Ripercorriamo con Federica Mogherini la storia recente delle ragioni del processo di integrazione europea. Scopriremo molte cose che non sappiamo…
Nel 2017 Federica Mogherini, allora Alto Rappresentante Ue per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza, tenne un discorso in occasione del 25esimo anniversario del Trattato di Maastricht, ricordando le grandi ambizioni che lo ispirarono: “Il Trattato di Maastricht è stato rivoluzionario: per la prima volta nella storia del mondo, costruire la pace è diventata l’aspirazione di un intero continente”. Nel suo discorso Mogherini, nata nel 1973 e laureatasi all’inizio degli anni ‘90, rammentò anche lo spirito della propria epoca: “Ricordo molto bene le speranze della mia generazione alla fine della Guerra fredda, le audaci speranze e aspettative per un ‘nuovo ordine mondiale’”. Altri della stessa generazione in tutta Europa condividono questo ricordo.
Mogherini inviava il suo messaggio proprio da Maastricht, città che, in momenti di particolare fiducia in sé stessa, si definisce il “balcone d’Europa”: un luogo che, seppur isolato, consente di guardare oltre il quotidiano e la propria identità. In Europa ci sono tanti “balconi” di questo tipo. Sono tutti costruiti su complesse storie locali, in cui lo spirito del tempo, la politica e il potere diventano l’intreccio psicologico che, in sostanza, ne costituisce l’essenza.
Negli anni ‘20 e ‘30 il romanziere francese Roger Martin du Gard si posizionava in un luogo simile per rivisitare il momento fatale in cui l’Europa sprofondò nella sua Grande guerra, ormai un secolo fa. È da quella postazione che Martin du Gard scrisse la sua grande epopea familiare, intitolata Les Thibaults, in cui descrive l’ondata di false notizie e bluff veri e propri alla vigilia Prima guerra mondiale. Una folle corsa alimentata dalle smanie di grandezza delle nazioni e di alcuni individui che ben presto divenne troppo violenta e travolgente per l’Europa, segnando l’inizio di un nuovo capitolo nero della sua storia: un periodo di ben 75 anni durante i quali l’Europa, secondo lo storico britannico Norman Davies, “è stata divisa dalla più lunga delle sue guerre civili”, dal 1914 al 1990.
Nell’ultima parte del suo libro Martin du Gard descrive l’estate 1914, quando nessuno riuscì a sottrarsi alla transizione dalla pace alla guerra, dalla libertà all’oppressione. Una transizione nel corso della quale “tutto succede come se l’individuo, vivendo in tempi di pace, avesse dimenticato un fatto essenziale della condizione sociale”, ovvero che il singolo è impotente senza gli altri, e laddove gli altri sono impotenti, lo è anche il singolo.
La guerra civile più lunga d’Europa si è conclusa solo nel 1990 con il trattato di pace con la Germania. Questo trattato ha gettato le basi per la riunificazione dell’Europa, sancita dal Trattato sull’Ue, firmato a Maastricht. Ma l’Europa di Maastricht è diversa da quella del dopoguerra a cui ci eravamo abituati nella parte occidentale.
Una delle cose che stiamo riscoprendo è che l’Europa occidentale del dopoguerra, la cosiddetta “Europa americana”, potrebbe essere stata poco più di una parentesi per un continente traumatizzato: una fuga dalla politica e dalla storia verso la tecnocrazia e una gestione anglosassone delle forze di mercato. E, come ogni tentativo di evasione, temporanea, una soluzione geopolitica provvisoria legata alla storica confidence americana. Se questo fosse vero anche solo in parte, allora l’“Europa americana” non avrebbe mai potuto sostituire la vecchia “Europa europea”. Ce ne rendiamo conto? Sappiamo a che punto siamo? Forse no.
Dopo gli orrori della Prima guerra mondiale il giornalista-scrittore-provocateur italiano Curzio Malaparte sognava di tornare a Parigi, la città europea che più amava. Quando finalmente vi fece ritorno alla fine degli anni ‘40, Malaparte dovette ammettere di non sentirsi più a casa nella capitale francese. Mentre Malaparte era infelice a Parigi, la capitale cecoslovacca era alla vigilia del colpo di Stato del 1948, grazie al quale il partito comunista ceco, con l’appoggio sovietico, assunse il controllo del Governo, segnando l’inizio di quattro decenni di dominio comunista nel Paese. Nella nuova Praga comunista il filosofo Jan Patocka, bandito dall’insegnamento, gestiva la cosiddetta “università sotterranea”. Qui si poteva partecipare a un “impressionante tentativo di vivere nella verità”, come ricordò più tardi lo studente di Patocka, Václav Havel.
