Il Kenya invierà 1500 lavoratori agricoli in Israele, per rimpiazzare la forza lavoro richiamata alle armi o fuggita dal Paese dopo l’inizio degli scontri. L’accordo è stato annunciato dal ministro del lavoro keniano. Un patto simile è stato siglato tra Israele e il Malawi a novembre.
Da inizio ottobre, Israele è impegnato in una guerra che vede il Paese opposto ad Hamas. Ma oltre ad avere un impatto tragico dal punto di vista umanitario, il conflitto sta avendo conseguenze significative anche per l’intero settore agricolo dello stato. Al momento mancano infatti decine di migliaia di lavoratori: il ministro dell’Agricoltura ha detto alla CNN che sarebbero necessarie tra le 30 e le 40mila persone.
La scarsità di forza lavoro è dovuta ad una serie di ragioni, tutte legate alla guerra. In primo luogo, lo scoppio delle ostilità ha portato al richiamo di centinaia di migliaia di riservisti, una parte dei quali lavorano normalmente come agricoltori. Inoltre, l’escalation della violenza anche al di fuori della Striscia di Gaza ha spinto una quota significativa dei lavoratori stranieri a fuggire da Israele.
Ad andarsene sono stati soprattutto i migranti provenienti dalla Thailandia, dopo che 32 loro connazionali sono stati presi in ostaggio da Hamas il 7 ottobre, nel corso del primo attacco. Infine, a mancare sono anche i manovali palestinesi che lavorano in Israele ma vivono nella Striscia o in Cisgiordania: da due mesi, questi non sono più autorizzati ad attraversare il confine.
Il governo israeliano ha quindi deciso di agire cercando di attirare migranti economici dall’estero, che vadano a ricoprire almeno temporaneamente il buco lasciato dagli altri lavoratori. Verso la fine del mese scorso è stato quindi annunciato un accordo con il Malawi, che dovrebbe portare nei prossimi mesi 5mila cittadini africani in Israele e che ha già visto 221 di loro arrivare nel Paese.
Ora è invece il turno del Kenya: per adesso da questo secondo stato non è ancora partito nessuno, ma il governo guidato da William Ruto ha salutato con favore la firma di un accordo con Netanyahu.
E le mosse israeliane non sembrano fermarsi qui. L’esecutivo ha sottolineato l’intenzione di puntare sull’Africa orientale ed è al lavoro per trovare un ampio accordo con la Tanzania, mentre l’Uganda potrebbe rappresentare il candidato successivo.
Sia in Malawi che in Kenya, l’accordo con Israele è stato criticato duramente dall’opposizione. Nel primo Paese, il governo è stato accusato soprattutto di non tenere in considerazione la sicurezza dei propri cittadini, inviandoli in una zona di guerra e quindi accettando di mettere in pericolo la loro vita.
In Kenya, invece, il leader dell’opposizione Raila Odinga ha evidenziato come il piano sia svilente per lo stato africano e mostri i fallimenti dell’esecutivo nella gestione dell’economia. “Una volta, i keniani erano così fieri del loro Paese e così fiduciosi in esso che rifiutavano di cercare lavoro all’estero, anche alle Nazioni Unite. Oggi cercano in ogni modo di lasciare lo stato”.
Se i lavoratori africani si recano in Israele, infatti, questo succede unicamente per ragioni economiche. Sia in Kenya che in Malawi gli stipendi nell’agricoltura sono bassi, a fronte di un costo della vita crescente. Alcuni anni di lavoro in Israele, per quanto rischiosi, rappresentano un’opportunità a cui è difficile rinunciare e un vero e proprio investimento. Secondo gli accordi, ogni agricoltore dovrebbe infatti guadagnare circa 1500 dollari al mese per tre anni, avendo perciò la possibilità di racimolare una somma di denaro enorme rispetto agli standard dei due stati africani.
Per questo motivo, i governi locali non sembrano essere toccati dalle critiche ed anzi guardano ai benefici che il piano avrà sul lungo periodo, anche per quanto riguarda i rapporti diplomatici con Israele. Infine, sottolineano, gli accordi sembrano essere approvati dalla popolazione: i cittadini interessati sarebbero molti di più di quelli che potranno effettivamente emigrare.
La scarsità di forza lavoro è dovuta ad una serie di ragioni, tutte legate alla guerra. In primo luogo, lo scoppio delle ostilità ha portato al richiamo di centinaia di migliaia di riservisti, una parte dei quali lavorano normalmente come agricoltori. Inoltre, l’escalation della violenza anche al di fuori della Striscia di Gaza ha spinto una quota significativa dei lavoratori stranieri a fuggire da Israele.