Gli effetti politici della stretta bipolare sono già evidenti: sia il centrodestra che il centrosinistra hanno infatti immediatamente cominciato a riorganizzarsi
Le ultime elezioni amministrative segnalano un solo sconfitto evidente: il Movimento 5 Stelle. Un partito annullato. Fenomeno che se sarà confermato anche alle prossime elezioni politiche – e non c’è nulla che ne faccia al momento dubitare – riporta evidentemente l’Italia alla fisiologia del suo passato bipolare: coalizione di centrodestra contro coalizione di centrosinistra. Terzo non dato. La scomparsa dei grillini sta già spingendo il Pd verso orizzonti di “nuovo Ulivo” e di riflesso costringerà i due maggiori leader del centrodestra, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, a una migliore e più leale collaborazione tra loro. Pena: la sconfitta.
“Complimenti ai sindaci di Ginosa, Noicattaro e Pinerolo, che vengono confermati alla guida delle loro città”, dichiarava il 18 ottobre, dopo i ballottaggi, e senza alcuna ironia volontaria, Laura Castelli, viceministro grillino dell’Economia. Dunque Ginosa, Noicattaro e Pinerolo. Gli unici comuni in Italia in cui i 5 stelle hanno vinto oltre che a Grottagliea, in provincia di Taranto, l’unica vittoria al primo turno. Insomma il partito che governava Torino e Roma, il Movimento vaffanculista che ancora detiene la maggioranza relativa in Parlamento, ha raccolto al primo turno 247.381 voti. Meno di un terzo rispetto ai voti ottenuti alla precedente tornata amministrativa del 2016. A Napoli e Bologna, due città in cui la vittoria di Gaetano Manfredi e Matteo Lepore è stata molto celebrata dalla dirigenza del M5S, il movimento grillino ha raccolto rispettivamente il 9,73 e il 3,37%. In pratica Manfredi e Lepore sarebbero stati eletti anche senza l’appoggio del M5S. Ininfluenti. A Milano i 5 Stelle semplicemente non esistono: 2,7%. Zero consiglieri comunali eletti. E le percentuali non si discostano molto nemmeno nel resto d’Italia. A Salerno i grillini valgono il 4,4%, a Isernia il 3,76%, a Savona il 6,44%, a Grosseto il 5,22%…
E si potrebbe continuare a lungo. Ma sarebbe noioso e ripetitivo dell’unica notizia. Ovvero che si è conclusa la commedia umana dell’assalto al cielo da parte delle tabule rase e delle zucche, quella stagione bislacca iniziata nel 2013 in cui una classe politica selezionata con criteri sempliciotti da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio s’era impadronita del potere, della Rai e dell’Inps, delle aziende di stato e del governo, per instaurare una specie di regime di analfabeti cronici. La loro scomparsa tuttavia è destinata e determinare delle novità ancora prima che venga conclamata dalle elezioni politiche. Sia il centrodestra sia il centrosinistra hanno infatti immediatamente cominciato a riorganizzarsi.
Il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, ha parlato di risultati “trionfali”. E ne ha qualche motivo, anche se la lunga storia del centrosinistra è ricca di galvanizzanti vittorie amministrative, capaci di generare nei dirigenti e nei militanti i più sfrenati sogni di gloria seguiti dai più amari risvegli. Tuttavia queste elezioni sembrano rappresentare per il segretario del Pd l’occasione di cementare la nuova-vecchia coalizione che Letta sembra inseguire da tempo, con tanti saluti alla legge proporzionale, primo di quei “correttivi” che il Pd aveva promesso in cambio del suo appoggio al taglio dei parlamentari. Maggioritario, dunque, e nuovo Ulivo, questo è l’obiettivo di Letta, una cosa che vada da Fratoianni a Calenda passando per Conte. La priorità del segretario, ad allungare lo sguardo fino al 2023, è quella di assicurarsi un sistema di gioco che imponga a tutti di formalizzare le alleanze prima del voto, in un regime di bipolarismo di fatto. Ormai conclamato anche dalle intenzioni degli elettori. Si potrà convincere il centrodestra? Forse sì. Chissà.
