Suonano gravi ma reali le parole di Mark Lynas, scrittore ed esperto di clima, che ci sprona a lottare per il futuro dei nostri figli
“Già oggi – annota l’attivista Mark Lynas nella prefazione del volume Il nostro ultimo avvertimento. Sei gradi di emergenza climatica, recentemente pubblicato da Fazi Editore nella traduzione di Michele Zurlo – viviamo in un mondo che è un grado più caldo rispetto a quello in cui hanno vissuto i nostri nonni e genitori. E all’orizzonte, non troppo lontano, incombono i due gradi Celsius che metteranno in difficoltà le società umane e che distruggeranno molti ecosistemi naturali, tra cui le foreste pluviali e le barriere coralline. Adesso sono certo che, una volta raggiunti i tre gradi, la stabilità della civiltà umana verrà messa seriamente in pericolo, mentre a quattro gradi è probabile che le società umane andranno incontro a un collasso su scala globale, accompagnato da un’estinzione di massa della biosfera che rappresenterà l’evento peggiore per decine, se non centinaia di milioni di anni. A cinque gradi, assisteremo al verificarsi di retroazioni positive di portata enorme, che causeranno un ulteriore innalzamento delle temperature, e a impatti climatici talmente estremi da rendere la maggior parte del pianeta biologicamente invivibile, mentre gli esseri umani saranno costretti a condurre un’esistenza precaria all’interno di piccoli rifugi. Infine, raggiunti i sei gradi, rischieremo di innescare un processo di surriscaldamento fuori controllo, che potrebbe portare all’estinzione completa della biosfera e distruggere per sempre la capacità di questo pianeta di offrire le condizioni che rendono possibile la vita”.
Un quadro inclemente, di drammatica attendibilità, che muta senza arresto. “Anche mentre redigevo questo libro – testimonia – ho potuto osservare come l’emergenza climatica continuasse ad aumentare. Quando avevo iniziato a scrivere, l’Australia era ancora un paese normale. Oggi invece, dopo i devastanti roghi del gennaio 2020 seguiti alle temperature eccezionalmente elevate che hanno riarso una nazione già colpita dalla siccità, normale non lo è più. Per settimane, milioni di australiani hanno dovuto vivere sotto una coltre di fumo, mentre 12 milioni di ettari di boscaglia e di terreni agricoli venivano inceneriti da mega incendi catastrofici. Di per sé il bilancio delle vittime, che attualmente registra trentatré morti, risulta già abbastanza tragico. Tuttavia, oltre a esso occorre tenere conto del miliardo di animali selvatici che, secondo le stime, sono periti allo stesso modo. E va inoltre ricordato che per questo paese non potrà più esservi un ritorno alla normalità. La normalità è finita, per sempre”.
Un quadro, tuttavia, che potrebbe essere ancora modificato in ragione di una prospettiva meno esiziale, attraverso un impegno congiunto e decisivo: “Non sono in grado di affermare con precisione quando, in futuro, il pianeta raggiungerà i vari livelli di temperatura. Ciò non è da imputarsi tanto all’incertezza della scienza – sebbene, in una certa misura, essa lo sia – quanto al fatto che la rapidità del surriscaldamento che avverrà in questo secolo dipenderà dalle decisioni ancora da prendere in merito a quanto e con che velocità continueranno ad aumentare le emissioni di carbonio. Se verrà mantenuta quella che oggi è la normale traiettoria, potremmo andare incontro a un innalzamento di due gradi già all’inizio degli anni Trenta, di tre gradi intorno alla metà del secolo e di quattro gradi all’incirca entro il 2075. Se, malauguratamente, dovessero innescarsi le retroazioni positive prodotte dallo scongelamento del permafrost nell’Artide o dal collasso delle foreste pluviali, a quel punto potremmo arrivare a cinque o persino sei gradi entro la fine del secolo. Al contrario, se i politici metteranno in atto degli sforzi seri e convinti per raggiungere gli obiettivi di Parigi, e se in accordo con tali sforzi gli Stati Uniti torneranno sui propri passi, prima che si chiuda questo secolo saremo ancora nelle condizioni di evitare che la temperatura aumenti di due gradi e di scongiurare completamente che si innalzi fino a tre o più gradi”.
