Se Dio è dalla nostra parte, perché siamo così incasinati? Una delle battute migliori di Bob Dylan recita più o meno così: “Dicevano che ero un profeta, e io rispondevo di no. Hanno tanto insistito che mi sono convinto e ho cominciato a dire che Gesù era la risposta. E tutti: Dylan, mica sei un profeta! Non capisco”.
With God on Our Side (1963) Il mio nome non significa niente, l’età ancora meno (Oh my name it is nothin’/ My age it means less.) Da cantastorie consumato, appena ventenne, Bob Dylan apre così una delle sue più famose canzoni politiche.
Scritta nel 1961 sulla musica di un motivo popolare irlandese, With God on our side sarà registrata solo due anni dopo. Mi hanno insegnato – canta – che il paese nel quale vivo ha Dio dalla sua parte (the land that I live in/ Has God on its side). E ne tira le conseguenze, sfogliando le successive cinque strofe come un libro di storia: il massacro degli Indiani, la Guerra civile, la Prima guerra mondiale, la Seconda.
Qui introduce un paradosso caro alla sinistra rooseveltiana: Ne hanno ammazzati sei milioni nei forni, ma adesso i Tedeschi hanno Dio dalla loro parte (Though they murdered six million/ In the ovens they fried/ The Germans now too/ Have God on their side). Adesso è tempo di odiare i Russi, (To hate Russians), combatterli alla prossima guerra.
Nelle ultime due strofe la riflessione si incammina su sentieri biblici: il Male può nascere dal Bene, e viceversa. Nelle ore più oscure ho pensato tante volte che Gesù fu tradito da un bacio. Non voglio dirti cosa devi pensare tu, ma dovrai pur decidere se Giuda Iscariota aveva Dio dalla sua parte (Through many dark hour/ I’ve been thinkin’ about this/ That Jesus Christ/ Was betrayed by a kiss/ But I can’t think for you/ You’ll have to decide/ Whether Judas Iscariot/ Had God on his side).
Solo la confusione e l’ingenuità del protagonista senza nome della canzone, piuttosto che la lucidità della politica, suggeriscono l’ultimo paradosso: Se Dio è dalla nostra parte fermerà la prossima guerra (If God’s on our side/ He’ll stop the next war). Highway 61 revisited (1965) Passano gli anni. Bob Dylan indossa gli occhiali scuri e un giubbotto di pelle nera, imbraccia una chitarra elettrica.
Le sue canzoni si riempiono di sarcasmo, visioni, Bibbia. Dio disse ad Abramo: “ammazzami un figlio” Abramo disse: mi prendi in giro? Diodisse:“No.” Abramodisse:“cosa?” Dio disse: “come ti pare ma la prossima volta che mi vedi fai meglio a scappare” Beh, Abramo disse: “dove vuoi che lo facciamo questo sacrificio?” Dio disse: “sulla Highway 61”. Oh God said to Abraham, “Kill me a son” Abe says, “Man, you must be puttin’ me on” God say, “No.” Abe say, “What?” God say, “You can do what you want Abe, but The next time you see me comin’ you better run” Well Abe says, “Where do you want this killin’ done?” God says, “Out on Highway 61”. Nelle successive quattro strofe, sulla stessa strada dialogheranno poveracci, giocatori, avventurieri e varia umanità. La Highway 61 cominciava a Duluth, dove il ragazzino Zimmerman era nato, e arrivava sul Delta del Mississippi nella terra del blues.
Per Dylan, che all’inizio della sua carriera millantava di aver imparato a suonare girando come un vagabondo sui treni, era la striscia d’asfalto nei sogni di tutti i provinciali (il dylaniano Guccini, negli stessi anni, intitolerà un ironico blues autostoppistico alla Statale 17 che attraversa l’Appennino abruzzese). Circostanza da non sottovalutare è che il padre di Dylan si chiamava effettivamente Abramo. I dreamed I saw Saint Augustine (1969) Questo Sant’Agostino che arriva in sogno, vivo come te e me (alive as you and me), assomiglia al sindacalista Joe Hill, messo a morte per un presunto omicidio e celebrato da una canzone notissima negli ambienti del folk-revival americano, che inizia con lo stesso verso. Joe Hill è un martire che non è “morto invano” come nella retorica militante.
