I nuovi equilibri in Libia e nel Mediterraneo orientale, l’assenza dell’Europa, la distratta presenza degli Stati Uniti e le frizioni Turchia-Egitto
Da quando gli Stati Uniti hanno prima teorizzato, col celebre “Pivot to Asia” dell’allora Segretario di Stato Hillary Clinton, e poi dimostrato, tanto negli anni della presidenza Obama quanto in quelli della presidenza Trump, un loro minore impegno in Europa e Medio Oriente, la Storia ha qui ripreso a scorrere in canali che la pax americana sembrava aver ostruito negli ultimi decenni.
In particolare nel Mediterraneo orientale la competizione tra attori nazionali per il controllo delle risorse energetiche, per la spartizione dei mari e, in ultima analisi, per la supremazia geopolitica è cresciuta nel giro di pochi anni fino a toccare livelli preoccupanti. La Nato, che dell’allontanamento americano (ora unito alla malcelata insofferenza dell’attuale presidente degli Stati Uniti) è la prima vittima, finora non è sembrata essere in grado di assumere il ruolo di camera di compensazione tra le spinte divergenti dei suoi membri. La Russia, che storicamente nel Mediterraneo ha avuto un ruolo marginale, è ora in grado di proiettare la propria influenza strategica dalla Siria ai Balcani, dalla Libia all’Egitto, impersonando il ruolo del mediatore che in tutte le partite aperte conviene sia coinvolto e da tutte le mediazioni può trarre un profitto. Gli Stati nazionali si stanno disponendo su linee di frattura pericolose, che per ora sembra possano essere gestite prevalentemente con gli strumenti della diplomazia, ma che negli Stati più fragili già sfociano in guerre di prossimità (si pensi al caso della Libia) e che un domani potrebbero causare scosse ancor più pericolose per la pace nella regione.
I rapporti tra Turchia ed Egitto
Un ultimo allarmante capitolo riguarda i rapporti tra Turchia ed Egitto. I due Paesi sono storicamente tra i principali attori nel mondo islamico, ma oggi Il Cairo versa in una situazione di difficoltà economica e di dipendenza da altri Stati (Arabia Saudita e Russia in primis) che ne riduce lo spazio di azione, e anche Ankara deve tenere conto nelle sue mire espansionistiche di stampo neo-ottomano dei rapporti di forza con Mosca, che la vedono in posizione di subalternità da quando, nel 2015, è uscita sconfitta dal confronto con la Russia e ha dovuto sacrificare le proprie ambizioni in Siria in cambio di alcune garanzie (territoriali e non) contro il crescente indipendentismo curdo nella regione.
Pur in questa situazione di debolezza relativa, l’Egitto sta provando a elaborare una strategia che gli consenta una maggiore forza economica – e quindi politica – nel prossimo futuro. Questa strategia passa principalmente dallo sfruttamento delle enormi riserve energetiche che sono state scoperte negli ultimi anni nel Mediterraneo orientale, che il Cairo vorrebbe sfruttare per inserirsi nel mercato europeo delle risorse e ottenere i relativi dividendi economici. Il giacimento di Zohr, scoperto a inizio degli anni Dieci e considerato la più grande scoperta di gas mai realizzata in Egitto e nel Mar Mediterraneo, intreccia gli interessi dell’Egitto con quelli dell’Italia (Eni ha il 50% del blocco che controlla il giacimento), della Russia, degli Emirati e del Regno Unito, anche loro titolari di quote rilevanti. Ma, allo stesso tempo, può rappresentare una minaccia per Ankara, che ha l’ambizione di diventare – di nuovo, grazie ai suoi rapporti con la Russia – l’hub energetico per l’Europa grazie a TurkStream. Questo è un imponente gasdotto che consente a Mosca di trasportare e vendere gas in Europa via Turchia aggirando l’Ucraina (sottratta al controllo geopolitico russo nel 2014 con la “Rivoluzione arancione” e con cui da allora il Cremlino ha rapporti sempre altalenanti) e che ha iniziato a funzionare da gennaio 2020.
Il progetto del gasdotto EastMed
La Turchia inoltre vede minacciate le sue ambizioni anche da un altro progetto, quello del gasdottoEastMed, che dovrebbe portare altre risorse energetiche scoperte nel Mar Mediterraneo orientale (in particolare nei giacimenti a largo di Cipro, dove di nuovo sono coinvolti gli interessi economici di Stati europei, tra cui anche l’Italia, e di Israele) in Europa, e fare così concorrenza a TurkStream. In questo caso gli avversari di Ankara sono Israele, Grecia e, di nuovo, Egitto: tre Paesi con cui la Turchia ha già diverse frizioni in corso. Inoltre gli Stati Uniti, che sostengono le ambizioni energetiche israeliane e non vedono di buon occhio l’eccessiva dipendenza europea dal gas russo, sono favorevoli a questo progetto, che – siglato dai Paesi interessati a inizio 2020 – dovrebbe vedere la luce nel 2025.
In ogni caso, anche per bloccare queste minacce alle sue ambizioni in campo energetico, la Turchia è molto attiva su un altro tavolo – laterale ma collegato –, quello delle Zone economiche esclusive (Zee). Queste sono le aree di mare adiacenti alle coste di uno Stato su cui questo ha diritti sovrani per la gestione delle risorse naturali e ha la giurisdizione in materia di installazione e uso di strutture artificiali o fisse. Vista la disposizione dei confini degli Stati nel Mediterraneo orientale – in particolare la presenza di Stati insulari come Cipro o Malta, e la disposizione delle isole greche a ridosso delle coste turche – è molto complicato definire i confini di queste Zee. Già in condizioni normali un negoziato che bilanci gli interessi contrapposti degli Stati coinvolti sarebbe difficile, se poi gli Stati sono ai ferri corti su una serie di altre questioni ecco che la via che può percorrere la diplomazia si fa ancora più stretta e impervia.
