Il carattere a-politico dell’epoca tecnocratica impone di sperimentare nuove forme di collettivizzazione degli ideali e del senso comune, per superare l’adattamento al mondo così com’è ed essere una forza socialmente creativa
Il nostro tempo è caratterizzato da almeno due fenomeni inediti, quanto a portata e diffusione: per un verso, la società è attraversata da un progresso tecnologico senza pari, per un altro, le generazioni contemporanee fanno esperienza di una spoliticizzazione senza precedenti. Ebbene, in questo scenario, sorge l’esigenza di ‘definire’ qual è il rapporto che intercorre tra l’uomo e il mondo che abita. In questo senso, ci siamo chiesti: cosa resta tra ‘noi’ e il mondo?
A nostro avviso, chiedersi cosa resti tra uomo e mondo significa prendere in considerazione, attraverso una sola domanda, alcune ‘questioni cruciali’ del nostro tempo: questioni che hanno a che fare tanto con i risvolti e le ricadute della sempre più forte saldatura tra individui e dispositivi digitali, quanto con le implicazioni politico-sociali dovute al progressivo ‘svuotamento’, se non addirittura smantellamento, dei corpi intermedi (partiti, associazioni) dagli spazi pubblici.
Progresso digitale e spoliticizzazione. Si tratta di comprendere se, e in che misura, il combinato disposto di due fenomeni attuali – l’incursione massiccia della tecnologia in ogni ambito della vita privata e sociale e il sempre più marcato indietreggiamento della politica dai luoghi propriamente politici – stia influendo sul rapporto che intercorre tra uomo e mondo, sulle pratiche di pensiero collettivo, sulla tenuta dei modelli culturali tradizionali, sull’articolazione dell’esercizio del potere pubblico. Procediamo per punti.
Primo punto: siamo davvero nell’epoca della dis-intermediazione o viviamo una nuova forma di iper-intermediazione?
Si sente spesso parlare del tempo in cui viviamo come ‘epoca della dis–intermediazione’. Si tratta di un’espressione utilizzata per fotografare la crisi delle forme di rappresentanza politica e frequentemente assunta a modello paradigmatico di una società ‘disorganica’; come tale caratterizzata da una diffusa resistenza a ‘costruire ponti’, collegamenti, tra l’individuo e una dimensione politica più ampia, capace (si pensi ai partiti) di trascendere il singolo e al tempo stesso assorbirne interessi, bisogni, aspettative, speranze.
Ma, è poi così vero che viviamo in un tempo dis-intermediato? Diversamente da quanto può risultare in apparenza, no. A ben vedere, la nostra epoca è già, e potenzialmente lo sarà ancor di più, iper-intermediata. Accanto al dissolvimento dei corpi intermedi tradizionali, è, infatti, in atto un fenomeno opposto, traghettato tenacemente da una forza alternativa e solo apparentemente non politica: al posto dei partiti, delle associazioni tradizionali, il rapporto tra ‘noi e il mondo’, oggi, risulta costantemente ‘intermediato’ dalla tecnologia e dai sistemi di Intelligenza Artificiale. Cambiano quindi i referenti, gli attori, ma il meccanismo di intermediazione non muta. Piuttosto, nella nostra epoca, l’intermediazione si intensifica e, sfruttando rete e potere tecnologico, diventa immediata, ‘istantanea’…ammantandosi, per via di questa tempestività, di un’asserita autenticità.
Tuttavia, queste nuove forme di intermediazione sono tutt’altro che autentiche. La tecnologia, e più in particolare il potere digitale, benché produca servizi intangibili, materialmente inapprensibili, come spiega molto bene Byung-Chul Han quando ci parla dell’iperfiltro, è tutto fuorché trasparente. Il potere tecnologico, in modo molto concreto, “produce una nuova realtà che non esiste affatto, in quanto elimina la realtà come referente” (Infocrazia, Einaudi, 2023).
