Il Vietnam cresce più del previsto e più dei vicini asiatici, nonostante il caos politico interno. Con la cosiddetta “diplomazia del bambù“, il Paese sa coltivare i rapporti internazionali come pochi. Un esempio vivente di multipolarità, che, per ora, fa rima anche con sviluppo economico.
C’è un Paese che nel giro di nove mesi ha ricevuto i leader delle tre principali potenze mondiali: Joe Biden, Xi Jinping e Vladimir Putin. C’è un Paese in cui la campagna anticorruzione e i giochi di potere all’interno del governo e del Partito comunista continuano senza sosta, tanto da portare alla rimozione di due presidenti nel giro di un anno. E c’è un Paese che continua a crescere e lo fa piu velocemente anche dei suoi vicini asiatici.
Questo Paese è in tutti e tre i casi sempre lo stesso: il Vietnam. L’economia di Hanoi ha registrato un’espansione del 6,93% nel secondo trimestre rispetto all’anno precedente, superando il 5,66% del trimestre gennaio-marzo. Confermando il suo ruolo sempre piu da protagonista di hub delle catene di approvvigionamento del Sud-Est asiatico, il Vietnam ha mantenuto una crescita costante delle esportazioni del 12,5% nel secondo trimestre, favorita dall’elettronica e dai frutti di mare. I consumi interni sono rimasti un po’ indietro, con un aumento del 5,78% nei primi sei mesi rispetto a un anno prima. Tra le economie in più rapida crescita al mondo, il Vietnam punta a un aumento del prodotto interno lordo del 6-6,5% nel 2024.
Il processo di crescita economica è ormai di vecchia data. I suoi semi sono stati gettati nel 1986, con il lancio delle riforme del Doi Moi, programma che ha consentito il passaggio da una pianificazione centralizzata a un’economia di mercato a orientamento socialista, con qualche anno di ritardo dalla “grande apertura” di Deng Xiaoping. Da allora molto è cambiato. Il Vietnam, sempre con qualche anno di ritardo rispetto alla Cina, è entrato nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2007 e nel nuovo millennio ha elevato 45 milioni di persone da una condizione di povertà assoluta. Il basso costo del lavoro, nonché la guerra commerciale e tecnologica tra Stati Uniti e Cina, sono stati elementi a favore di Hanoi, che ha accolto e continua ad accogliere la delocalizzazione di linee produttive in fuga dai dazi di Washington.
Il Vietnam ha uno storico legame politico e militare con la Russia, sin dai tempi dell’Unione Sovietica. E ne ha uno ideologico e commerciale con la Cina, da cui è però divisa a livello strategico da una contesa territoriale nel mar Cinese meridionale. Ma negli ultimi anni, Hanoi ha elevato i rapporti con Giappone, Corea del Sud e Australia. Ha sottoscritto accordi di libero scambio con Unione Europea e Regno Unito, ha patrocinato il Partenariato economico globale regionale (RCEP), che unisce la maggior parte dei Paesi dell’Asia-Pacifico. Il Vietnam è diventato il nuovo Eldorado degli investimenti dei colossi tecnologici internazionali. Sempre più giganti stanno delocalizzando ad Hanoi e dintorni nel processo di diversificazione dalla Cina. Tanto da far guadagnare al Paese il titolo di “piccolo Dragone”. Tra le altre, anche Samsung, Foxconn, Amazon e Apple. Il tutto eleva il Vietnam a una posizione piu alta di quella di semplice hub manifatturiero, con lo stabilimento di produzioni tecnologiche e di alta qualità.
Il risultato viene raggiunto nonostante la perdurante battaglia politica interna. Il complesso sistema politico-statale vietnamita si poggia sui cosiddetti “quattro pilastri”. Il principale è quello rappresentato dal segretario del Partito comunista, Nguyen Phu Trong, al terzo mandato come Xi Jinping. Sempre come il presidente cinese, Trong ha costruito la sua reputazione su una ostentata inflessibilità in materia di sicurezza e di anticorruzione, promossa attraverso la spietata campagna della “fornace ardente” che gli ha consentito di sbarazzarsi dei rivali politici sconfitti al 12 esimo congresso del 2016. La campagna anticorruzione prosegue sotto la regia del primo ministro Pham Minh Chinh, ex generale di polizia proveniente dal potente ministero di pubblica sicurezza. Nel giro di dodici mesi sono stati messi da parte due presidenti: Nguyen Xuan Phuc, che ambiva alla poltrona di segretario generale al Congresso del 2021, e Vo Van Thuong, che era considerato il delfino di Trong. Alla presidenza, ruolo soprattutto cerimoniale, c’è ora To Lam, che nelle scorse settimane ha fatto gli onori di casa ricevendo Putin.
Le turbolenze interne non traspaiono all’esterno e non condizionano la cosiddetta “diplomazia del bambù” di Hanoi, guidata dal principio “amici di tutti, arruolati da nessuno”. La visita di Putin era prevista sin da quando lo scorso settembre c’era stata quella di Biden, seguita poi a dicembre da quella di Xi, per riequilibrare i rapporti internazionali che il Vietnam sa coltivare come pochi. Un esempio vivente di multipolarità, che per ora fa rima anche con sviluppo economico.