Il sistema educativo inglese produce ambiziosi leader da combattimento ma non politici capaci di gestire incertezze e compromessi. Dopo l’università, restano ex rivali del campus
La classe dirigente britannica una volta governava il mondo, ora fa fatica a governare il Regno Unito. I partiti politici sono spaccati, il popolo è diviso, le istituzioni sono in conflitto e la frattura tra Inghilterra, Scozia e Irlanda del Nord continua ad allargarsi. Peggio ancora, il Governo britannico è stato ancora una volta incapace di negoziare in Parlamento una maggioranza per uscire dall’Unione Europea o di produrre un piano convincente per uscire senza un accordo.
Il problema sarebbe comprensibile se la Gran Bretagna fosse stata improvvisamente sopraffatta da una nuova classe politica senza esperienza di Governo o di Europa. Invece, i personaggi chiave della politica britannica sono tutti stati educati a Eton e Oxford, hanno fatto della politica la loro vita, hanno relazioni che si estendono su tutto il continente (e anche oltre oceano). Se stanno facendo un disastro della politica britannica, sia in casa che estera, non è per mancanza di preparazione.
La crisi della classe dirigente britannica si deve a una serie di fattori, nessuno dei quali è presente solo in Gran Bretagna. La socializzazione elitaria ha sviluppato nei politici inglesi una forma di competizione molto lontana dalle aspirazioni e abitudini del resto del Paese. L’élite politica ha interessi economici e una vita culturale globali più che locali, nonostante le dichiarazioni di lealtà alla nazione. Infine e molto importante, il sistema elettorale britannico incentiva i politici a disinteressarsi della nazione nel suo complesso e a concentrarsi nel mobilitare un ristretto gruppo di sostenitori sui quali contare per vincere le elezioni.
La socializzazione delle élite si forma all’Università di Oxford e, se l’opinionista del Financial Times Simon Kuper vede giusto, più precisamente all’Oxford Union, l’arena dei dibattiti studenteschi. L’Università di Oxford è forse l’istituto di educazione più avanzato del mondo. Essere ammessi è un’impresa. Oxford condivide con Cambridge una tradizione pedagogica piuttosto unica, basata su incontri individuali settimanali durante i quali gli studenti espongono ai docenti le proprie tesi scritte. I professori danno riscontri immediati e continui sia sulla qualità della scrittura che sulla capacità di presentazione orale degli studenti. Questo sistema costringe gli studenti a sviluppare la capacità di pensare rapidamente e a esprimersi in modo conciso e persuasivo. Sviluppa inoltre l’autostima. Gli studenti che frequentano Oxford non sono intimiditi dall’autorità intellettuale, si allenano a sostenere le proprie opinioni sotto l’esame dei professori che difendono spesso tesi opposte alle loro.
Il sistema di tutorial oxfordiano offre agli studenti l’opportunità di interagire individualmente con i docenti ma lascia anche loro grande libertà per il resto della settimana. Gli studenti vengono incoraggiati a seguire le lezioni e a prendere parte a tutta una serie di attività extra, molte delle quali possono gestire in proprio. La Oxford Union è una delle più importanti tra queste. Questo è il luogo dove gli studenti dibattono temi di attualità sia tra di loro che con politici, intellettuali e celebrità esterne all’università. È dunque il luogo dove viene corroborata la forte autostima costruita dal sistema educativo di Oxford. Non sorprende perciò che essere membro della Oxford Union è un campo di addestramento ideale per la futura leadership della nazione britannica. Come Kuper ha sottolineato, molte delle principali figure dell’attuale Governo britannico hanno iniziato la propria carriera politica come membri della Oxford Union.
