I sondaggi e i modelli predittivi si muovono in una forbice stretta di qualche punto e ci raccontano di una corsa serratissima. Un testa a testa tra Harris e Trump che si giocherà all’ultimo voto e che potrebbe finire in qualsiasi modo, deciso da una manciata di voti.
Manca un mese alle presidenziali americane. Il 5 novembre prossimo si arriverà al culmine di una durissima campagna elettorale densa di sorprese. Un attentato e mezzo contro Donald Trump, l’avvicendamento, mai visto prima, tra il vincitore delle primarie dem Joe Biden con la sua vicepresidente Kamala Harris e due focolai di crisi globali tra Ucraina e Medio Oriente. A 30 giorni dal voto, i sondaggi ci raccontano di una corsa serratissima. Un testa a testa tra Harris e Trump che si giocherà all’ultimo voto.
La media dei sondaggi
Nelle prossime settimane continuerà il fiume di sondaggi e orientarsi per avere un’idea di quello che succederà sarà sempre più difficile. Qui proveremo a dettagliare una piccola guida, un pugno di cose da sapere, per avere un’idea più precisa di cosa tenere d’occhio per capire cosa potrebbe succedere nell’altra sponda dell’oceano. Partiamo da un primo dato: cosa ci stanno dicendo ora i sondaggi a livello nazionale? Cosa dicono le medie? Secondo la super-media di Five Thirty Eight Kamala Harris ha un vantaggio di circa 2,8 punti su Donald Trump, rispettivamente 48,6% a 45,8%. Forchetta ancora più ampia nella media realizzata dal guru dei modelli predittivi Nate Silver che vede Harris avanti di 3,5 punti.
Questa forbice si è ampliata all’inizio di agosto e si è via via allargata nel corso dell’estate. Sostanzialmente in concomitanza con la luna di miele degli elettori seguita al passo indietro del presidente Biden. Una volta finito questo boom, i valori si sono sostanzialmente stabilizzati. E in attesa di eventuali “sorprese di ottobre” è possibile che questi valori si mantengano simili seppur oscillanti.
I campi di battaglia
C’è un altro dato da osservare con attenzione: i sondaggi negli Stati in bilico. Con questa espressione si intendono quegli Stati che al momento non danno indicazione di candidato sicuro della vittoria. Osservare queste regioni è importantissimo perché riflette il sistema di selezione del presidente. Negli Stati Uniti, infatti, non entra alla Casa Bianca chi ottiene più voti, ma chi vince il collegio elettorale, cioè chi conquista più grandi elettori. Ogni Stato dà in premio un numero di grandi elettori pari alla popolazione. Tenendo conto che una fetta degli Stati virtualmente è già assegnata perché ci sono Stati profondamente repubblicani o profondamente democratici, quelli contendibili rimangono pochi.
Con l’ingresso di Harris nella campagna elettorale possiamo dire che gli swing state sono sostanzialmente 7: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin a nord, North Carolina, Georgia, Arizona e Nevada a Sud. Dunque, cosa dicono i sondaggi in questi Stati? Prendiamo di nuovo le super medie di Five Thirty Eight. La candidata dem è avanti in:
– Pennsylvania 48% a 47,3% (+0,7%)
– Michigan 48,2% a 46,3% (+1,9%)
– Wisconsin 48,5% a 46,9% (+1,6%)
– Nevada 47,9% a 46,9% (+0,9%)
Mentre Trump è avanti in:
– North Carolina 48,1% a 47,5% (+0,6%)
– Georgia 48,4% a 47,1% (+1,3%)
– Arizona 48,2% a 46,8% (+1,4%)
Cosa dicono i modelli predittivi
Da qualche anno ai sondaggi si sono affiancati anche dei modelli predittivi. Dei sistemi, cioè, che sommano ai sondaggi anche altre variabili come l’affluenza stimata, eventuali parzialità dei sondaggi, andamento dell’economia, altre rilevazioni sulle preoccupazioni degli elettori, il peso dei dibattiti e altri aspetti che ruotano intorno al voto. I modelli attualmente più affidabili sono tre e tutti danno Harris avanti: Five Thirty Eight le attribuisce 55 possibilità di vittoria su 100, così come quello di Nate Silver. Il modello del Economist, invece le attribuisce tre possibilità di vittoria su cinque.
Cosa raccontano – davvero – i sondaggi
Oltre alla sensazione di un sostanziale pareggio, questi numeri ci dicono anche altro? In realtà si. E serve qualche altro dettaglio per capirlo. Nel 2016 e 2020 i sondaggi e di riflesso i modelli predittivi avevano sottostimato Donald Trump. O meglio: alla fine il tycoon andava meglio di qualche punto rispetto a quanto registrato dalle rilevazioni. Questo ha fatto sì che si creasse un paradosso. I democratici soffrivano il modello del collegio elettorale e Trump ne usciva invece avvantaggiato nonostante la debolezza nel voto. Nel 2016, ad esempio, ha vinto le elezioni contro Hillary Clinton nonostante quest’ultima avesse raccolto quasi tre milioni di voti in più.
