L’attivismo irrequieto di Matteo Renzi ha danneggiato molti ma soprattutto lui stesso. Oggi, senza più seguito, vagheggia, forse, incarichi esteri
C’è qualcosa di sfuggente in Matteo Renzi. Forse quel qualcosa sfugge anche a lui. Certo è difficile comprendere fino in fondo dove voleva arrivare, quando si concludono le sue spericolate operazioni politiche. Prendiamo il Governo di larghe intese di Mario Draghi. Nelle numerose interviste post-crisi l’ex rottamatore si è attribuito il merito del “cambio di passo” dell’Italia, fiero di aver portato a Palazzo Chigi un “civil servant” del calibro dell’ex governatore della Banca Centrale Europea, mettendo insieme un esecutivo che copre quasi tutto l’arco costituzionale, ad eccezione della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Grazie a lui, insomma, il Paese, dopo una breve pausa rigeneratrice, riprende la lotta al Covid con maggiore “elan”. “È stata l’operazione più complessa di tutta la mia carriera politica”, ha dichiarato in un’intervista al New York Times, spiegando senza pudore di essere stato il regista dell’operazione. “Tutti sapevamo che Draghi era migliore di Conte, ma nessuno ha avuto il coraggio”, si lascia sfuggire in una conversazione con l’inviato del quotidiano spagnolo El Pais. Bum! Il mirabolante e burbanzoso barone di Munchausen non avrebbe potuto fare di meglio. E viene in mente il soprannome che gli avevano affibbiato i compagni di scuola: “Il bomba”.
In realtà Renzi non sapeva dove sarebbe arrivato. Ha puntato le sue “fiches” sul rosso, e ha vinto, o quanto meno forse ha fatto vincere il Paese. Ma poteva pure uscire il nero. Quanto alla riscossione personale, aveva nell’esecutivo due ministri e la “golden share” della maggioranza di Governo, grazie a quella che il politologo Gianfranco Miglio chiamava “rendita di posizione”, la stessa di Craxi-Ghino di Tacco, giusto per capire, che condizionava i governi di Andreotti e Forlani. Si ritrova con un ministro e un viceministro e nessuna rilevanza politica. Se minacciasse di uscire dalla maggioranza Super Mario Draghi non farebbe altro che indicargli la porta. Ma per l’Italia flagellata dal Covid poteva andare peggio, “poteva piovere”, come nella celebre battuta di Frankestein Junior. Senza l’azione autorevole, paziente e ostinata del capo dello Stato Mattarella l’Italia sarebbe precipitata nelle elezioni anticipate mentre sulla popolazione incombevano le varianti del Covid: inglese, brasiliana, napoletana, newyorchese … Perché l’unica cosa certa, nell’enigma Renzi, sempre alla ricerca di titoli di giornale e punti esclamativi, è quella dose di spregiudicatezza che lo ha portato a provocare una crisi di Governo nel mezzo della seconda ondata della pandemia. Non è certo la prima volta che l’ex presidente del Consiglio dimostra questa mancanza di tatto, per usare un eufemismo. Nella primavera del 2020, quando c’erano 500 morti al giorno, voleva riaprire tutto. Scuole, imprese, uffici pubblici, bar, ristoranti, tutto: “Ce lo chiede l’Italia”. Nemmeno Salvini, che di populismo se ne intende, il Salvini prima della conversione sulla via di Bruxelles, aveva osato tanto per incassare politicamente il consenso del malcontento.
L’ex sindaco di Firenze è certamente più un tattico che uno stratega. Nel primo caso non si possono negare indubbi successi e qualità. Come Presidente della Provincia di Firenze e poi sindaco della città del Giglio ha dimostrato di saperci fare, sbaragliando al momento giusto la nomenclatura di origini comuniste che regnava incontrastata dal Dopoguerra. Il Patto del Nazareno – l’alleanza con Berlusconi per avviare una serie di riforme costituzionali e una nuova legge elettorale – è senza dubbio il suo capolavoro politico, insieme a quel 40,81% ottenuto alle Europee del 2014. Il più alto risultato di sempre del Partito democratico, ottenuto con una sapiente mistura di assistenzialismo (gli ottanta euro al mese alla classe medio-bassa) e di slittamento a destra (si è detto che solo un uomo di sinistra poteva attuare l’inosabile, ovvero riformare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori). Questo strepitoso risultato gli ha fatto guadagnare per opera della Merkel il titolo di “matador”. E sul piano umanitario non bisogna nemmeno dimenticare che con l’operazione Mare Nostrum il suo Governo ha contribuito a salvare dall’annegamento centinaia di migliaia di vite umane. Cosa non da poco. Ed è un peccato che per ragioni tattiche non abbia voluto portare a termine la riforma dello ius culturae, la cittadinanza ai figli dei migranti a condizione di particolari vincoli come l’istruzione e la conoscenza della lingua italiana, che avrebbe certamente dato un contributo all’integrazione del Paese.