Questa palestra di autostima è una preparazione eccellente per la futura arena politica, ma non molto utile a saper gestire la sfera del dubbio. Quanto più le élite politiche britanniche si battono in difesa delle proprie convinzioni personali, tanto meno sono capaci di ammettere dubbi e compromessi. Margaret Thatcher l’ha definita “la politica della convinzione”. E questa pratica di successo tende a espandersi ben oltre le élite educate a Oxford ma anche a tutto il resto della classe dirigente britannica. Per questo i “figli di Thatcher”, prendendo in prestito una frase del giornalista britannico Simon Jenkins, si ritrovano in tutto l’arco costituzionale.
Si sa che, nel mondo reale, le convinzioni vengono scalfite dalle loro possibili conseguenze. Ma quando i politici perseguono le proprie ambizioni senza dubbi o compromessi, devono poi rispondere del costo sociale, economico e politico delle loro azioni. Qui torna utile osservare la vita economica e culturale delle élite britanniche e gli incentivi creati dalle istituzioni elettorali.
Due fattori connotano la vita economica e culturale delle élite: la concentrazione delle loro attività a Londra e nel sud-est del Paese e la predominanza dell’industria dei servizi finanziari e dei mercati di capitali globali. La vita a Londra e dintorni, dove le élite britanniche tendono a confluire, è molto diversa da quella del sud-ovest agricolo o del nord industriale del Paese. È più cosmopolita, più multiculturale e più mobile. Essendo incentrata sulla finanza, inoltre, anche il ciclo e il ritmo economico sono altri rispetto al resto del Paese. Queste differenze sono state molto evidenti nel referendum sull’appartenenza all’Unione Europea, dove i londinesi hanno votato a stragrande maggioranza per rimanere, mentre gli altri hanno votato contro.
Si potrebbe pensare che le élite britanniche in virtù della loro educazione cosmopolita e dei loro interessi economici globali abbiano votato compatte per rimanere membri Ue. Sarebbe superficiale però. Non va dimenticato il loro gusto di essere bastian contrario. È risaputo che Boris Johnson preparò due editoriali per annunciare la propria campagna sul referendum: uno a favore e l’altro contrario. Alla fine valutò che capeggiare l’opposizione al Remain gli sarebbe convenuto in termini di visibilità politica e gli avrebbe offerto maggiori opportunità. Quando i suoi sostenitori vinsero davvero il referendum, Johnson fu visibilmente spiazzato dalle conseguenze.
Lo sconcerto di Johnson fu di breve durata. Ben radicate nell’economia e nella cultura di Londra e dintorni, le élite britanniche non temono certo le conseguenze delle proprie azioni. Il loro stile di vita cosmopolita continuerà invariato sia se il Regno Unito rimane un membro dell’Unione Europea sia nel caso contrario, non saranno comunque loro a sopportare i costi più alti dell’uscita, quanto coloro che sono già isolati dai mercati globali. La maggior parte dei modelli economici indica che il costo dell’uscita del Regno Unito ricadrà in modo sproporzionato sulle regioni del sud-ovest e del nord; Londra e il sud-est soffriranno anch’esse, ma i membri più ricchi di questa comunità – vale a dire la maggior parte della classe dirigente – saranno i meno colpiti.
Gli unici veri freni alle élite britanniche sono politici: le elezioni e le politiche di partito. Qui entrano in gioco due importanti fattori. Uno è il sistema elettorale maggioritario secco, attraverso una pluralità di voti i partiti si assicurano i distretti elettorali a seggio unico. Questo fattore tende a polarizzare il dibattito e quindi a valorizzare i vantaggi dell’autostima. La maggior parte dei Governi britannici poggia su maggioranze assolute e non su coalizioni. Questa tendenza maggioritaria spiega perché Margaret Thatcher poteva facilmente considerare il compromesso una bestemmia. La politica britannica non è sempre stata così polarizzata, ma una volta che queste divisioni hanno preso piede, sono difficili da scalzare.
