Di fatto Iran e Israele sono già in guerra, da tempo, per interposta persona. La speranza è che la risposta israeliana all’attacco di sabato 13 aprile non scateni un conflitto ancora più ampio di quello attuale.
L’attacco iraniano contro Israele di sabato 13, pone più di un interrogativo e invita a diverse riflessioni. Soprattutto dopo la risposta di venerdì 19 sulla quale i dubbi sono ancora molti.
Le autorità israeliane non si sono espresse, da Teheran minimizzano e parlano di tre droni partiti dall’interno del territorio iraniano, da infiltrati, nessun velivolo arrivato dall’esterno. Danni irrisori, vita normale a Isfahan, dove si trova una base dell’aviazione oggetto dell’attacco dei droni e delle fabbriche militari oltre a un centro legato al programma nucleare iraniano. Ora si attende di sapere che faranno da Gerusalemme e da Teheran.
Se quella che dovrebbe essere la risposta israeliana all’attacco di sabato con oltre 350 missili e droni verso Israele è stata una azione dimostrativa, quello di sabato è stato un atto imponente in termini numerici e di qualità, non una semplice azione dimostrativa. Derubricarlo, non rende giustizia né alla pericolosità dello stesso, né alle capacità difensive del paese ebraico. L’utilizzo di missili ipersonici, intercettati da uno dei due sistemi di difesa aerea israeliani, dimostra proprio l’intenzione di Teheran di infliggere un colpo. Il fatto che l’attacco sia stato ampiamente annunciato, anche se non nei tempi e nei modi, non lo derubrica certamente, dal momento che è una sorta di prassi consolidata.
L’eccezionalità dell’atto sta però nel suo obiettivo: Israele direttamente. Quando il 3 gennaio del 2020 fu ucciso nel raid di un drone a Baghdad il generale iraniano a capo delle Forze Quds delle Guardie Rivoluzionarie, Qasem Soleimani, gli iraniani accusarono Israele dell’accaduto per poi virare sugli Usa. Contro i quali, cinque giorni dopo, lanciarono una offensiva verso una loro base militare in Iraq. Quella sì, telefonata (erano state informate le autorità irachene che avvisarono quelle americane) e dimostrativa, che infatti fece qualche danno risolvibile con una passata di pittura (in verità ci furono anche decine di militari e personale ferito, seppur in maniera non grave).
Lo scorso gennaio, alla commemorazione dell’anniversario della morte dello stesso generale, un attentato fece oltre cento vittime. Anche in quel caso le autorità iraniane accusarono Israele, per poi scoprire si è trattato di un attentato dell’Isis-k e si accanirono contro alcuni di loro.
A differenza però della risposta al raid che ha ucciso Soleimani, l’Iran ha attaccato direttamente Israele. E’ difficile dire se avesse puntato contro le basi militari soltanto, anche perché i missili sono stati intercettati sul territorio israeliano, mentre droni e altri razzi ancora prima che entrassero nello spazio israeliano grazie alla collaborazione di Giordania, Stati Uniti, Regno Unito e forse Francia.
Certamente, l’Iran avrebbe potuto fare di più. Nel suo arsenale c’è anche altro, forse anche qualche arma atomica, dal momento che l’Aiea non ha potuto visitare le centrali da tempo e indiscrezioni danno Teheran ad un passo dalla bomba. Qualche analista ritiene che l’attacco iraniano sia servito al regime degli Ayatollah per testare le proprie capacità belliche e quelle difensive israeliane, in previsione di qualcosa di diverso nel futuro. Sta di fatto che Iran e Israele sono già in guerra, da tempo, per interposta persona.
Contro il paese ebraico, infatti, ci sono stati e ci sono attacchi da Gaza di Hamas e Jihad Islamico, dal Libano e Siria ad opera di Hezbollah, dall’Iraq di Kataib Hezbollah, dallo Yemen da parte di Houthi. Tutti proxy iraniani, che da questi prendono finanziamenti, armi e addestramento.
Restano ancora dubbi sull’atto che ha portato all’attacco iraniano. Il primo aprile, un raid ha colpito un appartamento di Damasco nel quale erano riunite guardie rivoluzionarie iraniane. Tra queste, graduati importanti, come il comandante delle forze Quds di Libano e Siria, Mohammad Reza Zahedi. L’uomo era considerato una delle menti che ha aiutato Hamas a realizzare il massacro del sette ottobre.
Il primo dubbio è relativo a chi abbia portato l’attacco. Israele, anche in tempi recenti (vedi a gennaio il raid a Beirut contro il numero due di Hamas Saleh al-Arouri o quelli recenti ad Aleppo), ha sempre rivendicato gli attacchi. Cosa che non ha fatto con quello di Damasco. Il secondo dubbio, è relativo al luogo. La palazzina oggetto del raid era di fianco all’ambasciata iraniana a Damasco. Ospitava diversi appartamenti per civili abitazioni, infatti nel raid sono morti due membri di una famiglia che vi risiedeva. Un appartamento era stato affittato dalle Guardie rivoluzionarie. L’Iran ha dichiarato che si trattasse di una sede diplomatica, infatti ha invocato l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, riguardo alla legittima difesa del suolo, dal momento che , se sede diplomatica, è anche territorio iraniano.
Fino ad oggi il Consiglio di sicurezza dell’Onu, che pure ha condannato l’atto, non ha agito contro Israele e non lo ha neanche citato. Non solo perché non è ancora chiaro chi sia stato, ma anche perché c’è il problema della riconoscibilità della sede diplomatica. La convenzione di Vienna che regola i rapporti consolari, all’articolo 55 specifica infatti, al comma 2, che “Le stanze consolari non saranno adoperate in maniera incompatibile con l’esercizio delle funzioni consolari”. Il successivo comma, spiega che gli uffici di strutture esterne ai consolati, pur ospitati all’interno di strutture consolari, non sono ad esse riconducibili.
Bisogna quindi considerare che le attività delle Guardie rivoluzionarie non sono certamente il rilascio dei visti o la gestione dei residenti all’estero. Inoltre le stesse sono considerate gruppo terrorista dagli Stati Uniti e l’implicazione di Zahedi nei fatti preparatori al sette ottobre è stata acclarata.
L’unica strada, pertanto, oltre a quella diplomatica per invitare le parti a ridurre la tensione, resta quella delle sanzioni, che l’Unione europea ha già applicato e che il G7 si appresta a fare. Con la speranza che la risposta israeliana all’attacco di sabato non scateni un conflitto ancora più ampio di quello attuale.
L’attacco iraniano contro Israele di sabato 13, pone più di un interrogativo e invita a diverse riflessioni. Soprattutto dopo la risposta di venerdì 19 sulla quale i dubbi sono ancora molti.
Le autorità israeliane non si sono espresse, da Teheran minimizzano e parlano di tre droni partiti dall’interno del territorio iraniano, da infiltrati, nessun velivolo arrivato dall’esterno. Danni irrisori, vita normale a Isfahan, dove si trova una base dell’aviazione oggetto dell’attacco dei droni e delle fabbriche militari oltre a un centro legato al programma nucleare iraniano. Ora si attende di sapere che faranno da Gerusalemme e da Teheran.