Perché Cina, Corea del Sud, Giappone continuano a spopolarsi, nonostante i variegati e fantasiosi programmi di incentivi e sussidi di Stato per sostenere la natalità. Il crollo demografico rischia di colpire forza lavoro, sviluppo economico e sistema welfare.
C’era una volta il mito della popolazione sempre in crescita dell’Asia orientale. La Cina, soprattutto, che fino al 2023 è stato il Paese più popoloso del mondo. Un ruolo che le è stato tolto dall’anno scorso dall’India. Giappone e Corea del Sud sono protagoniste di un calo, che assume spesso le caratteristiche di un crollo, già da ben prima. I governi stanno provando a reagire con diverse misure, comprese le più fantasiose, per provare a sostenere le nascite. Il tramonto demografico rischia infatti di ripercuotersi in maniera consistente anche sull’economia e il welfare. Ma la tendenza, intrecciata talvolta con elementi storici o socioculturali, appare in ampia parte “naturale” e molto probabilmente irreversibile.
Cina
Il Partito comunista è passato dal cercare di contenere l’eccessiva natalità con la politica del figlio unico, a un calo demografico che preoccupa il governo. La popolazione della Repubblica popolare è diminuita nel 2023 per il secondo anno consecutivo. Nel 2022 si erano perse 850 mila persone, primo storico calo dal 1961, tempi di carestia in seguito al “grande balzo in avanti” di Mao Zedong. L’anno scorso il calo si è persino intensificato, arrivando a toccare i 2,08 milioni. Seppur preventivata, l’inversione della curva demografica non era attesa così presto ed è stata probabilmente accelerata dalla pandemia. Già oggi il 21% della popolazione cinese (circa 297 milioni di persone) ha più di 60 anni, ma nel 2040 la percentuale dovrebbe arrivare al 28%. Nel lungo termine, gli esperti delle Nazioni Unite sostengono che la popolazione cinese perderà 109 milioni di unità entro il 2050, più del triplo rispetto alla stima del 2019.
Secondo un dossier di Yi Fuxian, demografo cinese e ostetrico della University of Wisconsin-Madison, “alla radice del problema c’è la politica del figlio unico che, seppur rimossa, continua ad avere effetti”. Celebre per il libro del 2007 Big Country With an Empty Nest, Yi sostiene che “dal punto di vista economico, la politica del figlio unico ha ridotto la capacità genitoriale di provvedere al mantenimento dei figli. Dal punto di vista psicologico, ha cambiato in modo irreversibile il punto di vista cinese sulla maternità e resta ancora profondamente radicata nel cuore delle famiglie”. Una parziale conferma dei problemi creati dalla politica del figlio unico sembra arrivare dai dati sulla distribuzione di genere. Secondo il censimento del 2020, la Cina conta 722 milioni di uomini e 690 milioni di donne, con lo squilibrio di genere più evidente tra i nati durante la politica del figlio unico dal 1980 al 2015. E non sembra essere bastato né il via libera al secondo figlio, né la politica del terzo figlio che non solo consente, ma incentiva, la formazione di una famiglia numerosa.
Ma le ragioni del calo demografico vanno ben oltre la politica del figlio unico. A pesare sono anche e soprattutto i costi della maternità e del settore educativo, a partire dalle scuole primarie. C’è poi un impatto molto forte anche sui guadagni delle famiglie, in particolare su quelli delle donne. Non a caso un numero crescente di donne sceglie di non avere figli per non essere costrette a mettere in pausa la carriera.
Oltre ai numeri, c’è anche un fondamentale aspetto socioculturale. Con l’ampliamento della classe media e il miglioramento del tenore di vita, i cinesi si sposano meno e più tardi. La stessa parabola già vissuta da diversi Paesi occidentali, Italia compresa, o anche asiatici come Giappone e Corea del Sud. Di recente, il presidente Xi Jinping ha chiesto alle donne di coltivare una nuova cultura del matrimonio e della maternità, ma in realtà secondo un sondaggio del 2021 della Lega della gioventù comunista, il 44% delle donne tra i 18 e i 26 anni non è certo di volersi sposare.
