Violente rivolte in queste isole nel Pacifico meridionale da mercoledì scorso. Si protesta contro la politica interna ma anche contro le scelte di politica estera
Manasseh Sogavare, il Primo Ministro delle Isole Salomone (uno stato insulare nell’Oceano Pacifico meridionale, vicino alla Papua Nuova Guinea), ha accusato non meglio definite “potenze straniere” di aver fomentato le rivolte iniziate mercoledì scorso. Sono rivolte estremamente violente: i manifestanti hanno attaccato il Parlamento, dato fuoco a diversi edifici, colpito la casa del Primo Ministro (di cui si chiedono le dimissioni) e preso di mira la Chinatown della capitale Honiara, dove si concentra la comunità cinese. È, quest’ultimo, un particolare estremamente rilevante per comprendere le motivazioni alla base delle proteste, che non hanno a che vedere soltanto con la politica interna ma – fatto inusuale – con le scelte in politica estera del Governo.
Nel 2019, infatti, Sogavare decise di interrompere i rapporti ufficiali con Taiwan per riconoscere invece la Cina, che non considera Taipei un Paese a sé stante ma una provincia del suo territorio da riprendersi. La mossa delle Isole Salomone è ancora più significativa se inserita nel suo contesto: dal 2016 in particolare, con l’elezione della Presidente Tsai Ing-wen, Pechino ha portato avanti una campagna per privare Taiwan di alleati diplomatici (oggi sempre meno) e isolarla ancora di più sul piano internazionale. Poco dopo le Isole Salomone, un’altra piccola nazione oceanica, Kiribati, decise di fare lo stesso.
La frattura interna
Un secondo aspetto molto interessante delle proteste, oltre alle ragioni generali, è la provenienza geografica della maggior parte dei manifestanti: sono arrivati sull’isola di Guadalcanal (la principale tra quelle che comprendono l’arcipelago delle Salomone, e in cui si trova la capitale Honiara) da quella di Malaita (la più popolosa). Tra Guadalcanal e Malaita i rapporti non sono buoni: una serie di scontri tra il 1998 e il 2003 causarono circa duecento morti. Alla fine l’ordine fu ristabilito grazie anche all’intervento dell’Australia. Giovedì scorso il Governo di Canberra ha deciso di inviare nelle Salomone – su richiesta del Primo Ministro – un centinaio di forze di sicurezza tra soldati e poliziotti per placare le proteste.
I contrasti tra le due isole hanno a che vedere con l’allocazione delle risorse economiche ma, anche in questo caso, si sono alimentati con le divergenze in politica estera. Mentre infatti Sogavare decideva di tagliare i rapporti con Taipei (definiti “completamente inutili”) per allacciarne con Pechino (socio commerciale ben più rilevante), gli abitanti di Malaita scesero in strada gridando: “Non ci serve la Cina”. Il governatore di Malaita, Daniel Suidani, prese allora l’impegno – in evidente rottura con il Governo centrale – di non ricercare mai contatti con Pechino, addirittura revocando le licenze commerciali agli imprenditori di etnia cinese. Suidani accusò Sogavare di essere stato corrotto, definì il coronavirus Wuhan virus e criticò Cina per la sua “ambizione di dominare il mondo”.
Come spiegava il Washington Post, l’ostilità di Malaita nei confronti della Repubblica popolare si spiega con l’avversione al comunismo, con il timore che Pechino voglia contrastare i cristiani (è la religione nettamente dominante nelle Salomone) e con la storica lealtà a Taiwan.
Il quotidiano statunitense mette in evidenza un elemento interessante. Oltre a Malaita, Taipei ha un amico anche nel Somaliland, uno stato resosi di fatto indipendente dalla Somalia ma non riconosciuto dalla comunità internazionale. Il distacco politico di Malaita dalle Isole Salomone è improbabile, precisa il Washington Post, ma dimostra comunque la tendenza di Taiwan a “corteggiare” quei territori con “aspirazioni indipendentiste” per ottenere riconoscimenti diplomatici. A questo proposito, a marzo dell’anno scorso si era tenuto in Australia un incontro segreto tra rappresentanti di Taiwan e dell’amministrazione di Malaita – non approvato dal Governo centrale di Sogavare – sull’offerta di aiuti sanitari per contrastare l’epidemia di Covid-19.
Violente rivolte in queste isole nel Pacifico meridionale da mercoledì scorso. Si protesta contro la politica interna ma anche contro le scelte di politica estera