Secondo l’analista greco Alexandros Sainidis, il fenomeno della pirateria si è sviluppato con il capitalismo e la globalizzazione. Negli scenari mondiali il ruolo degli attori non statuali è diventato più importante, anche per la disponibilità diffusa di armi leggere.
Non si vedono rampini d’abbordaggio, ma elicotteri da trasporto di commandos in colori mimetici. Niente uncini, gambe di legno o bende sull’occhio, ma kalashnikov e sistemi di comunicazione satellitare. Il video curatissimo che gli Houthi hanno diffuso nel novembre scorso mostra l’attacco con cui nel mar Rosso i miliziani di Ansar Allah hanno assalito e sequestrato la nave Galaxy Leader, proprietà di una compagnia britannica controllata dal magnate israeliano Abraham Ungar. Ed è stata una sveglia per il pubblico occidentale, in gran parte abbagliato dalle immagini cinematografiche di Johnny Depp e dal pensiero di bandiere nere con teschio e tibie, convinto cioè che la pirateria fosse ormai folklore, confinata al passato e del tutto superata grazie alle tecnologie.
In realtà, scrive l’analista greco Alexandros Sainidis, il fenomeno della pirateria si è sviluppato con il capitalismo e la globalizzazione. Quando si parla di economia capitalistica, il pensiero va subito al processo produttivo, ma la distribuzione dei beni è altrettanto importante. Nel caso delle rotte commerciali marittime, strutturalmente è molto più difficile per gli Stati esercitare la propria potenza in mare, per la sua vastità e la mobilità delle navi. Anche per questo motivo, nel passato i pirati venivano utilizzati dagli Stati anche per protezione, incursioni e saccheggi, come corsari o come mercenari.
Se l’attacco alle navi da trasporto era già una pratica diffusa ai tempi delle polis greche e poi dell’impero romano, l’età dell’oro per la pirateria – quella di personaggi leggendari come Henry Morgan, capitan Kidd ed Edward Teach detto Barbanera – corrisponde all’alba del capitalismo, poco prima della Rivoluzione industriale, nel momento di massimo fulgore dell’impero britannico e quindi con un gran numero di navi commerciali in circolazione, possibili obiettivi. Già nel 17esimo secolo c’era chi pagava i riscatti per gli equipaggi sequestrati, una forma di “garanzia” che avrebbe poi lasciato spazio alle compagnie di assicurazione. L’evolversi delle tecnologie accelerò il processo di globalizzazione, rendendo le distanze meno significative. E le potenze navali riuscirono a soffocare la pirateria, etichettando i pirati come “nemici del genere umano”.
Oggi negli scenari mondiali il ruolo degli attori non statuali è diventato più importante, anche per la disponibilità diffusa di armi leggere. La molla è sempre quella delle disuguaglianze sociali, con la povertà che strangola popoli interi. Sugule Ali, un somalo che nel 2008 partecipò al sequestro della nave ucraina Faina, impegnata nel traffico d’armi in zona di guerra, chiarì al New York Times: “Vogliamo solo denaro per scampare alla fame. Se il mondo smetterà di rubare i nostri beni e di farci del male, lasceremo la pirateria e torneremo al nostro lavoro”.
Come quattro secoli fa, il rischio legato all’attività piratesca è ben remunerato. I pirati somali fermati nei mesi scorsi dalla marina del Puntland si erano appena spartiti il riscatto per la nave MV Abdullah del Bangladesh, catturata assieme all’equipaggio: le compagnie di assicurazione avevano pagato cinque milioni di dollari in contanti.
Secondo una stima della Banca mondiale, fra il 2005 e il 2012 i pirati del Corno d’Africa hanno ottenuto fra i 339 e i 413 milioni di dollari in riscatti per gli equipaggi sequestrati. Insomma, i pirati capitalizzano sulle vie commerciali con l’uso della forza e non sono uno “sgradito residuo della Storia”. Si chiede l’analista greco: sgradito a chi? Alle grandi potenze navali e commerciali, e non “al genere umano” nella sua totalità. Va oltre Isaac Kamola, studioso del Trinity College di Hartford, che propone di guardare ai pirati non come fenomeno marginale dell’economia e problema di sicurezza globale, ma come capitalisti impegnati in quella che Marx chiamava “accumulazione originaria”.
Sainidis invita a valutare gli interessi perseguiti dai pirati e dai gruppi che attaccano le navi. E’ il caso appunto degli Houthi che per interrompere le incursioni chiedono il cessate il fuoco a Gaza e la fine del blocco di Israele sull’enclave palestinese. I miliziani hanno dichiarato di voler restituire la Galaxy Leader quando Hamas lo deciderà e hanno trasferito al gruppo palestinese l’equipaggio catturato, possibile pedina di scambio. L’analista raccomanda scetticismo verso le reali motivazioni dei Paesi che si mobilitano nelle zone dove operano i pirati. Secondo le stime di Oceans Beyond Piracy, già prima degli ultimi sviluppi le missioni militari di protezione del trasporto al largo della Somalia costavano due miliardi di dollari l’anno. In altre parole: in ballo c’è senz’altro il principio della libertà di navigazione, ma è legittimo ipotizzare anche intenzioni ben più prosaiche di egemonia e controllo.