Poi però la strategia si è offuscata: il tentativo di intercettare i voti in libera uscita di Berlusconi è andato a vuoto, la campagna per la trasformazione del Senato in Camera delle Autonomie è stata un disastro totale. Dopo aver spinto tre quarti della nomenclatura fuori dal partito democratico, di cui era rimasto segretario dopo aver perso la premiership, ha fatto le valigie un minuto prima che venisse cacciato all’indomani della Caporetto del referendum costituzionale, una delle più strampalate riforme mai viste nella storia della Repubblica. Il rottamatore aveva detto che si sarebbe rottamato, che avrebbe lasciato la politica in caso di sconfitta ma non bisogna farci caso più di tanto, la politica è l’arte della menzogna, a volte può essere addirittura utile, l’aveva già teorizzata il concittadino di Renzi Niccolò Machiavelli.
E così, nel silenzio del Conte-bis, con l’avvocato del popolo che non gli faceva toccare palla, con il suo striminzito 2%, non gli rimaneva che una cosa: farsi notare rovesciando il tavolo. Riuscendoci. Dopo aver collaborato alla nascita del Conte-bis, probabilmente avrebbe già voluto rompere a febbraio del 2020, se non fosse stato ostacolato dall’insorgere della pandemia. Ha inaugurato – un po’ come il suo alter ego Salvini – quello star dentro e fuori la maggioranza per ottenere visibilità. Un modus operandi che incarna un modo nuovo e deviante di esercitare il potere publico, una specie di “variante” politica. Renzi non è uomo che si accontenta di stare in panchina. Ha morso il freno finché poteva, poi è scoppiato.
Se andiamo a vedere le numerose interviste concesse nei giorni della rottura ci accorgeremo che non c’è un motivo preciso: prima il Mes, poi i vaccini, poi le partite Iva, poi i ristori, poi il Recovery Fund (di cui probabilmente voleva decidere le destinazioni aspirando a interpretare i desideri e le attese di certa parte di Confindustria, incassandone poi i dividendi politici). Un po’ come nelle varie Leopolde, le operazioni di immagine di stampo berlusconiano che organizzava a Firenze per rilanciare la sua leadership ed esercitare il suo personalismo politico: tutto e il contrario di tutto, un fiume di parole che finivano per stordire tutti.
Aprendo la crisi e ritirando le sue due ministre, Renzi voleva intercettare il malcontento di quegli strati sociali insoddisfatti del lockdown, dagli industriali alle partite Iva. Una sorta di Forza Italia o di Lega in salsa centrista con qualche nuance di centrosinistra. Aspirazione legittima in fondo, e anche non priva di senso. Ma quando ha aperto la crisi, la pandemia era in una delle sue fasi parossistiche. Era opportuno rompere proprio in quel momento? Non era forse prioritario il “right or wrong is my country”, non aveva maggior peso la necessità di farsi un tutt’uno dietro il proprio premier, di sacrificarsi per poi – se necessario – regolare i conti a guerra finita? Siamo stati l’unico Paese europeo ad aprire una crisi in tempo di pandemia (a parte l’Olanda che fa caso a sé). Nelle fasi più concitate Renzi – questo aspirante emulatore di Macron – ha trovato persino il tempo di andare a fare il moderatore in Arabia, in cambio di un compenso di 80 mila euro più le spese, per poi parlare di “Rinascimento” a proposito di un Paese che sta bombardando da anni lo Yemen e che è fermo al Medio Evo nel campo dei diritti umani e della condizione femminile. Dietro l’orribile omicidio del giornalista scomodo Jamal Khashoggi si sospetta la mano diretta del principe saudita Mohammed Bin Salman, lo stesso che Renzi ha intervistato ed elogiato a Riad. Lo stesso che tiene 10 milioni di sauditi in condizioni di schiavitù e tratta altri svariati milioni di migranti al pari di schiavi iloti. Niente male come Rinascimento.
