L’Italia delle imprese e dell’istruzione riapre a metà. Confindustria e sindacati in disaccordo sulle regole e una parte del personale scolastico è sedotto dagli anti-vax
Quello del 2021 sarà ricordato come “l’autunno caldo del Green Pass”. La questione più scottante del rientro, più del Recovery Fund, della ripartenza economica, degli ammortizzatori sociali legati alla pandemia e della gestione dei possibili licenziamenti finora congelati per decreto. A ben vedere non si tratta di una questione di secondo piano. Riguarda la ripresa delle attività in presenza e la fine dello smart working che ha caratterizzato il lockdown. Naturalmente, poche aziende hanno fatto una riflessione seria sull’esperienza della quarantena in ufficio, su cosa ci sia da buttare e cosa ci sia da salvare, sulle nuove frontiere del lavoro “smart” ovvero agile, elastico. Nella maggior parte delle imprese i dirigenti del personale hanno suonato la campanella del rientro come il pastore per le greggi dell’alpeggio: si torna in valle, tutto come prima. Come se si fosse schiacciato nuovamente il tasto pausa dopo una parentesi di un anno e mezzo. Anche se è mancata, grazie ai no vax, l’immunità di gregge, il gregge torna in azienda. Ma non è facile per decine di milioni di lavoratori italiani ritrovare i cari vecchi pascoli dell’ufficio o della fabbrica. Ci sono prima le forche caudine del Green Pass ad attenderli.
L’unico aspetto certo riguarda le mense aziendali: non si entra senza il certificato verde. È discriminazione? C’è una foto che ha fatto il giro dei giornali e dei social media: i lavoratori dell’Ikea costretti a mangiare per terra col vassoio in mano come a un picnic perché sprovvisti di permesso.
Per il resto, il mondo del lavoro ha vissuto per mesi nell’incertezza a causa dell’altalena tra obbligo di vaccinazione per tutti e rischi di discriminazione, sollevato soprattutto dai sindacati. Vedremo come il problema esiste soprattutto a livello giuridico e non sia campato per aria. Ma intanto la politica sanitaria e aziendale ha girato a vuoto.
Alla fine è arrivato l’affondo del Presidente di Confindustria, con un appello del Presidente Carlo Bonomi a non perdere tempo con una riserva di legge, poiché si può introdurre subito il Green Pass obbligatorio nelle aziende modificando i Protocolli di sicurezza. Le rappresentanze hanno risposto “ni”. La cautela dei sindacati è dovuta al fatto che il Green Pass odora di discriminazione: ci potrebbe essere chi è sprovvisto del “lasciapassare vaccinale” perché non ha potuto immunizzarsi. O che magari, non volendo immunizzarsi, deve pagarsi il tampone ogni 48 ore di tasca sua, dunque a norma di diritti civili insorgerebbe una sottile differenza tra ricchi e poveri. Basta fare due conti. Un tampone costa 15 euro, se ne serve uno ogni 48 ore per ottenere il certificato occorrono circa 2.340 Euro per continuare a lavorare e fruire, ad esempio, del diritto alla mensa. Non solo: che succede se il datore di lavoro finanzia il tampone a chi gli sta simpatico e lascia fuori dall’azienda i dipendenti che vuole spingere all’uscita? Nei contesti lavorativi non mancano purtroppo – come dimostrano le sentenze dei giudici del lavoro – questo tipo di pressioni.
Ha detto il segretario della Cisl Luigi Sbarra: “Bisogna evitare che i luoghi di lavoro diventino un campo di battaglia. Il Green Pass è sicuramente uno strumento utile. Ma non si possono fissare regole in modo unilaterale senza alcun confronto”. E conclude: “C’è un solo modo per uscire dall’emergenza: “l’obbligo del vaccino”. Aggiunge il segretario della Cgil Maurizio Landini: “Se il governo ritiene che il vaccino debba essere obbligatorio per tutti, proponga subito al Parlamento una legge. Noi non siamo contrari”.
Ma l’obbligo del vaccino è un tema vacillante sul piano del diritto, perché non si può imporre ex lege un trattamento sanitario. La Consulta potrebbe valutare il provvedimento come anticostituzionale e gettare il Paese ancor più nel caos. I sindacati sono travolti dalle critiche: “Strizzate l’occhio ai no vax”. Quelli di Leonardo − ex Finmeccanica − arrivano a scrivere in un comunicato che “i vaccini non sono una cura definitiva” e che “Aifa ha autorizzato i monoclonali e Ema gli immunosoppressori”. Il Governo, defilato, assiste. Prigioniero, anche lui, dei veti politici della Lega all’obbligo del Green Pass per lavorare. Lascia che i problemi scivolino via affidandosi al destino (o alla provvidenza). Come il generale Kutuzov di Guerra e pace.