Ma non è tutto. Alla surroga, se non proprio all’espulsione, della realtà ‘reale’ in favore di una ‘nuova’ realtà virtuale da parte dell’ordine digitale, si assomma il restringimento via via più invasivo e sottile del ‘campo visivo’, individuale e collettivo: i sistemi di profilazione, costantemente in atto, influenzando i meccanismi di comunicazione e i processi di formazione della volontà, favoriscono la formazione di gruppi sociali omogenei, rendendo sempre più faticoso l’accesso, anche solo in termini percettivi e cognitivi, a una dimensione della vita sociale genuinamente e autenticamente pubblica.
Secondo punto: l’uomo, attraverso la tecnologia, sembra ‘esonerarsi’ dal rapporto con il reale. È ancora possibile ‘avvertire’ le urgenze del presente?
Ogni generazione fa esperienza di fatti socialmente ‘inediti’ rispetto a quanto vissuto dalle ‘generazioni’ immediatamente precedenti. Una simile constatazione appare senz’altro ovvia, per non dire banale: ogni fatto, per la semplice circostanza di accadere in un ‘tempo’ successivo, è per forza di cose ‘inedito’ rispetto al passato. Tuttavia, non tutti i fatti inediti sono rilevanti o decisivi allo stesso modo: né sul piano antropologico e psicologico, né su quello filosofico e sociale.
Vi sono, infatti, “fatti sociali” che danno vita a cambiamenti particolarmente significativi, che scuotono profondamente le strutture istituzionali e le pratiche sociali, determinando uno scompaginamento degli orientamenti etici o morali, delle consuetudini, delle credenze e delle determinazioni interiori; nonché delle aspirazioni di una certa società. Sono utili all’economia del discorso le parole, prima di Émile Durkheim, per il quale i “fatti sociali” sono “modi di agire, di pensare e di sentire che presentano la notevole proprietà di esistere al di fuori delle coscienze individuali” e, poi, ancora, quelle di Marcel Mauss, secondo il quale i fatti sociali “totali”, sono quei fenomeni capaci di influenzare le dimensioni della società nel loro insieme (prassi, pensiero, sentimenti). Ebbene, nel corso degli ultimi due decenni, le società contemporanee hanno iniziato a fare esperienza di (almeno) un fatto sociale che, quanto a portata, diffusione e carica ‘perturbativa’, pare effettivamente definibile come “inedito” e “totale”: la rivoluzione digitale.
In effetti, se è vero che quello della rivoluzione digitale è un fenomeno legato al rapporto, per così dire primordiale, tra uomo e tecnica, è altrettanto innegabile che alla luce di alcuni recenti sviluppi delle frontiere dell’Intelligenza Artificiale e dell’ormai “naturale” fusione tra essere umano e dispositivo digitale, esso abbia assunto tratti del tutto nuovi.
Come noto, e come inteso dal concetto di iperfiltro, la tecnologia ha capillarizzato ogni dimensione della vita, privata e pubblica, elevandosi a referente e mediatore principale di ogni attività umana: i numerosi e versatili device selezionano, certificano, rispondono, suggeriscono e, in alcuni casi, scelgono al posto nostro. Così facendo, (iper)intermediano ogni ambito della vita, penetrando fin dentro le dimensioni più intime dell’individuo. In buona sostanza, i nuovi poteri del digitale, tramite la galassia di app oggi disponibili, alterano l’articolazione simbolica del linguaggio e del pensiero; rendono passiva l’azione posta in essere dal soggetto agente e, infine, determinano un paradosso: la “cosa” pensa e l’individuo, da fruitore, diviene esso stesso strumento.
Ecco che, nell’ambito dello scenario sin qui descritto, si può osservare come la rivoluzione digitale abbia finito per “spingere fuori dalla realtà” l’individuo, il quale sente a sé più vicino l’intangibile mondo delle piattaforme virtuali che gli spazi veri, concreti, apprensibili, offerti dall’ambiente naturale. Come insegna la lucida lezione antropologica e sociale di Gehlen, l’uomo, attraverso il rinvio alla tecnica, è riuscito a svincolarsi dal dominio della pura necessità. La tecnica (a partire dalla costruzione di pellicce, frecce, archi, capanne ecc.) ha consentito all’uomo – biologicamente debole rispetto agli altri animali – di esonerarsi dalle situazioni di rischio o pericolo incontrollato e di accedere, così, anche al mondo culturale.