Al contrario, Sant’Agostino cerca anime che sono già state vendute (Searching for the very souls/ Whom already have been sold). Un’apparizione inutile, fuori tempo. Come la sua predica: Martiri tra voi non ci sono […] comportatevi bene e sappiate che non siete soli. (No martyr is among ye now […] So go on your way accordingly/ But know you’re not alone”). S’intende che tutti lo guardino come un vecchio pazzo. Fino all’inizio degli anni Settanta Dylan usa un tono di provocazione nei confronti dei suoi vecchi compagni. Soprattutto, cerca di sporcare in ogni modo la sua immagine profetica: non sopporta il noi, non ama il perbenismo di certa sinistra, l’alone della rockstar lo spinge alla paranoia.
Il Sant’Agostino martire nell’ultima strofa della canzone (ma non nella storia vera) potrebbe essere lui stesso: Ho sognato di essere tra quelli che l’hanno messo a morte. Mi sono svegliato pieno di rabbia, così solo e terrorizzato. Ho messo le dita contro il vetro ho preso la testa tra le mani e ho pianto. I dreamed I was amongst the ones That put him out to death Oh, I awoke in anger So alone and terrified I put my fingers against the glass And bowed my head and cried. Il “martirio”, un’allusione sarcastica all’incidente di moto che ridusse il cantante in fin di vita nel 1967. Gotta Serve Somebody (1979) “Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a Mammona”. Nel Vangelo di Matteo (6,24), Mammona è la ricchezza materiale.
È il 1979: Dylan diventa “cristiano rinato” e registra un disco di gospel negli studi Muscle Shoals a Sheffield, Alabama, una delle culle della musica soul. Ha imparato a scrivere canzoni ascoltando i dischi dei vecchi bluesman, è una specie di epifania alla Blues Brothers. Puoi essere l’ambasciatore di Francia o d’Inghilterra, puoi amare il gioco oppure ballare, ma devi servire qualcuno (You may be an ambassador to England or France/You may like to gamble, you might like to dance […] but you gotta serve somebody), dice la canzone, mettendo in fila una teoria di personaggi inequivocabilmente dylaniani. All’epoca ha 39 anni, e i più liquidano con ironia la sua conversione.
John Lennon, autorecluso nel suo appartamento di New York, ritrova un po’ della vecchia verve per dedicargli una canzone che è tutto uno sberleffo, “Serve yourself”: devi imparare a servirti da solo, non fanno servizio in camera qui. Un referendum recente di Rolling Stone ha eletto questa come la seconda peggior canzone scritta da Dylan. Every Grain of Sand (1981) Secondo alcuni – tra questi Springsteen e Elvis Costello – è una delle più belle canzoni di Dylan. “Vedere un mondo in un granello di sabbia” è un verso di William Blake; molteplici le citazioni della Bibbia (Genesi, Salmi, Vangeli). Non sono abituato a pentirmi di ogni errore. Come Caino osservo questa catena di eventi che devo spezzare. Nella furia del momento posso vedere la mano del Signore, in ogni foglia che trema, in ogni granello di sabbia. Don’t have the inclination to look back on any mistake Like Cain, I now behold this chain of events that I must break In the fury of the moment I can see the Master’s hand In every leaf that trembles, in every grain of sand.
“Mi sembrava che le parole venissero da qualche altra parte, le ho solo buttate giù”, spiegò Dylan che chiudeva così la sua fase da cristiano rinato per tornare a un rapporto meno esasperato con la religione, e alla sua fede ebraica. Senza rinunciare al sarcasmo: “Non credo ai rabbini, ai predicatori, agli evangelisti. Ho imparato di più dalle canzoni che da gente così. Io credo nelle canzoni.”
Se Dio è dalla nostra parte, perché siamo così incasinati? Una delle battute migliori di Bob Dylan recita più o meno così: “Dicevano che ero un profeta, e io rispondevo di no. Hanno tanto insistito che mi sono convinto e ho cominciato a dire che Gesù era la risposta. E tutti: Dylan, mica sei un profeta! Non capisco”.