Ma non meno difficoltoso sarà per Letta il problema di come mettere invece insieme un centrosinistra così diverso, come tenere uniti Matteo Renzi e quel che resta dei grillini. Compreso Calenda, che Letta cita continuamente e con insistenza tra le componenti del campo di centrosinistra da ricostruire. Letta ha già fatto partire queste manovre da tempo, come se aspettasse soltanto da queste elezioni amministrative la conferma di un fatto di cui lui era già sicuro: il bipolarismo è tornato. E così, allora, se da un lato agitare i temi identitari della sinistra in questi ultimi mesi è servito a stanare il M5s, l’apertura ad Azione di Calenda e Italia viva di Renzi dovrà portare, nell’ottica del segretario dem, a evitare il rischio di un centro basculante che possa agire da ago della bilancia. Impresa non semplicissima, quest’ultima. Perché se la durissima sconfitta del M5S annulla qualsiasi velleità autonomista di ciò che resta dei grillini (e insomma rende Conte pressoché un ascaro nelle mani del Pd), per Renzi e soprattutto per Carlo Calenda il discorso è diverso. Calenda, in particolare, potrebbe non aver alcun interesse ad aiutare Letta nella costruzione di una coalizione di partiti, in un cartello elettorale, in cui lui sarebbe un partner più che minoritario. Preferirebbe, è del tutto evidente, una situazione alla “proporzionale”: alleanza sì, ma dopo il voto. La fortuna di Letta è che Calenda praticamente non ha parlamentari. E quindi, da questo punto di vista, l’interlocutore del segretario Pd sarà il solo Matteo Renzi.
La stretta bipolare sta già avendo effetti anche a destra. Giorgia Meloni e Matteo Salvini sono stati riportati con i piedi per terra da queste elezioni. Non hanno vinto. Ma nemmeno hanno in realtà perso: i voti del centrodestra sono tantissimi, ma il centrodestra sembra essere stato incapace di presentare dei candidati sindaci che fossero all’altezza delle aspettative. L’errore nella scelta delle candidature è facilmente imputabile alla lunga e defatigante guerra che Meloni e Salvini si sono fatti tra loro. Concorrenti, spesso, in forme di estremismo. E concorrenti al punto da lavorare per danneggiarsi l’un l’altra. La mezza sconfitta li riporta ora inevitabilmente a riprendere il filo di una logica di coalizione all’interno della quale, come succede in tutte le alleanze, esiste la consapevolezza del fatto che la buona salute dell’uno condiziona la buona salute dell’altro.
La sconfitta inoltre li dovrebbe portare a ragionare di più sulla propria immagine e sulla selezione dei gruppi dirigenti, a riprova di dati che sono molto significativi in città come Roma e Milano nelle quali il candidato sindaco presentato dal centrodestra ha preso meno voti delle liste che lo sostenevano. Storicamente le elezioni amministrative hanno fatto più spesso sorridere la destra che la sinistra, e queste non fanno differenza dalle altre. È anzi spesso capitato, come nel 1993, che delle amministrative andate benissimo per la sinistra coincidessero poi (1994) con delle politiche in cui il centrodestra ha trionfato nettamente. Di questo i leader della destra devono essere consapevoli: le elezioni politiche si possono anche vincere, ma per governare serve una coalizione che non sia un mero cartello elettorale. Ci riusciranno? Intorno a questa domanda si gioca, da qui a un anno, il destino di Salvini e Meloni.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
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“Complimenti ai sindaci di Ginosa, Noicattaro e Pinerolo, che vengono confermati alla guida delle loro città”, dichiarava il 18 ottobre, dopo i ballottaggi, e senza alcuna ironia volontaria, Laura Castelli, viceministro grillino dell’Economia. Dunque Ginosa, Noicattaro e Pinerolo. Gli unici comuni in Italia in cui i 5 stelle hanno vinto oltre che a Grottagliea, in provincia di Taranto, l’unica vittoria al primo turno. Insomma il partito che governava Torino e Roma, il Movimento vaffanculista che ancora detiene la maggioranza relativa in Parlamento, ha raccolto al primo turno 247.381 voti. Meno di un terzo rispetto ai voti ottenuti alla precedente tornata amministrativa del 2016. A Napoli e Bologna, due città in cui la vittoria di Gaetano Manfredi e Matteo Lepore è stata molto celebrata dalla dirigenza del M5S, il movimento grillino ha raccolto rispettivamente il 9,73 e il 3,37%. In pratica Manfredi e Lepore sarebbero stati eletti anche senza l’appoggio del M5S. Ininfluenti. A Milano i 5 Stelle semplicemente non esistono: 2,7%. Zero consiglieri comunali eletti. E le percentuali non si discostano molto nemmeno nel resto d’Italia. A Salerno i grillini valgono il 4,4%, a Isernia il 3,76%, a Savona il 6,44%, a Grosseto il 5,22%…