Il viaggio di Biden in Europa, prima grande uscita internazionale, ha disegnato la strategia della nuova amministrazione su rapporti con l’Unione europea, la Russia e la Cina
Chiaramente il recente viaggio del Presidente Joe Biden in Europa perseguiva almeno tre scopi. Il primo era quello di ricostruire l’Occidente dopo che tre anni di aggressiva presidenza Trump, nonché di ossessiva ripetizione del mantra “America First“, lo avevano ridotto a un cumulo di macerie presidiato da una Nato che il Presidente francese Macron aveva definito con buona approssimazione come prossima alla sua morte cerebrale.
Il viaggio in Europa
Una ricostruzione che si presentava come particolarmente difficile, in quanto da un lato comportava il riconoscere insieme all’Unione europea come il cemento fondante del rapporto transatlantico consistesse non nei singoli interessi di parte, economici, finanziari, doganali o commerciali che essi fossero, bensì nei valori ideali condivisi dai due lati dell’Atlantico. D’altro canto poi la ritrovata unità avrebbe potuto rivelarsi in seguito come un risultato soltanto momentaneo e parziale qualora non si fosse riusciti a convincere parimenti il resto del mondo che l’Occidente era tornato al centro della scena internazionale, e tornato tanto forte da potersi permettere di nuovo di proporre il suo modello come una alternativa ai modelli delle varie democrature, evidenziatisi in questi ultimi anni, per molti versi più rapidamente efficaci sul piano pratico.
Il secondo obiettivo consisteva nell’instaurare con la Cina un rapporto nuovo che prendesse atto del grande pericolo che la straordinaria velocità di crescita del Dragone costituiva, o avrebbe potuto costituire, in tutti i campi. Il risultato doveva però essere raggiunto senza indulgere ad estremi che finissero con l’incidere su altri settori in cui il comune interesse di Paesi in fondo già economicamente interdipendenti doveva essere in ogni caso tutelato.
Il terzo scopo della visita infine era quello di riportare a termini accettabili un rapporto con la Russia che negli ultimi tempi aveva raggiunto livelli molto prossimi a quelli dei peggiori momenti della Guerra fredda e tali da indurre il Presidente Putin a un uso dell’unico asset realmente efficace di cui disponesse, la forza militare, che si faceva di giorno in giorno sempre più spregiudicato e quindi sempre più pericoloso.
Una politica comune euro-americana
In sostanza, se guardiamo ai risultati conseguiti dalla visita di Biden, tutti e tre gli obiettivi della visita sembrano essere stati almeno parzialmente conseguiti. L’Occidente appare ricompattato e capace di lanciare un forte messaggio di attrazione, mentre la Nato ritrova una vera ragione d’essere tornando a imporsi come il custode indiscusso della sua sicurezza e dei suoi valori. Con la Cina, nel contempo, i rapporti sono stati chiariti al di là di ogni possibilità di dubbio. Da un lato infatti le si attribuisce lo status, per molti versi privilegiato, di primo sfidante del potere occidentale. Dall’altro invece si chiarisce come essa non potrà né contare in futuro sul proseguimento della indulgenza con cui si era accolta, e in un certo senso accettata, la sua opera di penetrazione nei nostri territori, né continuare a mantenere in eterno sbilanciata a proprio favore una bilancia di scambi commerciali che drena ogni anno ingentissime risorse trasferendole dall’Occidente al colosso asiatico. Alla Russia, infine, è stata almeno in parte riconosciuta quella condizione di grande potenza che essa teneva particolarmente a recuperare. In cambio però Mosca ha dovuto acconsentire, anche se non formalmente, a non approfondire ulteriormente un rapporto con la Cina divenuto negli anni recenti tanto stretto da preoccupare non soltanto l’Occidente ma persino la Russia stessa.
