La partnership tra India e Regno Unito riguarda il progetto di una rete globale di infrastrutture solari che sarà utilizzata per condividere energia pulita ovunque, a partire da Sud-est asiatico, Medio Oriente e Africa
“In battaglia, non esistono più di due metodi di attacco: quello diretto e quello indiretto. Eppure, dalla combinazione di questi due può nascere un’infinita serie di manovre”. È uno degli innumerevoli aforismi attribuiti a Sun Tzu, generale cinese dell’antichità e probabile autore del celebre trattato L’arte della Guerra, ed è anche uno dei principi fondamentali che sembrano guidare le azioni dell’Occidente nel confronto diretto con la Cina, sia sul piano economico – con un florilegio di proposte infrastrutturali che sembra non avere limiti −, sia su quello climatico-ambientale, un terreno che sembra essere già stato selezionato dalle potenze occidentali per lanciare il loro ennesimo, indiretto tentativo di arginare l’ascesa di Pechino a livello globale.
La partnership India-Uk
Uno degli ultimi tasselli di questa grandiosa strategia occidentale è stato posto lo scorso novembre, in occasione della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, meglio nota come Cop26. Oltre ad importanti aperture da parte di India, Cina ed Arabia Saudita, che hanno garantito il loro impegno per una progressiva (ma non rapida) riduzione delle emissioni, la convention di Glasgow si è segnalata anche per il lancio dell’alleanza “Green Grids Initiative”, una partnership tra India e Regno Unito nell’ambito del progetto “One Sun, One World, One Grid” dell’International Solar Alliance. L’iniziativa − di cui il Primo Ministro indiano Narendra Modi aveva iniziato a parlare nel 2018 − si pone l’obiettivo di realizzare una rete infrastrutturale su scala globale che possa accelerare la transizione verso l’energia solare, con la promessa di assicurare benefici e risparmi energetici a tutti i Paesi partner.
L’obiettivo finale di questa iniziativa consisterebbe infatti nello sviluppo di una griglia globale capace di trasmettere energia pulita, ovunque e in qualsiasi momento, permettendo così alle nazioni partner di raggiungere più facilmente gli obiettivi dell’accordo di Parigi e di attirare nuovi investimenti incentrati sulla sostenibilità, creando nel contempo anche milioni di posti di lavoro.
Cosa propone il progetto
Il progetto dovrebbe svilupparsi in tre fasi distinte: nella prima, le infrastrutture solari indiane verrebbero collegate a quelle del Medio Oriente e a quelle del Sud-est asiatico, con l’obiettivo di dare vita a una prima infrastruttura comune tra nazioni appartenenti ad aree geografiche diverse. La rete, una volta operativa, verrebbe utilizzata per condividere l’energia solare a seconda degli specifici bisogni locali. La seconda fase coinvolge l’Africa – dove Pechino, soltanto nel 2020, ha investito più di 43 miliardi di dollari −, attraverso il progressivo collegamento delle reti solari al bacino di energie rinnovabili presenti nel continente africano. La terza fase, quella finale, ha come obiettivo l’interconnessione globale, attraverso un’unica, gigantesca griglia di infrastrutture solari capaci di sprigionare energia pulita. Al momento, le nazioni che avrebbero manifestato il loro aperto supporto all’iniziativa sarebbero più di 80.
Indipendentemente dagli obiettivi dichiarati, questo progetto sembra chiaramente rivolto contro la Cina e la sua Belt and Road Initiative, la più grande iniziativa infrastrutturale di tutti i tempi. I rimandi alla BRI sono evidenti anche nel naming del progetto: “One Sun, One World, One Grid” racchiude in sé un chiaro richiamo a “One Belt, One Road”, uno dei tanti nomi con cui si è soliti riferirsi alla BRI.
Questa iniziativa di carattere marcatamente ambientale, resa possibile dagli sforzi congiunti dell’India e di alcune potenze europee, sembra segnare in maniera evidente un sostanziale mutamento dell’approccio occidentale nei riguardi della Cina: da un confronto economico, sostanzialmente infrastrutturale, si è passati infatti a una sfida indiretta nel campo dell’ambiente e dei cambiamenti climatici, un terreno sul quale l’Occidente sembra sentirsi in qualche modo avvantaggiato. Essendosi reso conto di non poter competere con Pechino sul piano economico e operativo – i Paesi membri della Belt and Road Initiative, lanciata nel 2013, hanno già accordi infrastrutturali con la Cina per circa 900 miliardi di euro −, l’Occidente sembra aver così deciso di spostare il confronto sul piano climatico-ambientale, augurandosi di poter recuperare terreno nei confronti di Pechino anche grazie alla risonanza mediatica della sostenibilità e di tutti i temi ad essa connessi.
