I social media hanno trasformato il fenomeno migratorio, affermandosi come uno strumento chiave di ogni sua fase: dalla partenza all’arrivo. Il loro utilizzo da parte dei migranti porta in alcuni casi a storie incredibili.
Le migrazioni sono un fenomeno antico almeno quanto l’umanità. Ci siamo sempre spostati e lo abbiamo fatto per le ragioni più diverse. In quanto fenomeno strutturale, esso si è adeguato ed è cambiato parallelamente alla società. Oggi, nell’era digitale, le migrazioni si intersecano con i nuovi strumenti del nostro tempo. Ciò avviene anche con i social media, che del nostro tempo sembrano quasi i padroni.
Spesso il dibattito, soprattutto in Italia, si focalizza principalmente su come essi abbiano influenzato la narrativa del fenomeno migratorio. Infatti, i social hanno fortemente contribuito a polarizzare il dibattito pubblico su questo tema, non dando il giusto valore alla sua complessità e stimolando un dibattito emotivo, piuttosto che analitico e razionale.
La loro influenza, però, va ben oltre la narrativa. Sono uno strumento che agisce a livello pratico in ogni fase della migrazione, accompagnando il migrante durante tutto il suo viaggio, dalla preparazione della partenza fino all’arrivo a destinazione e all’inizio di nuova vita in un paese di cui sa poco o niente. Il loro utilizzo ovviamente varia a seconda del tipo di viaggio di cui si sta parlando, regolare o irregolare. In questo caso il focus saranno i migranti irregolari che per raggiungere la loro meta si imbarcano in viaggi pericolosi e lunghi. Per loro i social media ricoprono un ruolo ancora più cruciale.
“Acqua, telefono, cibo”, in quest’ordine, dice Marie Gillespie, docente di sociologia presso la Open University del Regno Unito; questi sono oggi i tre oggetti più importanti che chi lascia, o è costretto a lasciare, il proprio paese porta con sé. Se il telefono è così importante è anche perché permette l’accesso in ogni luogo ai social media. Attraverso piattaforme come Facebook, YouTube e TikTok i migranti si rendono protagonisti di dinamiche nuove, rivoluzionando le logiche che fino ad ora hanno delineato il fenomeno.
Una delle parole che più sentiamo nominare quando si parla di social media è influencer. La Treccani lo definisce come un “Personaggio di successo, popolare nei social network e in generale molto seguito dai media, che è in grado di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico”.
Quando si pensa a questa figura difficilmente ci viene in mente una persona che sta rischiando la vita per scappare dal proprio paese. Eppure Manuel Monterrosa, un 35enne venezuelano, potrebbe a tutti gli effetti essere descritto come tale. Il suo canale youtube (@manuelmonterrosa) ha più di 76mila iscritti e alcuni suoi video più di due milioni di visualizzazioni.
L’anno scorso, è partito per gli Stati Uniti con il suo cellulare e un piano: registrare il suo viaggio attraverso il Darién Gap, una delle rotte più pericolose al mondo, e pubblicarlo su YouTube per mettere in guardia gli altri migranti dai pericoli che avrebbero dovuto affrontare. Nella serie di sei puntate, montate interamente sul suo telefono durante il viaggio, attraversa la giungla al confine tra Colombia e Panama con uno zaino. Gli spettatori sono guidati in una telecronaca video-selfie della sua impresa attraverso fiumi, foreste fangose e una montagna conosciuta come la ‘Collina della Morte’. Alla fine raggiunge la sua meta, gli Stati Uniti.
Nel frattempo, però, i suoi video hanno iniziato a fare così tante visualizzazioni e a fargli guadagnare abbastanza soldi da YouTube, da decidere di non avere più bisogno di vivere negli Stati Uniti. Il suo lavoro sarebbe diventato fare lo youtuber, ripercorrendo la rotta del Darién, questa volta non per attraversare il confine, ma per creare contenuti per il suo affezionato pubblico e guadagnarsi da vivere.
La sua storia è arrivata fino al New York Times, a cui ha detto: “La migrazione vende […] il mio pubblico è un pubblico che vuole un sogno”. Sotto i suoi video ci sono centinaia di commenti, da chi fa domande specifiche sul percorso a chi ringrazia Dio per avercela fatta o lo prega affinchè protegga chi decide di compiere questa strada. Un utente (@henrygonzalez2183) scrive in spagnolo sotto uno dei video: “Molto presto, in nome di Dio, voglio andare negli Stati Uniti, quindi guardo questo tipo di video per sapere cosa significa attraversare il confine El Darién”.
Come Manuel Monterrosa ce ne sono ormai tanti. I contenuti di questo tipo si trovano in diverse lingue per essere fruiti nei tanti paesi di partenza dei migranti: in Cina la rotta percorsa da Manuel è chiamata “zouxian“, in mandarino, o “the route” in inglese – quest’ultimo è un hashtag molto popolare su Douyin, la versione cinese di TikTok. In hindi, haryanvi e punjabi, lingue parlate in India, è chiamato “dunki“, in riferimento a un percorso “asinino” o informale; in haitiano, la giungla del Darién è “raje” o “fosso”.