Tutto risolto, dunque? No certamente, anche perché la visita di Biden si è limitata a fissare le grandi linee di una politica comune euro-americana che nei prossimi anni dovrà poi affrontare, l’uno dopo l’altro, problemi complessi e di difficile, quando non difficilissima, soluzione. La conferma della validità del risultato conseguito potrà quindi venir data soltanto dalla prova dei fatti e sarà opportuno a tale riguardo non dimenticare mai il vecchio detto secondo cui “il diavolo si nasconde sempre nei particolari”. Si impongono in ogni caso a questo punto alcune considerazioni. La prima riguarda l’atteggiamento particolarmente deciso di Biden, nonché il coraggio con cui egli ha imposto agli Stati Uniti una linea di politica internazionale non soltanto completamente diversa da quella seguita dal suo predecessore ma anche molto innovativa rispetto a quelle elaborate a suo tempo da Presidenti Usa democratici come Obama e Clinton.
La leadership di Joe Biden
In un certo senso l’attuale Presidente americano ha avuto il coraggio di fare ciò che i suoi predecessori non avevano mai osato intraprendere, temendo probabilmente reazioni di politica interna americana che avrebbero potuto incidere o sull’appoggio da parte del proprio Partito o sulle sue personali prospettive di rielezione. La tarda età di Biden, vista da tutti come uno svantaggio per il suo mandato in quanto tra l’altro lo rende ineleggibile alla prossima tornata presidenziale, si è così evidenziata alla prova dei fatti come un notevole vantaggio, consentendogli invece di proiettarsi nella sua prima grande uscita internazionale libero da tutti quei lacci che avevano condizionato i suoi predecessori. Un fatto su cui i rappresentanti e l’elettorato americano farebbero forse bene a riflettere.
La seconda cosa che colpisce è la natura della leadership esercitata in questa occasione da Biden. Da sempre infatti noi eravamo abituati a considerare quella americana come una leadership aggressiva, di tipo in un certo senso “maschile “, basata cioè in primo luogo sulla competizione. Una caratteristica, tra l’altro, pienamente condivisa dalla leadership sovietica di un tempo e in momenti più recenti da quella della Russia di Putin. La leadership esercitata dai cinesi, per contro, era basata, almeno in apparenza, più sulla cooperazione che sulla competizione, ricercando unicamente − secondo le dichiarate intenzioni dei dirigenti locali − di costruire un mondo in armonia in cui però alla Cina fosse riservato il ruolo di “Paese indispensabile” o “Paese al centro di tutto”. Una leadership, insomma, del tipo che attualmente si usa indicare quale “femminile”.
Con questo suo viaggio e col modo in cui si è presentato e ha agito, Biden ha però inciso radicalmente sulla abituale distribuzione dei ruoli, adottando senza esitazione il tipo di leadership fino a ieri tipica dell’Impero di Mezzo e presentando a tutto il mondo gli Stati Uniti come il vero ed unico “Paese indispensabile e al centro di tutto” della scena internazionale. C’è da chiedersi ora, e questo è il terzo punto su cui concentrarsi, come reagirà Pechino a tutti questi nuovi elementi di situazione, perché di sicuro il Dragone reagirà, anche se non è affatto detto che ciò avvenga nel breve o nel medio periodo. Il senso del tempo degli orientali, e in particolare dei cinesi, è infatti molto diverso da quello di noi occidentali.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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Una ricostruzione che si presentava come particolarmente difficile, in quanto da un lato comportava il riconoscere insieme all’Unione europea come il cemento fondante del rapporto transatlantico consistesse non nei singoli interessi di parte, economici, finanziari, doganali o commerciali che essi fossero, bensì nei valori ideali condivisi dai due lati dell’Atlantico. D’altro canto poi la ritrovata unità avrebbe potuto rivelarsi in seguito come un risultato soltanto momentaneo e parziale qualora non si fosse riusciti a convincere parimenti il resto del mondo che l’Occidente era tornato al centro della scena internazionale, e tornato tanto forte da potersi permettere di nuovo di proporre il suo modello come una alternativa ai modelli delle varie democrature, evidenziatisi in questi ultimi anni, per molti versi più rapidamente efficaci sul piano pratico.