Giornalista, scrittore – fra i suoi libri precedenti ricordiamo almeno Sei gradi. La sconvolgente verità sul riscaldamento globale (Fazi Editore, 2008) – ed esperto del settore, Lynas, avvalendosi dei più recenti studi di climatologia, delinea, grado per grado, le possibili conseguenze del riscaldamento globale e della catastrofe climatica ad esso collegata, nel segno di un coerente realismo che non tracima mai in una disperante rassegnazione. “Fate dei figli, – scrive – amateli, e poi lottate per il loro futuro con tutti voi stessi. Per me i profeti di sventura non sono migliori dei mercanti di dubbi. In ogni caso, addoloratevi pure per ciò che è andato perduto, ma convogliate quella pena emotiva nella determinazione, nella fermezza e in una speranza rinnovata”. Speranza che va, infatti, rinnovata anno dopo anno attraverso misure concrete e appuntamenti tematici ricorrenti, come ad esempio la Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, la cui XXVI edizione, svoltasi a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre 2021 sotto la presidenza del Regno Unito in partenariato con l’Italia, è stata presieduta da Alok Sharma, Segretario di Stato britannico per gli affari economici, l’energia e la strategia industriale. Lynas vi ha partecipato come delegato per il Bangladesh, collaborando anche con l’ex Presidente delle Maldive, Mohamed Nasheed, per il Climate Vulnerable Forum, che riunisce 48 Paesi in via di sviluppo vulnerabili ai cambiamenti climatici (oltre a Bangldesh e Maldive, figurano anche Tanzania, Filippine e tanti altri).
Lynas, lei ha preso parte alla recente Cop26. Come giudica l’esito della conferenza?
Gli esiti della conferenza, come sempre avviene, sono stati alquanto eterogenei. Per certi versi, la si potrebbe considerare un grande successo: prima della Cop26, l’aumento di temperatura previsto in riferimento alle emissioni future di carbonio era valutato in 2,7° C. Successivamente, in seguito ai nuovi accordi e impegni presi durante la conferenza, tale aumento potrebbe essere ridotto a soli 1,8° C, non troppo distante dall’obiettivo fissato a Parigi nel 2015 di rimanere sotto 1,5° C. Il problema, naturalmente, è che si tratta ancora soltanto di impegni scritti sulla carta: dobbiamo ancora stimarne gli effetti nel mondo reale e il loro effettivo impatto sulle emissioni.
Come valuta il contributo delle organizzazioni multilaterali (G20, ONU, Cop26, ecc…) per quanto concerne il miglioramento della situazione ambientale?
Tutte queste organizzazioni multilaterali appaiono estremamente tediose fino al momento in cui non si immagina un mondo senza di loro: allora diventa subito chiaro come, in un tale scenario, regnerebbe soltanto l’anarchia e non sarebbero previsti procedimenti di alcun tipo per affrontare collettivamente i problemi ambientali in un contesto internazionale. L’ONU potrebbe sembrare alquanto burocratica e anche molto lenta, ma questo perché include tutti, è nella natura stessa del processo organizzativo. Siamo però consapevoli del fatto che può anche portare a risultati positivi e concreti: il protocollo sull’ozono ha avuto successo, e anche quello relativo al clima potrà averlo.
Ritiene che gli obiettivi fissati negli Accordi di Parigi siano ora troppo difficili da raggiungere?
È davvero molto improbabile che riusciremo a raggiungere l’obiettivo di Parigi di mantenere le temperature non sopra 1,5° C: ciò richiederebbe una riduzione della metà delle emissioni di carbonio entro i prossimi otto anni, condizione che sembra quasi impossibile poter soddisfare. Tuttavia, c’è poco da guadagnare da una totale rinuncia a percorrere questa direzione, in quanto, anche se non potremo conseguire l’obiettivo di 1,5° C, i benefici derivanti dalla determinazione profusa nel tentare di raggiungerlo sono comunque incommensurabili.
Dalla prima edizione del suo libro, pubblicato nel 2007, la temperatura globale è aumentata di 1° C. Quanto velocemente stima che potrà aumentare ancora?
Quando il mio primo libro, Sei gradi, è stato pubblicato nel 2007, ci mantenevamo ancora sotto un grado al di sopra dei livelli pre-industriali. Nel 2015 abbiamo superato quella linea e siamo entrati a far parte dello scenario da me preso in esame nel primo capitolo del libro. Il mio ultimo lavoro parla di come stiamo vivendo adesso le ripercussioni future di quelle che allora erano solo proiezioni in un modello digitale.