Tuttavia, nell’epoca tecnologicamente filtrata, la tecnica ha perso la sua cifra di strumento-ponte, divenendo vettore di una alienazione dell’uomo dalla dimensione activa della vita. Per un verso, gli individui in fuga da una realtà incerta, caratterizzata dalla precarizzazione sempre più insidiosa delle sicurezze tradizionali (famiglia, lavoro, ambiente), affidano all’apparenza rassicurante delle arene virtuali il compito di ricreare le garanzie sociali perdute e ridurre le incognite che abitano le relazioni intersoggettive autentiche. Per un altro, le istituzioni pubbliche, incapaci di traguardare politicamente l’orizzonte, e fronteggiare choc sociali economici di larga scala, sembrano aver ceduto il passo – e con esso le coordinate più delicate dell’esercizio del pubblico potere – all’asserita infallibilità algoritmica.
Terzo punto: c’è ancora spazio per il pensiero utopico?
L’individuo, esonerato dal mondo – dalle tragedie, dalle istanze, dalle urgenze che lo riguardano – diviene incapace di avvertire autenticamente le necessità del presente e così pianificare, ma prima ancora, immaginare, il proprio futuro. Accanto allo ‘svuotamento’ dei luoghi intermedi visibili e ai paradossi cui è sottoposto l’”esonero” contemporaneo, sembra realizzarsi una lenta e tenue eclissi degli spazi che ne rappresentano l’antecedente necessario – in particolare, il pensiero e, con esso, la tensione utopica. Non è un caso che, spesso, la contemporaneità sia accostata alla crisi dell’utopia, al preoccupante assopimento della capacità utopica.
Viviamo infatti in un’epoca di ineguagliata innovazione tecnologica, nella quale il cambiamento diviene un fatto strutturale e connaturato: la tecnologia produce continuamente l’inedito. Al contempo, però, ci troviamo culturalmente e socialmente immersi in una profonda (a tratti, sinistra) sensazione di impotenza: come a dire che il mondo avanza mutando a velocità estrema mentre retrocede la consapevolezza di poter effettivamente incidere su tale mutamento. Ne deriva un irrigidimento del paradigma individualistico come inevitabile tentativo di salvaguardia personale: recuperando Zygmunt Bauman, l’uomo contemporaneo assume lo stile predatorio del cacciatore per garantirsi una sopravvivenza che fatica a declinarsi in termini sociali e collettivi. E in questa lotta per la sicurezza, egli smarrisce la tensione al futuro, immergendosi fino ad impantanarsi nel mondo così com’è.
Perpetrare critiche pessimistiche alla rivoluzione digitale, oggi, non è una soluzione percorribile; ma non lo è neppure delegare ad essa l’auto-determinazione dei fini ultimi, dei valori etici, degli scenari sociali desiderati o desiderabili. È solo ri-trasformando un mondo sociale, ormai spesso subìto, in uno spazio agito e immaginabile che potremo riappropriarci di una dimensione politicamente utopica. Politicamente, perché il carattere a-politico dell’epoca tecnocratica impone di sperimentare nuove forme di collettivizzazione degli ideali e di tessitura del senso comune; utopica, perché possa superarsi la tendenza all’adattamento, a favore, invece, di una forza socialmente creativa e creatrice, per sua stessa natura solo umana.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
Puoi acquistare la rivista sul sito o abbonarti
Il nostro tempo è caratterizzato da almeno due fenomeni inediti, quanto a portata e diffusione: per un verso, la società è attraversata da un progresso tecnologico senza pari, per un altro, le generazioni contemporanee fanno esperienza di una spoliticizzazione senza precedenti. Ebbene, in questo scenario, sorge l’esigenza di ‘definire’ qual è il rapporto che intercorre tra l’uomo e il mondo che abita. In questo senso, ci siamo chiesti: cosa resta tra ‘noi’ e il mondo?