Il “Socrate di Praga”, come veniva chiamato Patocka, insegnava ai suoi studenti che la storia non è una favola con una trama e un lieto fine, ma una lotta incessante contro l’offuscamento della verità a opera della menzogna, contro l’assolutismo della razionalizzazione e del consumismo, e contro tutte le altre banalità umane che contrastano l’ispirazione e l’apertura. Patocka sosteneva che l’Europa avrebbe dovuto impegnarsi costantemente in questa lotta e che se non l’avesse fatto sarebbe tornata a sguazzare nell’illusione, sperando in soluzioni semplici per far sparire i problemi.
All’indomani della caduta del muro di Berlino, gli ex studenti dell’università sotterranea di Jan Patocka erano forse più consapevoli dei punti di forza e delle debolezze dell’Europa aperta di allora rispetto agli europei occidentali. Mentre questi ultimi guardavano a ovest, ancora pieni di speranza, Havel e compagni cercarono di reinventare un Occidente radicato nel difficile ma essenziale esercizio dei diritti umani. La ritenevano un’operazione urgente.
Nel novembre 1959 il filosofo Isaiah Berlin tenne una conferenza a lungo dimenticata al terzo congresso della Fondazione Europea della Cultura a Vienna, dal titolo “L’unità europea e le sue vicissitudini”. Nel suo discorso Berlin affrontò la questione dei continui alti e bassi dell’unità europea. In un passaggio chiave, egli chiarisce questa dinamica con parole che rimangono di grande attualità ancora oggi:
“La storia europea è una sorta di dialettica tra il desiderio di ordine pubblico e di libertà individuale… La ricerca dell’ordine è una specie di paura di fronte agli elementi (…) uno sforzo di preservare le ringhiere di cui gli esseri umani hanno bisogno per non cadere nell’abisso, per ricollegarsi al passato e intravedere una strada verso il futuro. Ma quando le istituzioni si irrigidiscono troppo e ostacolano la crescita, l’ordine diventa oppressione (…) prima o poi viene spezzato da un desiderio quasi fisiologico di vivere, creare, dall’esigenza di novità e cambiamento.”
Una descrizione avvincente, questa, del ritmo della storia europea. Ciò che Berlin coglie qui sono le due anime dell’Occidente, della cultura europea: illuminazione e romanticismo, ragione e sentimento, calcolo ed emozione.
Queste due anime formano i due poli tra cui oscilla il pendolo della storia europea, da un estremo all’altro, avanti e indietro. Questo schema di alti e bassi, questo oscillare tra ragione ed emozione, luce e buio, rivoluzione e ancien régime è un modello compatibile con i concetti dominanti del pensiero novecentesco: dalla dialettica di Hegel e Marx alla distruzione creativa di Joseph Schumpeter. Un modello che ci dice che ogni cambiamento decisivo deve essere accompagnato dalla rottura violenta dell’ordine esistente. Ma sembra anche uno schema troppo semplicistico per cogliere gli anni ‘90 europei, questo diaframma della storia europea contemporanea, questo fortunato intermezzo tra la caduta del muro di Berlino e l’11 settembre.
All’epoca, negli anni ‘90, era opinione comune che l’ordine della cooperazione e della riconciliazione non era, e non sarebbe diventato, un ordine oppressivo. Al contrario: l’ordine esistente era percepito come un ordine di liberazione e si credeva che sarebbe rimasto tale. Un ordine che poteva sabotare il pendolo della storia europea: la rivoluzione senza rivoluzione. In effetti, con il Trattato di Maastricht, l’Europa stava cercando esplicitamente di scendere da questa folle altalena della storia, rafforzando le istituzioni di cooperazione che aveva già creato durante il secolo americano, in modo da renderle adatte al secolo successivo, più europeo.
Se vogliamo proteggere lo spirito aperto degli anni ‘90 e non ridicolizzarlo, dobbiamo darci da fare. Dobbiamo iniziare a scrivere la storia di quegli anni. Troppo pochi conoscono le grandi speranze della nuova Europa che Federica Mogherini e tanti altri della sua generazione ricordano così vividamente. Sta a noi studiare l’Europa del post-1914, quella nata dopo il 1945, il 1990 e il 2016. Spetta a noi valutarla nel modo più critico possibile, metterla alla prova e, così facendo, cercare di custodire quell’essenziale lezione europea sulla condizione sociale: che il singolo è impotente senza gli altri, e laddove gli altri sono impotenti, lo è anche il singolo.
@MathieuLLSegers
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Puoi acquistare la rivista in edicola o abbonarti.
Ripercorriamo con Federica Mogherini la storia recente delle ragioni del processo di integrazione europea. Scopriremo molte cose che non sappiamo…