Il calo demografico potrebbe avere non banali ripercussioni sul mondo del lavoro, con un netto abbassamento della popolazione in età di impiego. Con un effetto domino su welfare e sanità. L’Accademia cinese delle scienze sociali ha previsto che nel 2035 si potrebbe arrivare al potenziale esaurimento del sistema pensionistico.
Nel 2023 è stato registrato un aumento dei matrimoni, che sembra però collegato soprattutto alla riapertura post Covid che in Cina è avvenuta dopo rispetto all’Europa. Insomma, troppo presto per pensare che si tratti di una tendenza piuttosto che di un caso isolato. Secondo l’Istituto di ricerca cinese YuWa, c’è “urgente bisogno” a livello nazionale di introdurre al più presto politiche per ridurre il costo della maternità, come ad esempio migliori servizi di assistenza all’infanzia, parità di congedo di maternità e paternità, possibilità di lavorare in modo flessibile e concessione alle donne single degli stessi diritti riproduttivi delle donne sposate. La Cina è il secondo tra i Paesi al mondo dove è più costoso crescere un figlio. Il costo per allevare un figlio fino ai 18 anni in rapporto al Pil pro capite è di circa 6,3 volte, contro le 2,08 volte dell’Australia, le 2,5 volte della media dei 27 Paesi dell’Unione Europea, le 4,11 volte degli Stati Uniti e le 4,26 volte del Giappone.
Corea del Sud
C’è un solo Paese dove è più costoso che in Cina crescere un figlio: la Corea del Sud. Seul ha il tasso di fertilità più basso del mondo. Ora il numero medio di figli per ogni donna sudcoreana è di 0,72, anche qui un minimo storico. Il numero è di gran lunga inferiore ad altri Paesi con un andamento demografico negativo, basti pensare all’1,3 del vicino Giappone. Il tasso medio tra i Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico si attesta intorno a 1,58. E si prevede che il calo proseguirà. Per diversi analisti è inevitabile che si arrivi a mettere mano al settore sanitario, peraltro già vittima di alcuni tagli negli ultimi anni. Si stima che entro il 2050 il numero di bambini e di persone di età compresa tra i 15 e i 64 anni diminuirà di un terzo, mentre il numero di anziani dovrebbe più che raddoppiare. Secondo un recente sondaggio di Statistics Korea, solo il 40,6% dei ventenni e il 42,3% dei trentenni ritengono di doversi sposare. Un calo del 20% rispetto al 2008.
Il governo sudcoreano sta provando a intervenire. Il presidente Yoon Suk-yeol ha etichettato il calo demografico una “emergenza nazionale” e ha di recente annunciato la creazione di un ministero dedicato al sostegno delle nascite. Anche qui, sussidi e incentivi non hanno per ora funzionato. Le amministrazioni locali organizzano addirittura degli incontri al buio di gruppo tra single, una sorta di matchmaking di Stato. La recente apertura di una una nuova linea ferroviaria ad alta velocità che collegherà il distretto di Suseo, sull’immenso territorio della capitale Seul, alla città di Dongtan è stata spiegata anche col tema demografico. La riduzione dei tempi di percorrenza “consentirà alle persone di trascorrere più tempo con la famiglia al mattino e alla sera”, ha dichiarato il governo. La speranza delle autorità è quella di incoraggiare un maggior numero di giovani a prendere in considerazione l’idea di una casa fuori città e mettere su famiglia. Ci sono anche proposte controverse, come quella del Korea Institute of Public Finance, che ha suggerito che le bambine femmine inizino la scuola primaria un anno prima dei bambini maschi. La logica si basa sull’idea che gli uomini sono naturalmente attratti dalle donne più giovani perché maturano più lentamente. Con le donne che, in teoria, preferirebbero sposare uomini più anziani. La proposta, inutile dirlo, ha scatenato un’ondata di polemiche.