Il sospetto viene anche da notizie dall’apparenza innocua: l’ultima vede la Marina statunitense testare al largo dell’Africa occidentale “per aiutare le nazioni della zona impegnate a combattere la pirateria” il Triton della Ocean Aero, un drone che può navigare in superficie o in immersione, con compiti di sorveglianza e sminamento. Secondo il contrammiraglio Michael Mattis, direttore strategico al comando USA per Europa e Africa, è l’ideale per Paesi con risorse limitate come Ghana, Gabon e Camerun. Più che il sostegno ai governi locali, la proposta sembra volta a consolidare la presenza americana nella zona. Proprio da queste parti il colpo di Stato in Niger ha costretto il Pentagono a sgomberare in fretta la base aeronautica 201 di Agadez, costata 110 milioni di dollari e costruita appena cinque anni fa, un gigantesco hub dei droni a disposizione del comando Africom. Il golpe nigerino ha privato i comandi statunitensi del punto di riferimento sul territorio, tanto che per i test del drone marino è stata impegnata una base mobile di spedizione, la nave USS Herschel “Woody” Williams.
Ma quest’anno il golfo di Guinea appare relativamente tranquillo, rispetto all’Oceano Indiano. La cartina degli assalti di pirati pubblicata dal Piracy Reporting Centre per la prima parte del 2024 segnala un affollamento di episodi al largo del golfo di Aden, in prevalenza attribuiti a gruppi armati non politicizzati. L’aumento degli abbordaggi in alto mare è legato al divergere dell’attenzione internazionale verso gli attacchi di Ansar Allah, nel mar Rosso ma a volte anche nelle acque di Aden. Secondo Raj Mohabeer, funzionario della Commissione per l’Oceano Indiano, gli attacchi Houthi hanno creato un vuoto di sicurezza nell’area, di fatto incoraggiando i gruppi dei pirati. La gran parte delle azioni di Ansar Allah non viene considerata pirateria secondo la Convenzione Onu per la legge del mare, perché non coinvolge imbarcazioni o aerei, ma viene condotta con mezzi navali a pilotaggio remoto, droni e missili. In più, lo scopo delle azioni è politico e non di guadagno diretto.
L’offensiva dei miliziani, sostenuti, armati e addestrati dall’Iran, non appare destinata a finire in tempi rapidi. Secondo funzionari del gruppo yemenita, la Repubblica islamica avrebbe fornito al gruppo armato anche missili ipersonici, capaci di mettere in difficoltà ogni sistema di difesa. I portavoce Houthi parlano di ordigni che raggiungono Mach 8, cioè otto volte la velocità del suono, ma Teheran ha mostrato già missili come il “Fattah”, capace secondo i costruttori di volare a Mach 15. Per non lasciar dubbi, Abdul Malik al-Houthi, leader di Ansar Allah, ha sottolineato che i suoi combattenti “continuano ad espandere l’efficacia e la portata delle operazioni in aree e luoghi che il nemico non si aspetta”. Il capo degli Houthi ha aggiunto che i suoi miliziani avrebbero impedito alle navi “collegate a Israele anche di attraversare l’Oceano Indiano dirigendosi verso il Capo di Buona Speranza”.
Che la crisi del mar Rosso per ora non veda vie d’uscita a breve termine è convinzione diffusa. Secondo un sondaggio proposto dal sito The International Intrigue, il 57% degli intervistati crede che l’accesso in sicurezza alla rotta di Suez non è vicino: ci vorranno mesi perché siano abbandonate le nuove rotte che non utilizzano il canale, con due settimane di navigazione in più e costi molto più elevati. Meno di un intervistato su tre crede che per tornare al percorso breve basterà il ritiro di Israele da Gaza, appena nove su cento confidano nella prospettiva che gli Houthi siano superati con la forza militare. L’unico a nutrire ottimismo è il generale Alexus Grynkewich, del comando aeronautico USA, secondo cui la frequenza degli attacchi alle navi è diminuita perché i miliziani yemeniti stanno esaurendo rapidamente le riserve di missili e droni. Una parziale smentita è arrivata pochi giorni dopo dal comandante della missione Ue Aspides, il contrammiraglio Vasilios Gryparis, che vuole aumentare la presenza navale europea nel mar Rosso, oggi limitata a quattro fregate fra cui una italiana (la Fasan, con la Martinengo ancora impegnata nell’operazione Atalanta contro i pirati somali).
Ma se si considera che due decenni di presenza internazionale sono riusciti solo in parte a tenere sotto controllo la pirateria somala, sembra difficile che basti uno schieramento navale più robusto per fermare gli Houthi, a meno di voler innescare rischiose escalation con l’Iran, sponsor degli yemeniti. Tanto più quando alla base dell’offensiva non ci sono solo progetti di guadagno, ma motivazioni ideologiche e religiose, con un forte sostegno diffuso nel mondo islamico.
Non si vedono rampini d’abbordaggio, ma elicotteri da trasporto di commandos in colori mimetici. Niente uncini, gambe di legno o bende sull’occhio, ma kalashnikov e sistemi di comunicazione satellitare. Il video curatissimo che gli Houthi hanno diffuso nel novembre scorso mostra l’attacco con cui nel mar Rosso i miliziani di Ansar Allah hanno assalito e sequestrato la nave Galaxy Leader, proprietà di una compagnia britannica controllata dal magnate israeliano Abraham Ungar. Ed è stata una sveglia per il pubblico occidentale, in gran parte abbagliato dalle immagini cinematografiche di Johnny Depp e dal pensiero di bandiere nere con teschio e tibie, convinto cioè che la pirateria fosse ormai folklore, confinata al passato e del tutto superata grazie alle tecnologie.
In realtà, scrive l’analista greco Alexandros Sainidis, il fenomeno della pirateria si è sviluppato con il capitalismo e la globalizzazione. Quando si parla di economia capitalistica, il pensiero va subito al processo produttivo, ma la distribuzione dei beni è altrettanto importante. Nel caso delle rotte commerciali marittime, strutturalmente è molto più difficile per gli Stati esercitare la propria potenza in mare, per la sua vastità e la mobilità delle navi. Anche per questo motivo, nel passato i pirati venivano utilizzati dagli Stati anche per protezione, incursioni e saccheggi, come corsari o come mercenari.