campagna elettorale, Trump ha ammonito Taipei, sostenendo che in cambio della tutela difensiva gli Usa dall'isola "non ricevono nulla". Per poi attaccare sul fronte dei microchip, che secondo il candidato repubblicano i colossi taiwanesi avrebbero "sottratto" agli States. Taipei è fiduciosa di restare una priorità dell'approccio globale di Washington anche in caso di un Trump bis, ma sa che ha bisogno di essere posta all'interno di un'architettura regionale le cui fondamenta devono essere periodicamente rafforzate dagli Stati Uniti.
Per la Cina, un altro potenziale effetto positivo di un ritorno di Trump potrebbe arrivare sulla guerra in Ucraina. Un pressing americano per mettere fine al conflitto e trovare un accordo con Vladimir Putin toglierebbe Xi Jinping dall'imbarazzo per il suo rapporto privilegiato con la Russia, appianando uno dei principali ostacoli alle relazioni con l'Europa.
La parte negativa riguarda invece l'economia. Trump ha promesso un aumento monstre delle tariffe su tutte le tipologie di prodotti cinesi. Pechino teme molto un nuovo inasprimento della guerra commerciale, anche perché in questo momento l'economia è la sua vera priorità. Per questo c'è anche chi ritiene che Harris potrebbe essere il male minore, anche per la sua maggiore prevedibilità rispetto a Trump. Ancora poco e in Asia sapranno chi sarà il nuovo volto del principale rivale, o principale alleato.