Oggi i migranti sono diventati in molti casi veri e propri content creator digitali, documentando attraverso i social network la loro esperienza. Mentre trasmettono le loro fatiche e i loro successi a milioni di persone in patria, alcuni diventano piccole celebrità, ispirando altri a intraprendere il viaggio. Le conseguenze sono reali.
Per decenni, il Darién Gap è stato considerato così pericoloso che pochi osavano attraversarlo. Secondo i funzionari panamensi, dal 2010 al 2020 la media annuale degli attraversamenti è stata di poco inferiore alle 11.000 persone. Nel 2021 si è arrivati invece a più di 130.000 persone, l’anno dopo a più di 156.000 persone e, sempre secondo i dati del governo panamense, nel 2023 è stato infranto ogni record con circa mezzo milione di persone che hanno attraversato il Darièn Gap, la maggior parte delle quali venezuelane.
Le conseguenze di questo aumento sono tante e diverse, intrecciando fattori politici ed economici, ma è innegabile che la diffusione di video sui social che mostrano il tragitto e, in certi casi, lo descrivono come molto meno pericoloso di quello che è, è da considerarsi come uno dei vari elementi in gioco. Le documentazioni dei percorsi lungo le rotte migratorie sono alle volte così dettagliate da permettere in alcuni tratti alle persone di trovare la strada da sole, senza dover far ricorso ai trafficanti.
Oltre a questi influencer che forniscono consigli utili all’attraversata, la possibilità di comunicare attraverso i social media con altri migranti, in viaggio o già a destinazione, è forse l’elemento più rilevante. I gruppi Facebook, ad esempio, sono cruciali per acquisire informazioni su come contattare le persone che possono essere d’aiuto per raggiungere i diversi luoghi di destinazione. Ma anche per trovare rifugio e riparo, presso conoscenti o semplicemente connazionali, durante le tappe del lungo cammino. Attraverso questi gruppi, e grazie ai contatti che ne derivano, spesso si possono ottenere informazioni che salvano la vita: segnalazioni sulla presenza di bande criminali, rapinatori o altri predoni sul percorso; l’improvvisa chiusura di un tratto di strada; lo scoppio di un conflitto in una delle zone attraversate lungo la rotta; semplici informazioni sulle condizioni meteorologiche. In questo modo, anche in tempo reale, i migranti possono adeguarsi e tutelarsi dai pericoli e dagli imprevisti.
Tuttavia, come accade sempre, dai social media passa tanto l’informazione quanto la disinformazione. Spesso vengono trasmesse informazioni errate sulla pericolosità del viaggio, esponendo i migranti a situazione di alto rischio. In questi casi lo strumento che doveva servire a evitare i contatti con i trafficanti finisce per essere l’esca.
Secondo uno studio pubblicato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), i trafficanti utilizzano i social media per promuovere i loro servizi, condividendo per esempio brevi video di attraversamenti riusciti. Sempre attraverso queste piattaforme poi si mettono in contatto con i migranti. In alcuni casi, invece, la disinformazione passa dagli stessi migranti, che trasmettono storie di successo false per tranquillizzare i propri parenti a casa o per nascondere quello che ai loro occhi risulta essere un fallimento. Si creano così “percezioni alternative” che non corrispondono alle reali esperienze vissute dai migranti.
L’accesso ai social social network rimane cruciale anche una volta arrivati a destinazione, assumendo nuove forme di uso e valore. In questa fase il loro utilizzo si lega soprattutto alla necessità di mantenere i contatti con il proprio paese di origine e di integrarsi in quello nuovo. Diversi studi hanno confermato che i social media sono un ottimo strumento per aiutare i nuovi arrivati a conoscere il paese ospitante e la comunità, nonché il suo funzionamento sociale ed economico. Sui social si possono trovare informazioni per adempiere alla burocrazia e anche su come imparare la lingua. Queste arrivano sia da video disponibili sulle piattaforme che dal contatto con altri migranti tramite gruppi. Questi ultimi, soprattutto quelli su Facebook, sono fondamentali anche per la ricerca del lavoro, che avviene principalmente chattando con i propri connazionali e amici.
Nel complesso, l’uso dei social media può rendere molto più fluido e facile il processo di integrazione. Bisognerebbe pensare a tutto questo quando ci si domanda come mai migranti e rifugiati, indipendentemente dalla loro condizione economica, hanno sempre uno smartphone con sè. Il cellulare, la rete internet e quindi l’accesso ai social media non sono un lusso, ma ormai una necessità per chi sceglie, o è costretto, a lasciare il proprio paese.
Le migrazioni sono un fenomeno antico almeno quanto l’umanità. Ci siamo sempre spostati e lo abbiamo fatto per le ragioni più diverse. In quanto fenomeno strutturale, esso si è adeguato ed è cambiato parallelamente alla società. Oggi, nell’era digitale, le migrazioni si intersecano con i nuovi strumenti del nostro tempo. Ciò avviene anche con i social media, che del nostro tempo sembrano quasi i padroni.
Spesso il dibattito, soprattutto in Italia, si focalizza principalmente su come essi abbiano influenzato la narrativa del fenomeno migratorio. Infatti, i social hanno fortemente contribuito a polarizzare il dibattito pubblico su questo tema, non dando il giusto valore alla sua complessità e stimolando un dibattito emotivo, piuttosto che analitico e razionale.