Per quanto riguarda l’impegno dei singoli Paesi, quali, a suo avviso, stanno dimostrando di essere più virtuosi e quali meno?
Alcuni Paesi sembrano determinati a giocare il ruolo di cattivi. Mi riferisco, ad esempio, all’Arabia Saudita e alla Russia; tuttavia, se si guarda più da vicino e con attenzione, anche da loro le cose stanno cambiando. L’Arabia Saudita ha appena dichiarato che investirà 100 miliardi di dollari per le energie rinnovabili e ha anche dichiarato di coltivare il proposito di giungere a zero emissioni. L’obiettivo “emissioni zero” della Cina costituisce il più ambizioso traguardo climatico in assoluto, e le dichiarazioni dell’India di arrivare a ottenere metà della sua energia da fonti rinnovabili entro il 2030 sono state alcuni dei punti salienti della Cop26. Il momento più sconfortante, tuttavia, ha avuto luogo quando l’India e la Cina, unite dalla comune intenzione di annacquare le dichiarazioni sul carbone contenute nel testo finale della conferenza, hanno ottenuto di cambiare l’annuncio di “coal phase out” [eliminazione graduale del carbone, ndr] con “coal phase down” [riduzione graduale del carbone, ndr]: è stato molto avvilente dovervi assistere.
Allo stato attuale, come le appare l’attenzione della politica internazionale su questo tema?
Quasi tutti i Paesi più importanti si stanno impegnando a raggiungere l’obiettivo di zero emissioni. Anche l’Australia. Non è rimasto quasi nessuno che nega la realtà e l’urgenza del cambiamento climatico. Penso che abbiamo superato il punto di svolta e che i combustili fossili scompariranno, ma ciò che serve è accelerare questo processo.
Nel settore privato, quali sono le principali realtà industriali impegnate a ridurre le emissioni?
È chiaro che le compagnie petrolifere e carbonifere dovranno modificare completamente i loro modelli di business; alcune, probabilmente, falliranno e spariranno. Sarà come per l’industria automobilistica, dove Tesla, azienda pioniera nel settore delle auto elettriche, è ora molto più avanti delle vecchie compagnie automobilistiche, che stanno lottando per adattarsi alla nuova realtà.
Quali sono, nel breve e medio termine, le conseguenze principali prodotte dall’aumento di Co2 nell’atmosfera e negli oceani?
Ho trattato in maniera estesa l’argomento nel mio nuovo libro, Il nostro ultimo avvertimento. Sei gradi di emergenza climatica. La conseguenza principale è ovviamente il riscaldamento globale, ma si presenta anche il problema del Co2 che si scioglie negli oceani rendendoli più acidi. Un’ulteriore cattiva notizia riguarda le barriere coralline e molti altri organismi marini: la probabile scomparsa della maggior parte di essi si consumerebbe nel giro di due decenni. Gli scienziati stanno lavorando 24 ore al giorno per elaborare misure d’emergenza al fine di salvarli. Poi c’è il collasso dei principali ghiacciai della Groenlandia e dell’Antartide, l’innalzamento del livello dei mari e l’aumento delle temperature più calde. L’elenco, ovviamente, è ben lontano dall’esaurirsi…
Pensa che in un prossimo futuro assisteremo a significative migrazioni dalle zone costiere a quelle interne?
Non in un prossimo futuro. L’innalzamento del livello del mare è un processo a lungo termine, che si protrarrà per molti decenni e secoli. Anche alla fine di questo secolo, ipotizzo che non vedremo più di un metro di innalzamento del livello del mare, evenienza che sortirebbe certamente effetti rovinosi, ma non costituirebbe una delle principali cause di migrazione, tranne eventualmente dai piccoli Stati insulari. Una maggiore ondata migratoria coinvolgerebbe probabilmente le persone sfollate dalle aree tropicali e subtropicali – interi miliardi entro la fine del secolo – che, se non controlliamo le emissioni diventeranno troppo calde per essere abitate dall’uomo; fra queste regioni, si distingue gran parte del Medio Oriente, l’Asia Minore e Orientale e la Cina Minore.
Il riscaldamento globale colpirà l’intero pianeta allo stesso modo?