L’altro fattore politico dipende dal modo asimmetrico nel quale la politica britannica è decentralizzata. Dal 1997, la Scozia ha un proprio Parlamento mentre il Galles e l’Irlanda del Nord hanno assemblee. Inoltre, i rappresentati di queste istituzioni si presentano alle elezioni in distretti a seggio multiplo e con sistemi elettorali proporzionali. I politici scozzesi, gallesi e nord irlandesi, a differenza di quelli inglesi, devono praticare compromessi affinché i loro Governi sub-nazionali possano operare. L’attuale sospensione dell’Assemblea di Stormont in Irlanda del Nord dimostra cosa succede quanto prevale la cocciutaggine. Inoltre, i politici delle comunità decentrate del Regno devono anche dar prova di avere legami con le comunità locali e con i loro interessi economici. Quindi, quello che ha successo a Westminster, ovvero a livello nazionale, non funziona a Holyrood (Scozia), Senedd (Galles), o Stormont.
Le classi politiche nelle comunità decentrate sono categorie a parte: le élite politiche ‘nazionali’ o britanniche sono in prevalenza inglesi. E la loro spiccata ‘Englishness’ restringe il loro interesse a quei distretti elettorali dove concorrono i partiti politici nazionali e rende loro facile ignorare le problematiche delle regioni decentrate. Il Governo conservatore eletto nel maggio 2017 è stato un’eccezione in quanto si è assicurato la maggioranza operativa solo grazie all’alleanza con il Partito degli Unionisti Democratici (Dup) dell’Irlanda del Nord. Se il Paese affrontasse nuove elezioni, è però facile prevedere che la leadership del partito conservatore abbandonerebbe il Dup – così come ha fatto Boris Johnson all’ultimo minuto con il suo accordo per lasciare l’Unione Europea. Senza il Dup, questo accordo ha poca probabilità di successo. Ma per Johnson, è più importante come si posiziona il Partito Conservatore alle prossime elezioni, previste da molti a breve.
Dopo oltre due anni e mezzo dall’inizio dei negoziati, è inevitabile domandarsi perché la classe dirigente britannica si sia rivelata tanto incapace di mantenere le promesse fatte all’elettorato. “Forse, Brexit vuol dire Brexit”, come l’ex Primo Ministro Theresa May dichiarò, ma nel frattempo il Regno Unito rimane nel limbo. La risposta è che le promesse legate alla Brexit sono state fatte con l’obiettivo di vincere il dibattito, senza mettere a fuoco le conseguenze. Le élite britanniche hanno potuto farlo perché abituate da sempre a questo tipo di dibattiti contro le autorità e le opposizioni, e armate di un’autostima inscalfibile, e perché vivono in un isolamento sociale ed economico.
Forse hanno imboccato questo sentiero perché il loro obiettivo primario è vincere le prossime elezioni nei distretti elettorali inglesi e perché hanno un’affinità e un coinvolgimento limitato con le élite politiche del resto del Paese. Questo tipo di isolamento non appartiene solo alle élite politiche britanniche. In molti altri Paesi le élite sono ugualmente auto-referenziali. La differenza del caso britannico è effetto delle epocali (e inaspettate) conseguenze del dibattito sulla Brexit.
Se le élite britanniche non trovano il modo di lasciare l’Unione Europea senza provocare disastri alle classi decentrate e disagiate, subiranno il contraccolpo dalla politica nelle altre parti del Paese. Questa minaccia è molto evidente in quelle regioni decentrate, dove la classe politica esiste e le istituzioni funzionano (almeno in parte). L’élite nazionale britannica, in prevalenza inglese, potrebbe scontrarsi con l’élite nazionale scozzese o nord irlandese che non sono e non vogliono essere governate ‘all’inglese’. Ciò forse non cambierà la classe dirigente inglese, ma cambierà la Gran Bretagna e il significato di essere britannici.
@Erik_Jones_SAIS
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
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Il sistema educativo inglese produce ambiziosi leader da combattimento ma non politici capaci di gestire incertezze e compromessi. Dopo l’università, restano ex rivali del campus