Le tensioni tra India e Cina
Per l’India, questa nuova alleanza avrà evidenti risvolti geopolitici e, con ogni probabilità, è destinata a rendere ancora più complesse le instabili relazioni con Pechino. Da una parte, infatti, la tensione tra Cina e India è alle stelle per la questione relativa al confine tra i due Paesi, dove negli scorsi mesi un confronto a fuoco tra militari ha provocato una ventina di morti dalla parte indiana, ma anche per il China-Pakistan Economic Corridor, uno dei progetti di punta della Belt and Road che attraversa anche il territorio del Kashmir, parzialmente amministrato da India e Pakistan e rivendicato da entrambe. Buona parte dell’ostilità indiana nei confronti della BRI è infatti dovuta al crescente aumento dell’influenza cinese in Pakistan, l’eterno rivale di New Delhi.
Ma c’è anche un altro lato della medaglia: India e Cina sono membri del gruppo di lavoro dei Brics, e l’India è stata recentemente inclusa nella Shanghai Cooperation Organization, un’organizzazione specializzata nella cooperazione in materia di sicurezza e anti-terrorismo. New Delhi e Pechino, durante la Cop26 di Glasgow, hanno inoltre espresso due posizioni sostanzialmente simili, lasciando intendere una possibile comunità d’intenti che potrebbe estendersi anche al di là delle questioni climatiche. Nel corso degli anni, tuttavia, l’aumento della presenza cinese nell’Oceano Indiano ha spinto progressivamente l’India verso il blocco anti-cinese del QUAD, o Quadrilateral Security Dialogue, un’alleanza tra Giappone, Stati Uniti, India e Australia che persegue l’obiettivo di un Indo-Pacifico libero, aperto e sicuro. Ma il gruppo è stato formato soprattutto per contenere l’aggressività cinese, specialmente quella esercitata per vie marittime.
Dopo il lancio della Green Grids Initiative, l’ambivalenza della politica estera indiana nei confronti di Pechino è senz’altro destinata ad accentuarsi, oscillando tra una competizione serrata sul piano militare ed economico (ed esacerbata dai recenti scontri al confine) e una possibile collaborazione finalizzata alla riaffermazione del ruolo regionale delle due potenze.
Le alternative occidentali alla Via della Seta
L’Occidente aveva già tentato di opporsi alla Belt and Road Initiative attraverso il progetto infrastrutturale Build Back Better lanciato dal Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, in occasione dell’ultimo G7 dello scorso giugno, ma anche con il maxi-progetto Global Gateway della Commissione europea, un ambizioso piano per la realizzazione di infrastrutture nei Paesi in via di sviluppo. Il progetto – presentato chiaramente dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von Der Leyen, come un’alternativa alla Belt and Road – potrà contare su risorse finanziarie per 300 miliardi di euro, e ruoterà attorno ai concetti di eticità e di trasparenza con cui l’Unione europea intende differenziarsi dalla Cina.
A differenza dei cinesi, abituati a prestare denaro ai partner della BRI, la Global Gateway opererebbe attraverso finanziamenti, e sarebbe sostenuta da “standard democratici, sociali e ambientali”. Più che una corsa alle infrastrutture globali – un problema in cui l’effettiva cooperazione globale sarebbe auspicabile −, quella suscitata da Ursula von Der Leyen ha tutte le sembianze di una guerra di valori, in nome di uno sviluppo infrastrutturale etico e sostenibile. Con la Green Grids Initiative, si è passati dalle infrastrutture fisiche a quelle solari, ma l’obiettivo di fondo rimane il medesimo: mettere i bastoni tra le ruote a un Dragone che non è più dormiente, ma che anzi sta avanzando alacremente, con una velocità non più paragonabile a quella dei tempi migliori, ma sempre costante.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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“In battaglia, non esistono più di due metodi di attacco: quello diretto e quello indiretto. Eppure, dalla combinazione di questi due può nascere un’infinita serie di manovre”. È uno degli innumerevoli aforismi attribuiti a Sun Tzu, generale cinese dell’antichità e probabile autore del celebre trattato L’arte della Guerra, ed è anche uno dei principi fondamentali che sembrano guidare le azioni dell’Occidente nel confronto diretto con la Cina, sia sul piano economico – con un florilegio di proposte infrastrutturali che sembra non avere limiti −, sia su quello climatico-ambientale, un terreno che sembra essere già stato selezionato dalle potenze occidentali per lanciare il loro ennesimo, indiretto tentativo di arginare l’ascesa di Pechino a livello globale.
Uno degli ultimi tasselli di questa grandiosa strategia occidentale è stato posto lo scorso novembre, in occasione della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, meglio nota come Cop26. Oltre ad importanti aperture da parte di India, Cina ed Arabia Saudita, che hanno garantito il loro impegno per una progressiva (ma non rapida) riduzione delle emissioni, la convention di Glasgow si è segnalata anche per il lancio dell’alleanza “Green Grids Initiative”, una partnership tra India e Regno Unito nell’ambito del progetto “One Sun, One World, One Grid” dell’International Solar Alliance. L’iniziativa − di cui il Primo Ministro indiano Narendra Modi aveva iniziato a parlare nel 2018 − si pone l’obiettivo di realizzare una rete infrastrutturale su scala globale che possa accelerare la transizione verso l’energia solare, con la promessa di assicurare benefici e risparmi energetici a tutti i Paesi partner.