Sì, ma alcune aree saranno più resilienti di altre a causa del loro maggiore sviluppo e potenzialità. I Paesi più ricchi potranno permettersi di proteggere più efficacemente i loro cittadini, investendo una maggiore quantità di risorse per far fronte ad eventi estremi: erigeranno dighe foranee e argini, rifugi anti-uragano e altri complessi sistemi di difesa. Nonostante ciò, bisogna tuttavia sottolineare come, in ultima analisi, non esista una difesa risolutiva contro la catastrofe climatica.
A cosa potrebbe portare la conflagrazione della foresta amazzonica?
Sicuramente a una catastrofe di immani proporzioni per la biodiversità e il rilascio di cospicue quantità di carbonio dagli alberi e dal suolo, che andrebbe ad accelerare il disastro climatico. Semplicemente, non possiamo lasciare che questo accada.
Il riscaldamento globale danneggia la produzione alimentare. Aumenterà il numero delle vittime di malnutrizione?
Sì: è probabile che il riscaldamento globale causi un aumento del prezzo dei raccolti e le fasce più povere della popolazione dovranno annoverare percentuali più elevate di malnutrizione. Una congiuntura di tal genere si è già imposta durante la fase più acuta della pandemia di Covid-19, ma conoscerebbe un ulteriore peggioramento con il deterioramento della situazione ambientale. In un’economia alimentare globalizzata come quella odierna, la perdita di raccolto riscontrata in un’area importante inciderà ovunque sui prezzi alimentari: l’umanità è quindi dipendente da un limitato numero di colture di base prodotte in poche aree.
Riscaldamento globale e diffusione di virus: esiste una relazione?
Non trovo un’evidente connessione tra il riscaldamento globale e il Covid. Tuttavia, alcune malattie trasmesse da vettori, come la dengue e la malaria – diffuse dalle zanzare –, potrebbero conoscere un aumento in presenza di temperature più elevate. Abbiamo però a disposizione molteplici strumenti che possiamo impiegare per mitigarne gli effetti, da servizi sanitari più efficienti ai vaccini.
A suo avviso, le calamità climatiche prodotte dal riscaldamento globale potrebbero influenzare l’instabilità politica?
Impossibile prevedere le conseguenze politiche scaturite dal riscaldamento globale. Alcuni studi suggeriscono un aumento dei conflitti, e, di fatto, collegano la guerra civile in Siria alle tensioni sociali dovute alla siccità di lungo periodo. È forse più facile immaginare le conseguenze delle migrazioni su larga scala. La crisi dei profughi innescata dalla guerra civile siriana ha assecondato l’emersione dei movimenti della destra populista. In tale ottica, il riscaldamento globale potrebbe rappresentare anche una minaccia per la democrazia di portata internazionale.
Cosa fare per limitare il riscaldamento globale e ridurre le emissioni di carbonio?
Possiamo contare su un ampio ventaglio di possibilità: energia solare, eolica, idrica e nucleare. Forse un giorno anche la fusione. Nel frattempo dobbiamo eliminare tutti i combustibili fossili entro la metà del secolo. Abbiamo bisogno di auto elettriche e di idrogeno per decarbonizzare l’industria pesante e i trasporti. Sono convinto che la transizione stia avvenendo e sia ormai inarrestabile, ma che non si stia imponendo abbastanza rapidamente.
Cosa si augura per il futuro?
Spero che i miei nipoti possano ereditare almeno un clima stabile.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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Un quadro inclemente, di drammatica attendibilità, che muta senza arresto. “Anche mentre redigevo questo libro – testimonia – ho potuto osservare come l’emergenza climatica continuasse ad aumentare. Quando avevo iniziato a scrivere, l’Australia era ancora un paese normale. Oggi invece, dopo i devastanti roghi del gennaio 2020 seguiti alle temperature eccezionalmente elevate che hanno riarso una nazione già colpita dalla siccità, normale non lo è più. Per settimane, milioni di australiani hanno dovuto vivere sotto una coltre di fumo, mentre 12 milioni di ettari di boscaglia e di terreni agricoli venivano inceneriti da mega incendi catastrofici. Di per sé il bilancio delle vittime, che attualmente registra trentatré morti, risulta già abbastanza tragico. Tuttavia, oltre a esso occorre tenere conto del miliardo di animali selvatici che, secondo le stime, sono periti allo stesso modo. E va inoltre ricordato che per questo paese non potrà più esservi un ritorno alla normalità. La normalità è finita, per sempre”.