Il miliardario si portò a casa quell’elezione non tanto per la grande quantità di Stati repubblicani quanto per il margine strettissimo con cui vinse gli swing state e per il fatto che in quasi tutti gli Stati vige una sorta di super maggioritario grazie al quale basta prendere un solo voto in più per ottenere tutti i grandi elettori. La conquista del Blue Wall, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin è avvenuta per pochissimi voti, con vittorie sotto la soglia dell’1%. L’ex segretaria di Stato invece aveva guadagnato terreno in altri stati come California e Texas facendo meglio di Barack Obama e vincendo molti più voti, ma senza avere un impatto diretto nel sistema del collegio elettorale.
Negli ultimi anni gli esperti hanno fatto una serie di stime per calcolare il margine di vantaggio che un candidato democratico deve avere nel voto popolare per vincere anche il collegio elettorale. Secondo questi calcoli il margine di sicurezza deve essere superiore a due punti e mezzo, meglio tra i 3 e 4 punti in più per sicurezza. E infatti quattro anni fa Joe Biden ha battuto Trump con un vantaggio di 4,5 punti.
Oggi, secondo l’esperto di elezioni e sondaggi Nate Cohn, sta succedendo qualcosa di nuovo. Prendiamo l’ultimo sondaggio che il New York Times ha fatto in Pennsylvania, uno degli Stati in bilico e forse quello che più di tutti deciderà il voto. La rilevazione ha fotografato Kamala Harris avanti di ben 4 punti sul rivale repubblicano, un valore adiacente al margine di errore. Tenendo conto che questo tipo di sondaggio condotto dal NY Times insieme al Siena College viene ritenuto di altissima qualità, sorge spontanea una domanda: come è possibile che Harris vada meglio in uno Stato in bilico rispetto alla media nazionale?
La questione del collegio elettorale
Il vantaggio nel collegio elettorale che Trump ha avuto nel 2016 e 2020 si può misurare in modo molto semplice: è il risultato della differenza tra il voto popolare a livello nazionale e quello del cosiddetto “Tipping-point State” (lo Stato che mette un candidato in testa per la vittoria finale del collegio elettorale). Nel 2016 questa forbice era stata di 2,9 punti (vantaggio nazionale dei dem di 2,1 cui sottrarre -0,8 punti derivante dal vantaggio dei repubblicani nello Tipping-point State). Nel 2020 il divario è stato più ampio arrivando a 3,8 punti.
Oggi, ha notato il NY Times, i numeri dicono alto. Ovvero che il divario stimato è di soli 0,7 punti in favore dei repubblicani (Dem a +2,6 a livello nazionale e +1,8 in Wisconsin, considerato Tipping-point State.). L’ipotesi più probabile è che si sia sgonfiata la forza del Gop (e di Trump) nel collegio elettorale).
Come siamo arrivati a questa spiegazione? Trump in realtà sta migliorando la sua posizione in altri stati che però non sono competitivi, come nel caso di alcuni distretti di New York e della California e dimostra segni di debolezza relativa nella Rust Belt. Questi punti recuperati hanno riequilibrato i sondaggi nazionali, ma non hanno avuto un impatto diretto negli Stati in bilico, nei quali, invece, Kamala Harris resta competitiva.
Non siamo di fronte a un fenomeno del tutto nuovo. Basti pensare alle elezioni di metà mandato del 2022. In quell’occasione non si manifestò l’onda rossa contro l’amministrazione Biden, ma il voto restituì un Gop competitivo in varie parti del Paese e dei dem capaci di reggere nei luoghi in bilico. E oggi Trump sembra avere buoni riscontri numerici proprio nelle stesse zone in cui il Gop è andato bene due anni fa.
Dave Wasserman, analista del Cook Political Report, ha fotografato con lucidità il momento. Per lui i sondaggi mostrano alcuni punti fermi: i dem rispetto al 2022 possono migliorare negli stati non in bilico, ma generalmente Harris non avrà gli stessi margini che ha ottenuto Biden nel 2020. E qui torniamo al punto di partenza. La corsa è simile al lancio di una monetina: potrebbe finire in qualsiasi modo, decisa per una manciata di voti.
Manca un mese alle presidenziali americane. Il 5 novembre prossimo si arriverà al culmine di una durissima campagna elettorale densa di sorprese. Un attentato e mezzo contro Donald Trump, l’avvicendamento, mai visto prima, tra il vincitore delle primarie dem Joe Biden con la sua vicepresidente Kamala Harris e due focolai di crisi globali tra Ucraina e Medio Oriente. A 30 giorni dal voto, i sondaggi ci raccontano di una corsa serratissima. Un testa a testa tra Harris e Trump che si giocherà all’ultimo voto.
Nelle prossime settimane continuerà il fiume di sondaggi e orientarsi per avere un’idea di quello che succederà sarà sempre più difficile. Qui proveremo a dettagliare una piccola guida, un pugno di cose da sapere, per avere un’idea più precisa di cosa tenere d’occhio per capire cosa potrebbe succedere nell’altra sponda dell’oceano. Partiamo da un primo dato: cosa ci stanno dicendo ora i sondaggi a livello nazionale? Cosa dicono le medie? Secondo la super-media di Five Thirty Eight Kamala Harris ha un vantaggio di circa 2,8 punti su Donald Trump, rispettivamente 48,6% a 45,8%. Forchetta ancora più ampia nella media realizzata dal guru dei modelli predittivi Nate Silver che vede Harris avanti di 3,5 punti.