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L’Europa degli Europei


Intervista al Presidente del Parlamento europeo, David Sassoli: la responsabilità della grande sfida sovranista e nazionalista si affronta insieme ai cittadini, come le elezioni

Dallo scorso 3 luglio David Maria Sassoli (Firenze, 1956) è il Presidente del Parlamento europeo, di cui è stato vicepresidente dal 2014. Giornalista, collabora con varie testate fino al 1992, quando comincia a lavorare per la Rai come inviato del Tg3, diventando vicedirettore del Tg1 nel 2006. La sua carriera politica inizia nel 2009, con l’elezione a eurodeputato per il Partito Democratico divenendone capo delegazione all’interno dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici.

Cominciamo dalla sua investitura: lei ha detto che vuole fare del Parlamento europeo la casa della democrazia europea, che vuol dire?

Vuol dire che il Parlamento europeo deve diventare il punto di riferimento dei cittadini europei, dev’essere trasparente. Le associazioni, i partiti, i cittadini devono poter vedere il Parlamento come la loro casa; perciò abbiamo bisogno di riforme, perché come in tutte le grandi strutture ci sono delle abitudini che vanno cambiate. Abbiamo bisogno anche di facilitare l’accesso dei cittadini favorendone l’ascolto, ossia fare in modo che i provvedimenti e i lavori delle Commissioni creino partecipazione di cittadini e movimenti. C’è molto da fare. Non si diventa casa della democrazia per decreto, ma per scelta politica.

Qui entra in gioco il ruolo dei corpi intermedi: negli ultimi anni si è tentato di ridurne lo spazio, si pensa di rilanciarne la funzione?

Ho visto che da parte delle forze europeiste il tema del dialogo coi corpi intermedi e con l’associazionismo è molto presente. Credo che questo sia anche il frutto del risultato elettorale. I partiti europeisti hanno vinto non da soli, ma con i cittadini, con le opinioni pubbliche. Questa è la più grande risorsa per l’Europa. L’Europa non si costruisce solo con i partiti, ma si costruisce con i cittadini.

Le elezioni del 26 maggio esprimono un voto europeista?

Abbiamo vinto le elezioni: volevano spaccare l’Europa e invece l’Europa ha diviso i Governi. Anche nel mio Paese, l’Italia, è andata così.

Infatti il M5S l’ha votata, non la Lega: sta cercando di ricostruire i ponti dell’Italia con l’Europa o del M5S con il Pd?

Il Parlamento è di per sé un luogo del dialogo, è il luogo dove le forze politiche trovano convergenze e nel Parlamento europeo questo avviene naturalmente. Questa sarà una legislatura politica, perché tutti hanno capito che la sfida sovranista e nazionalista, che è stata battuta con il voto delle europee, ci ha consegnato una grande responsabilità.

Lei comunque in una riunione del suo partito a luglio ha parlato di ricostruire ponti con quell’area politica che si riferisce al M5S…

Non bisogna mai avere paura del dialogo e del confronto e la sede parlamentare è la sede appropriata; poi credo che le forze politiche debbano non considerarsi auto-sufficienti e quindi debbano avvertire la necessità d’instaurare rapporti e ove possibile convergenze senza per questo rinunciare alle proprie identità. Le diversità devono essere viste come una ricchezza non come un ostacolo.

Le elezioni europee consegnano un Parlamento con un asse conservatori-socialdemocratici indebolito e la presenza di nuovi soggetti, ma le cariche europee sono ancora il frutto di una spartizione tra i due principali gruppi...

Spartizione è un brutto termine... Tra le forze europeiste, liberali, socialisti e popolari è stato trovato un accordo nel Consiglio. Noi fino all’ultimo abbiamo pensato che la scelta migliore sarebbe stata quella d’incaricare per la Commissione un Presidente che era stato proposto agli elettori, secondo il metodo dello spitzenkandidaten. Naturalmente, abbiamo capito che i Governi hanno spinto in altra direzione, ma l’hanno fatto comunque all’interno di un quadro europeista. Perché le forze che hanno trovato l’accordo nel Consiglio, che sono la maggioranza dei Governi europei, vanno ricercate dentro le famiglie europeiste dei liberali, dei socialisti e dei popolari.

