“E’ una guerra”, ripeteva mentre eravamo seduti in terrazza fumando una sigaretta dietro l’altra. “E’ una guerra e combatteremo per vincerla. Non importa quante persone moriranno”.

Era caldo per strada, mentre in cima al palazzo di Mahmoud Bassiouny tirava un venticello piacevole.
Sembrava che agosto si fosse dilatato nel tempo fino a inghiottire settembre e che quell’aria torrida non dovesse avere più fine.
Erano passate poche settimane dalla caduta di Mohammed Morsi e per le strade si respirava l’atmosfera di chi, nonostante la calura torbida del Cairo, ha le idee chiare.
Nei giorni delle manifestazioni la gente si muoveva decisa, come se ognuno sapesse esattamente dove stesse andando. “In piazza. Tra poco vado in piazza con gli altri, sono già tutti lì. Andiamo a Tahrir. Ci sono ancora i militari. Andiamo da loro”, diceva.
Il “salvatore” al Sisi faceva capolino da ogni locandina, su ogni muro, ovunque. Occhiali scuri e bancroft, con i galloni messi bene in mostra. L’espressione imperscrutabile di colui che sa di averla data a bere a tutti. Ai Fratelli Musulmani all’inizio, quando lo scelsero per sostituire il generale Tantawi alla guida delle forze armate. Ai rivoluzionari, poi, quando gli promise, mentendo, che li avrebbe coinvolti nel processo di restaurazione della “stabilità nazionale” e delle riforme da intraprendere nel dopo-Morsi.
Sono passati circa nove mesi e al Sisi ha annunciato di essere pronto a candidarsi alle prossime elezioni presidenziali. Una battaglia vinta in partenza, senza avversari.
Solo l’1% ha dichiarato recentemente di essere fermamente convinto di voler votare per “l’avversario immaginario” di al Sisi, Hamdeen Sabahi, capo della Corrente Popolare. Faccia sorniona dell’intellettuale di sinistra sconosciuto all’elettore medio, Sabahi è destinato alla polvere della sconfitta.
Il plebiscito per il generale è scontato prima ancora che si vada a votare. Ha voluto aggiungere una nota di colore, al Sisi, presentandosi alle telecamere per annunciare la sua candidatura: senza occhiali da sole, con una divisa cachi più sobria di quelle che era solito indossare, “appesantite” dalle decine di onorificenze appuntate come un memento, sfavillanti, sulla divisa. Quasi volesse, il generale della provvidenza, rassicurare tutti e dire che i tempi sono cambiati, che il popolo d’Egitto non ha più bisogno di un militare-dittatore e che lui, d’altra parte, sa indossare bene anche la maschera del civile.
Abdel ha rilanciato qualche giorno dopo, facendosi immortalare persino in bicicletta, sorridente, con indosso una tuta bluastra, pedalando per le strade del Cairo. Un messaggio diretto forse più ai leader stranieri, corrucciati e confusi spettatori delle cronache egiziane, piuttosto che al popolo.
L’egiziano-combattente non si lascia ingannare. Lui lotta per “la stabilità”, non si lascia affascinare troppo dalla performance stilistica di al Sisi. C’è la guerra e il comandante deve avere le stellette lucide, le mostrine ben dritte e distesse lungo le spalle. Deve portare ordine perché questa “è la guerra”.
Al Sisi è acclamato perché è comandante di uomini in un Paese che lotta contro il terrorista islamico, barbuto cospiratore con la zabibah sulla, servo di altri e che trama contro l’Egitto, la cui identità va ora difesa ad ogni costo.
Pochi giorni dopo ecco l’appello del Presidente della Repubblica, Adly Mansour: “La comunità internazionale ci aiuti a combattere il terrorismo”. Mentre Obama era in viaggio verso l’Arabia Saudita per chiedere a re Abdullah di spiegare al generale egiziano di non usare la mano troppo pesante con gli islamisti, una bomba era appena esplosa all’Università del Cairo. Il generale della polizia era rimasto ucciso e molti altri erano stati feriti. Il fronte del Sinai si avvicina e crea martiri da una parte ed eroi dall’altra.
Oggi, a est, la penisola è terra di nessuno mentre a sud, ad Assuan, esplodono guerre intestine che oppongono tribù contrapposte, quelle tra Bany Hilal e Daboudya, causando decine di morti.
Ma per l’esercito la colpa è dei Fratelli Musulmani in entrambi i casi. “E’ una guerra”, ripeteva quell’amico mentre fumava freneticamente l’ennesima sigaretta. In fretta, per correre a piazza Tahrir ad abbracciare i militari. “Ma un giorno le bombe arriveranno qui”, azzardai, “anche in questo palazzo, e faranno morti quando nemmeno ve lo aspetterete, se continuate a reprimere le proteste dei Fratelli Musulmani”.
Un sorriso e poche parole tra i denti. “No. Non credo ci riusciranno”. Poi subito via, in piazza.
“E’ una guerra”, ripeteva mentre eravamo seduti in terrazza fumando una sigaretta dietro l’altra. “E’ una guerra e combatteremo per vincerla. Non importa quante persone moriranno”.