Il suo mancato appoggio non ha soltanto fatto cadere il Governo di Conte, che mai e poi mai gli avrebbe dato voce e di cui soffriva l’inevitabile popolarità, ma ha anche frantumato come un proiettile su un cristallo il Movimento Cinque Stelle, le cui diverse “anime” si sono agitate e divise come quando si solleva la pietra di un formicaio. Indubbio successo tattico. Ma la strategia? Intanto abbiamo perso un mese nella lotta al virus, impegnati nelle consultazioni e nelle trattative nonostante i tempi strettissimi dettati dall’agenda del capo dello Stato.
C’è poi la storia delle aspirazioni personali. L’attivismo del senatore e fondatore di Italia Viva sulla scena mediatica internazionale, con quel profluvio di interviste rilasciate ai giornali di mezzo mondo, rafforza l’idea che si voglia ritagliare un incarico fuori dall’Italia. Come quello di nuovo segretario generale della Nato. L’incarico di Jens Stoltemberg, che lo stesso Renzi aveva contribuito a fargli ottenere, scade nel 2022. L’ex rottamatore conta sull’appoggio di Biden e Obama, che glielo avrebbero fatto intravvedere. Ma si tratta di ipotesi. L’unica certezza è che nei prossimi mesi Renzi non mancherà di dare notizie di sé.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
C’è qualcosa di sfuggente in Matteo Renzi. Forse quel qualcosa sfugge anche a lui. Certo è difficile comprendere fino in fondo dove voleva arrivare, quando si concludono le sue spericolate operazioni politiche. Prendiamo il Governo di larghe intese di Mario Draghi. Nelle numerose interviste post-crisi l’ex rottamatore si è attribuito il merito del “cambio di passo” dell’Italia, fiero di aver portato a Palazzo Chigi un “civil servant” del calibro dell’ex governatore della Banca Centrale Europea, mettendo insieme un esecutivo che copre quasi tutto l’arco costituzionale, ad eccezione della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Grazie a lui, insomma, il Paese, dopo una breve pausa rigeneratrice, riprende la lotta al Covid con maggiore “elan”. “È stata l’operazione più complessa di tutta la mia carriera politica”, ha dichiarato in un’intervista al New York Times, spiegando senza pudore di essere stato il regista dell’operazione. “Tutti sapevamo che Draghi era migliore di Conte, ma nessuno ha avuto il coraggio”, si lascia sfuggire in una conversazione con l’inviato del quotidiano spagnolo El Pais. Bum! Il mirabolante e burbanzoso barone di Munchausen non avrebbe potuto fare di meglio. E viene in mente il soprannome che gli avevano affibbiato i compagni di scuola: “Il bomba”.
In realtà Renzi non sapeva dove sarebbe arrivato. Ha puntato le sue “fiches” sul rosso, e ha vinto, o quanto meno forse ha fatto vincere il Paese. Ma poteva pure uscire il nero. Quanto alla riscossione personale, aveva nell’esecutivo due ministri e la “golden share” della maggioranza di Governo, grazie a quella che il politologo Gianfranco Miglio chiamava “rendita di posizione”, la stessa di Craxi-Ghino di Tacco, giusto per capire, che condizionava i governi di Andreotti e Forlani. Si ritrova con un ministro e un viceministro e nessuna rilevanza politica. Se minacciasse di uscire dalla maggioranza Super Mario Draghi non farebbe altro che indicargli la porta. Ma per l’Italia flagellata dal Covid poteva andare peggio, “poteva piovere”, come nella celebre battuta di Frankestein Junior. Senza l’azione autorevole, paziente e ostinata del capo dello Stato Mattarella l’Italia sarebbe precipitata nelle elezioni anticipate mentre sulla popolazione incombevano le varianti del Covid: inglese, brasiliana, napoletana, newyorchese … Perché l’unica cosa certa, nell’enigma Renzi, sempre alla ricerca di titoli di giornale e punti esclamativi, è quella dose di spregiudicatezza che lo ha portato a provocare una crisi di Governo nel mezzo della seconda ondata della pandemia. Non è certo la prima volta che l’ex presidente del Consiglio dimostra questa mancanza di tatto, per usare un eufemismo. Nella primavera del 2020, quando c’erano 500 morti al giorno, voleva riaprire tutto. Scuole, imprese, uffici pubblici, bar, ristoranti, tutto: “Ce lo chiede l’Italia”. Nemmeno Salvini, che di populismo se ne intende, il Salvini prima della conversione sulla via di Bruxelles, aveva osato tanto per incassare politicamente il consenso del malcontento.
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