Lasciando fuori però i verdi e la sinistra...

Sono andato a Bruxelles i primi di giugno, avevamo messo in piedi un gruppo di lavoro sui contenuti, avendo attenzione a coinvolgere anche quella sensibilità che si era espressa nel voto ai Verdi. Poi, però, i Verdi hanno deciso di andare per conto loro: senza dire nulla, a tre giorni dall’elezione del Presidente, si sono candidati, come a dire “non abbiamo bisogno di nessuno”. Spero che questo strappo si superi, perché tutti capiscono quanto sia importante il movimento dei Verdi, la loro sensibilità e il successo che ha registrato in alcuni Paesi. Ma credo che valga un principio: se vogliamo una legislatura politica, tutti devono avere molto chiaro che è finito il tempo dell’autoreferenzialità.

Siamo condannati all’asse franco-tedesco come quello che governa il Consiglio e quindi le scelte in Europa?

Da quello che è emerso, le scelte del Consiglio sono state molto condivise dai partiti europeisti, e da parte del gruppo socialista gli attori principali sono stati Sánchez e Costa. Ossia, mi sembra che ci sia stata una scelta che è andata oltre i Governi e che riguarda le famiglie politiche. Perché se noi vogliamo un’Europa diversa e anche più democratica dobbiamo investire molto di più sui partiti europei. E mi sembra che in questo passaggio i partiti europei siano stati molto presenti, non sono stati solo i Governi a essere protagonisti.

Si è liquidato il metodo dello spitzenkandidaten, la nuova Presidente è stata sostenuta dall’estrema destra polacca contro Timmermans, 15 anni di egemonia popolare nella Ue: come valuta l’elezione della von der Leyen?

Penso che la forza della Presidente incaricata sia stata quella di essersi spinta verso una convergenza molto diversa dal passato. Con il suo discorso ha assunto impegni molto precisi che vanno dal rimettere in ordine gli strumenti della democrazia europea alle politiche sociali, sostenendo addirittura che la sfida per l’Europa è il 55% di emissioni in meno di CO2. Penso che sia stato un discorso molto impegnativo e che abbia assunto molti temi che il Parlamento e le forze europeiste hanno proposto nella campagna elettorale e nei colloqui che hanno avuto con lei. Nel Parlamento ci sono convergenze che si realizzano per tanti altri fattori, ma il dato politico del coagularsi di una maggioranza europeista non può essere messo in discussione.

Quali sono comunque i limiti di questa candidatura?

Noi abbiamo sostenuto fino all’ultimo che la scelta migliore sarebbe stata quella di indicare un candidato spitzen alle elezioni (capolista, ndr). Ma è il Trattato che dà il potere al Consiglio d’indicare il candidato a Presidente della Commissione e i Governi hanno optato per una scelta diversa. Però una cosa ci tengo a dirla, perché nel processo di avvio della legislatura sono accaduti due fatti: da una parte, se è vero che la scelta del Consiglio è stata quella di non ascoltare il richiamo del parlamento d’indicare lo spitzen, il Parlamento ha però deciso di procedere anche autonomamente rispetto alle scelte compiute dai Capi di Stato e di Governo: io non sono figlio del Consiglio, sono stato scelto dal Parlamento. In secondo luogo, vi è stata la volontà della signora von der Leyen di stabilire una stretta collaborazione con i partiti europeisti. Non sono fatti banali, ma aspetti molto importanti del processo di avvio della legislatura, perché gli eurodeputati hanno discusso, si sono confrontati, hanno messo a punto molte iniziative. In Parlamento noi non eleggiamo un Governo, ma abbiamo dato mandato alla signora von der Leyen di formare la sua Commissione. Il Parlamento poi sarà chiamato a giudicare la coerenza dell’impostazione che lei ha illustrato in plenaria. Questo significa esame dei Commissari e quindi giudizio finale sulla Commissione. Gli impegni che lei ha preso sono molti, dalle questioni sociali ai temi dell’immigrazione, a quelli dell’uscita dalle politiche di rigore, e noi dovremo giudicarne la coerenza.