Ci vorrebbe un colpo d’ala della politica, ma la politica non ha saputo dare risposte certe. E intanto in mezzo a queste dispute etiche, il mondo del lavoro fatica a ripartire, dopo i mesi devastanti della pandemia. Il Green Pass potrebbe essere un modo per rilanciare la concertazione e invece ha rilanciato la prova d’orchestra felliniana: un caos di dissonanze, esecuzioni improvvisate, anarchia di interpretazioni.
Naturalmente già milioni di lavoratori sono obbligati strutturalmente al Green Pass, come medici e infermieri, farmacisti e parafarmacisti, dipendenti di strutture assistenziali come le Rsa. Chi non si adegua, sarà considerato assente ingiustificato, e a partire dal quinto giorno di assenza il rapporto di lavoro sarà sospeso, senza retribuzione. Ma fino al primo settembre non è stato sottoposto ad alcun obbligo il personale dei trasporti, delle cucine, degli addetti alle pulizie, alla manutenzione di impianti sanitari. E dunque perché non estendere le stesse regole per tutti gli altri lavoratori italiani?
A queste contraddizioni si somma il fatto che, nonostante il vaccino non sia obbligatorio, il certificato di immunità Covid viene richiesto praticamente ovunque per entrare nei luoghi pubblici, dai ristoranti agli uffici postali. Se si ritiene che quello sia lo strumento utile per affrontare l’emergenza allora – si sostiene − si creino le condizioni per evitare la discriminazione tra lavoratori facendo in modo che tutti possano ottenere, nei modi previsti, la certificazione gratuitamente. Ad oggi, un lavoratore fragile, un lavoratore precario, un disabile che non può vaccinarsi deve pagare il costo del tampone semplicemente per vivere. Per non parlare del paradosso burlesco dei dipendenti che stanno insieme in ufficio e poi devono separarsi quando arriva l’ora della mensa.
Il Governo ha poi deciso di estendere il certificato verde alle categorie del pubblico impiego, così come è previsto per il personale scolastico. E qui arrivano altre dolenti note. Note del registro, non musicali.
Nella scuola l’obiettivo è stato quello di evitare la didattica a distanza. Il personale scolastico dovrà essere vaccinato (tranne i fragili che non possono essere sottoposti a immunizzazione) mentre gli studenti avranno solo l’obbligo di mascherina chirurgica, anche tra i banchi (distribuita gratuitamente). Per chi rifiuta c’è la sospensione dello stipendio e il divieto di entrata nell’istituto. Il Ministro dell’Istruzione Bianchi ha messo sul piatto 420 milioni per pagare i docenti precari che sostituiscono i professori sospesi introducendo l’inedita categoria dei “supplenti vaccinali”. E anche qui si è gridato alla discriminazione. Anche perché nonostante la classe insegnante sia la grande riserva intellettuale del Paese i “no vax” e gli adepti ai nuovi timori del Medioevo postmoderno sono centinaia di migliaia, pari al 20% del personale scolastico.
Ma chi controlla il Green Pass dei professori? Il Governo ha stabilito che siano i presidi o dei loro delegati. Una decisione che ha scatenato polemiche, per cui il garante della privacy si è messo all’opera per trovare una soluzione alternativa. Peccato che l’associazione nazionale dei dirigenti scolastici non abbia firmato il Protocollo d’intesa. Il Presidente dell’associazione però è favorevole al Green Pass. Tipica soluzione italiana. Come dire che tra i presidi si è d’accordo a metà. Del resto non esistono anche i “ni vax” in questo martoriato Paese?
E così come sempre l’Italia delle imprese e dell’istruzione ha riaperto a modo suo: in ordine sparso. Il Covid invece, con le sue varianti, ha la cattiva abitudine di viaggiare molto compatto, come è noto. Ditelo ai “ni vax”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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Quello del 2021 sarà ricordato come “l’autunno caldo del Green Pass”. La questione più scottante del rientro, più del Recovery Fund, della ripartenza economica, degli ammortizzatori sociali legati alla pandemia e della gestione dei possibili licenziamenti finora congelati per decreto. A ben vedere non si tratta di una questione di secondo piano. Riguarda la ripresa delle attività in presenza e la fine dello smart working che ha caratterizzato il lockdown. Naturalmente, poche aziende hanno fatto una riflessione seria sull’esperienza della quarantena in ufficio, su cosa ci sia da buttare e cosa ci sia da salvare, sulle nuove frontiere del lavoro “smart” ovvero agile, elastico. Nella maggior parte delle imprese i dirigenti del personale hanno suonato la campanella del rientro come il pastore per le greggi dell’alpeggio: si torna in valle, tutto come prima. Come se si fosse schiacciato nuovamente il tasto pausa dopo una parentesi di un anno e mezzo. Anche se è mancata, grazie ai no vax, l’immunità di gregge, il gregge torna in azienda. Ma non è facile per decine di milioni di lavoratori italiani ritrovare i cari vecchi pascoli dell’ufficio o della fabbrica. Ci sono prima le forche caudine del Green Pass ad attenderli.