Giappone
Le polemiche sono all’ordine del giorno anche in Giappone, un Paese che ha più volte detto di aver bisogno di immigrati ma che poi continua a fare pochissimo per accoglierli e integrarli. La popolazione resta ancora lontana dal diventare multiculturale e multietnica, come dimostrano le discussioni dei mesi scorsi per la vittoria di una ragazza di origine ucraina al concorso di Miss Giappone, nonostante sia nata a Tokyo. Dopo diverse polemiche riguardanti la sua vita privata, la ragazza ha dovuto riconsegnare il premio.
Per Tokyo, il 2023 è stato l’ottavo anno consecutivo in cui il numero di nascite è diminuito. In questo caso del 5,1%, precipitando al minimo storico. Si tratta di una tendenza ormai di vecchia data. Il picco della popolazione è stato raggiunto nel 2017 con i 128 milioni di abitanti. Da lì, il calo. Ma è addirittura dagli anni Settanta, dopo la recessione causata dalla crisi petrolifera globale del 1973, che il tasso di fertilità è in calo. Continua a precipitare anche il numero di matrimoni. Lo scorso anno sono stati meno di 500 mila per la prima volta dopo 90 anni. Secondo le ultime proiezioni, la popolazione giapponese diminuirà addirittura del 30% entro il 2070. Per allora, le persone con più di 65 anni saranno il 40% della popolazione.
Il governo del premier Fumio Kishida sta provando a correre ai ripari con sussidi e facilitazioni all’assistenza sanitaria, ma anche qui non ha finora funzionato e la situazione viene descritta come “critica”. Difficile che per invertire la tendenza basti il suggerimento giunto qualche tempo fa da Narise Ishida, membro del Partito liberaldemocratico al governo pressoché ininterrottamente da decenni. Secondo il politico proveniente dalla prefettura di Mie (a est di Kyoto e Osaka) “il tasso di natalità non sta diminuendo perché avere figli costa”, ma perché “il romanticismo è diventato un tabù prima del matrimonio”. I giovani giapponesi di oggi, secondo Ishida, non saprebbero flirtare né dare sfogo a pulsioni romantiche. Il problema, ahinoi, appare ben più complesso di così.
C’era una volta il mito della popolazione sempre in crescita dell’Asia orientale. La Cina, soprattutto, che fino al 2023 è stato il Paese più popoloso del mondo. Un ruolo che le è stato tolto dall’anno scorso dall’India. Giappone e Corea del Sud sono protagoniste di un calo, che assume spesso le caratteristiche di un crollo, già da ben prima. I governi stanno provando a reagire con diverse misure, comprese le più fantasiose, per provare a sostenere le nascite. Il tramonto demografico rischia infatti di ripercuotersi in maniera consistente anche sull’economia e il welfare. Ma la tendenza, intrecciata talvolta con elementi storici o socioculturali, appare in ampia parte “naturale” e molto probabilmente irreversibile.
Il Partito comunista è passato dal cercare di contenere l’eccessiva natalità con la politica del figlio unico, a un calo demografico che preoccupa il governo. La popolazione della Repubblica popolare è diminuita nel 2023 per il secondo anno consecutivo. Nel 2022 si erano perse 850 mila persone, primo storico calo dal 1961, tempi di carestia in seguito al “grande balzo in avanti” di Mao Zedong. L’anno scorso il calo si è persino intensificato, arrivando a toccare i 2,08 milioni. Seppur preventivata, l’inversione della curva demografica non era attesa così presto ed è stata probabilmente accelerata dalla pandemia. Già oggi il 21% della popolazione cinese (circa 297 milioni di persone) ha più di 60 anni, ma nel 2040 la percentuale dovrebbe arrivare al 28%. Nel lungo termine, gli esperti delle Nazioni Unite sostengono che la popolazione cinese perderà 109 milioni di unità entro il 2050, più del triplo rispetto alla stima del 2019.