A questo proposito, ci sarà una gestione più flessibile dei parametri di stabilità?

L’impostazione che ha dato la Presidente è quella di salvaguardare la flessibilità nell’attuazione del patto di stabilità e crescita. Ci sono state parole chiare sugli investimenti, sull’introduzione di un bilancio per la zona Euro; quello della flessibilità è un tema su cui abbiamo molto discusso in Parlamento e anche su questo misureremo la sua azione. Ursula von der Leyen ha usato parole chiare sulle proposte per una strategia contro la povertà, annunciando una direttiva quadro sul salario minimo e sui piani di protezione sociale: credo che in questo abbia raccolto molte delle sollecitazioni della sinistra europea.

Qual è il segno di una donna prima Presidente della Commissione?

L’impegno che ha assunto è di avere una Commissione al 50% di uomini e di donne e questo è rilevante e inedito, rappresenta una sfida ai Governi degli Stati membri.

Lei ha fatto un appello al Consiglio europeo per la riforma del regolamento di Dublino.

Sì, perché i Governi si devono abituare a rispettare il Parlamento e questo significa rispettare i cittadini. Ci troviamo di fronte a un’emergenza come quella dell’immigrazione per cui o l’Europa si dota di strumenti per poterla affrontare, o altrimenti è inutile continuare a chiedere “l’Europa cosa fa?”. E uno dei punti su cui il Parlamento è stato molto chiaro nella scorsa legislatura è stato proprio sulla riforma del regolamento di Dublino che, senza intervenire sui Trattati, può dare all’Europa gli strumenti per potere agire. Perché, se si dice che un migrante che arriva in Italia arriva in Europa, è l’Europa che deve muoversi. Su questo noi giochiamo una partita decisiva: quella di governare il tema dell’immigrazione e di sopperire al peso che tanti Paesi sopportano per essere frontiera sud dell’Unione.

Come si coniuga l’idea dell’immigrazione come tema europeo con il principio del porto più vicino nel salvataggio?

Ci sono due questioni che bisogna mantenere distinte: i Paesi dell’Unione sono tenuti al rispetto delle convenzioni internazionali e questo è un principio che non può essere derogato; la seconda questione è su come si debba affrontare il problema dell’immigrazione e noi diciamo con la solidarietà di tutti i Paesi dell’Unione europea. E, ovviamente, secondo le convenzioni internazionali, i porti non possono essere chiusi e la gente in mare dev’essere salvata.

Lei fa parte di quella generazione che ha sempre visto in Londra un simbolo di libertà: è perciò che ha parlato di dolore riferendosi alla Brexit?

Sì, perché pensare che un Paese come la Gran Bretagna ci lascia perché pensa di vivere meglio senza di noi è doloroso. Ma su questo dobbiamo essere molto chiari, perché l’Europa che litiga su tutto, sulla Brexit ha sempre avuto una voce sola e questa voce dev’essere rispettata da tutti. Per noi l’accordo che era stato raggiunto è il miglior accordo possibile, se non si vuole quell’accordo ci si assumerà le conseguenze, compresa la riapertura della frontiera irlandese. Il Parlamento lo ribadirà in una nuova risoluzione, perché sia chiaro che ognuno deve assumersi le proprie responsabilità.

Con Boris Johnson c’è il rischio di una Brexit senza accordo

Noi siamo molto contrari a questa possibilità, pensiamo che questo sia un danno non solo per i cittadini europei ma anche per quelli britannici. Vogliamo fare di tutto perché ciò non si verifichi, ma le scelte compiute con il referendum e quelle del Parlamento britannico devono essere rispettate. Se l’idea è quella di uscire senza accordo, non possiamo non prenderne atto; ma dobbiamo ribadire che la nostra posizione dev’essere rispettata e che ci si deve assumere la responsabilità allora che in Irlanda ci sia una frontiera.

Ci sono tre eurodeputati catalani eletti da oltre due milioni di cittadini europei, cui lo Stato spagnolo impedisce di esercitare la funzione di rappresentanza: che ne pensa?

Nel 1975, quando si decise di procedere all’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale, ci fu una grande discussione sul fatto se dare all’Europa una legge elettorale comune, ma questo non fu possibile. Le leggi elettorali nazionali e le procedure previste rispecchiano non solo meccanismi giuridici, ma anche elementi di garanzia che sono propri di ogni Stato democratico dell’Unione Europea. In questa vicenda le autorità spagnole sono il dominus.

È attesa a breve la sentenza del processo alla leadership indipendentista: che idea si è fatto del conflitto catalano?

Il mio ruolo è quello di rispettare le autorità nazionali perché stiamo parlando di Paesi democratici. Secondo me, nella vicenda catalana, c’è sia una grande questione politica, che una questione di rispetto di uno Stato nazionale e delle sue leggi. Quindi ci sono entrambi gli aspetti, politico e giuridico. Ma si tratta di un dibattito interno a uno Stato membro, su cui il Parlamento europeo non ha nessuna possibilità d’intervenire.

Nel suo discorso d’insediamento ha fatto riferimento alla memoria europea della guerra, della dittatura e della Shoa: si parla troppo leggermente oggi di nuovo fascismo, o davvero ce ne sono le premesse?

Io penso che delle tentazioni autoritarie esistano, non è un caso che anche la Commissione Juncker e il Consiglio abbiano aperto delle procedure sul rispetto dello stato di diritto in alcuni Paesi membri. Questo vuol dire che delle tentazioni sono presenti e che alcuni Paesi devono calibrare meglio i loro interventi di riforma, per esempio sul sistema giuridico, rispetto agli standard europei. Questa è una questione all’ordine del giorno che anche la Presidente von der Leyen ha ribadito con grande chiarezza. Noi abbiamo il dovere di squadernare le nostre libertà, consigliando dove si deve consigliare e ammonendo quando si devono ammonire quegli Stati che, con troppa facilità, manipolano le regole della democrazia. Questo è un compito su cui il Parlamento si è già espresso in più occasioni e che anche la Commissione sta seguendo con attenzione.

Vede un ruolo positivo della stampa in questo senso?

Sicuramente il dibattito in questi mesi è stato molto seguito. C’è una funzione su cui il mondo dell’informazione dovrebbe interrogarsi, perché le opinioni pubbliche hanno difficoltà a capire i meccanismi istituzionali. La stampa non può supplire, ma in tanti casi può aiutare. Perché è facile che nei dibattiti pubblici si parli di funzioni che in realtà non sono attribuite, un caso esemplare è quello dell’immigrazione. L’immigrazione è politica nazionale, non politica europea. Se si vuole un’Europa che si occupi d’immigrazione, le vanno trasferiti dei poteri. C’è forse da lavorare di più su un’alfabetizzazione rispetto ai meccanismi europei e il mondo dell’informazione, ma anche quello della scuola e dell’università, può rendere più consapevoli i cittadini. Vanno conosciuti i meccanismi per poterli cambiare, anche radicalmente.

Lei era già vicepresidente del Parlamento europeo, cosa cambia da Presidente?

Sono stato vicepresidente dell’Europarlamento durante le presidenze Schulz e Tajani. Cambia molto, perché la funzione di Presidente è anche d’interlocuzione con le altre istituzioni. Ci saranno due dossier molto importanti che mi coinvolgeranno alla ripresa: uno è la Brexit, perché il Parlamento vota l’accordo e l’altro è l’apertura del negoziato sul bilancio pluriennale dell’Unione. Le tante tentazioni di tagliare i fondi della ricerca, della cultura, dell’agricoltura e del sociale devono essere contrastate.

Com’è stata questa prima fase?

È stato un avvio forte perché le elezioni hanno prodotto una scossa. Hanno prodotto la voglia di riprenderci il cantiere europeo. E oggi abbiamo delle idee importanti per dare un segno politico alla legislatura e cambiare le politiche. E questo è un lavoro che vale l’idea di una nuova Europa, o comunque di un’Europa che non si ferma. In questi dieci anni, la sensazione è che il cantiere si sia fermato. Credo che rilanciarlo sia la sfida che ci accompagnerà nei prossimi cinque anni.

@em_brandolini

Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.

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