La decisione di Ankara di stabilire una Zee in accordo con la Libia (o meglio, con il governo libico di Tripoli, guidato da Fayez al-Sarraj, e contrapposto al governo di Bengasi, guidato dal generale Khalifa Haftar, sostenuto tra gli altri dall’Egitto), che oltretutto non tiene in considerazione la presenza di diverse isole greche tra cui Creta, va inserita nel contesto ampio visto finora. Come detto, ha la funzione di bloccare la possibile minaccia che rappresenterebbe il gasdotto EastMed, ma ha anche la funzione di ribadire il ruolo (sempre più determinante) della Turchia in Libia e di dare un segnale ai vari Stati coinvolti nella contesa geopolitica nel Mediterraneo orientale.
Gli attori geopolitici coinvolti
Questa mossa turca – condannata dagli Usa e dall’Europa, preceduta e accompagnata da scaramucce pre-belliche come violazioni dello spazio aereo altrui, posizionamento di navi militari in aree contese e via dicendo – ne ha causata una uguale e opposta da parte dell’Egitto e della Grecia, che a inizio agosto 2020 hanno a loro volta dichiarato una loro Zee, che va a sovrapporsi in parte con quella turco-libica, riconoscendo il ruolo (negato dalla Turchia) delle isole greche nella definizione dei confini. La questione è quindi come trovare ora una soluzione diplomatica che accontenti tutte le parti in causa, un risultato che da un lato è reso complicato dalla molteplicità di scontri aperti tra gli attori coinvolti (non solo Turchia e Egitto ma anche Grecia, Cipro e Israele) ma che dall’altro potrebbe proprio avere una funzione di mediazione su più tavoli.
Gli Stati Uniti e la comunità internazionale al momento sembrano schierati contro l’espansionismo di Ankara e a favore delle pretese avanzate da Grecia, Egitto e Cipro, ma la situazione è probabilmente più complessa di quella che sembra. L’Italia, ad esempio, ha sia interessi convergenti con quelli dell’Egitto e di Cipro, sia con la Turchia, con cui ad esempio è schierata dallo stesso lato della barricata in Libia. La Francia invece sembra tra i grandi Paesi europei quello più attivo nel contrastare le ambizioni turche. Non è chiaro al momento che piega possano prendere gli eventi, in uno scenario liquido e ricco di variabili, ma di sicuro sembra che la prassi seguita finora, che vedeva nella dichiarazione di Zee un’eccezione rispetto al principio di garantire la massima estensione possibile dell’Alto mare, sia oramai morta e sepolta. Anche l’Italia, storicamente sostenitrice della linea ostile alla dichiarazione di Zee, sta ora ragionando su come definire la propria (anche in risposta alle mosse unilaterali di altri Stati tra cui, ad esempio, l’Algeria) e in Parlamento c’è in discussione una proposta di legge che va in questo senso.
La Fratellanza Musulmana
La prospettiva della spartizione dei mari appena vista, come quella dello scontro per il controllo e la distribuzione delle risorse, sono parti fondamentali – ma non esaustive – della più generale contesa geopolitica che è in atto nel Mediterraneo orientale. La Turchia, come detto, non fa mistero da anni di avere ambizioni neo-ottomane, di proiettare la propria influenza sul mondo islamico e di sostenere una visione vicina a quella della Fratellanza Musulmana. L’Egitto di Abdel Fattah al Sisi, che è andato al potere con un golpe proprio contro il Governo sostenuto dalla Fratellanza Musulmana e guidato da Mohammed Morsi, si contrappone (con la determinante sponda saudita, che di Ankara è il primo avversario all’interno del mondo sunnita) a queste ambizioni. Questo scontro si sta concretizzando in maniera violenta e preoccupante nella guerra di prossimità in corso tra i due Paesi sul suolo libico, con l’Egitto impegnato a sostenere il generale Haftar (insieme a Emirati, Russia e di fatto Francia) e la Turchia che di recente è intervenuta direttamente sul terreno con mercenari, guerriglieri siriani di fatto da lei controllati e proprie unità speciali per sostenere il governo di Serraj.
Siamo insomma nel contesto dello scontro interno al mondo sunnita tra le monarchie (come quella saudita o emiratina) e i regimi (come quello egiziano) da un lato, e gli Stati simpatizzanti della Fratellanza Musulmana come la Turchia e il Qatar dall’altro. Uno scontro che si intreccia poi con quello tra il fronte sunnita guidato dai Saud e quello sciita capeggiato dall’Iran, visto che sia Turchia che Qatar sono state in qualche modo spinte a una maggior vicinanza con l’Iran dalla linea dura impressa alla politica estera saudita dal principe ereditario Mohammed Bin Salman (che oltretutto può contare, nella sua ostilità sia all’Iran sia alla Turchia, su una parziale sponda israeliana).
La Russia e l’Europa
Ma allargando l’obiettivo la partita in corso tra Egitto e Turchia in Libia può essere letta anche con altri significati. Per Mosca, ad esempio, più che uno scontro in cui ha interesse a impegnarsi per far vincere una delle parti in causa (come ha fatto in Siria dal 2015 in poi), sembra una situazione in cui ha interesse a ritagliarsi un ruolo da mediatore. La Russia, che sostiene l’Egitto di al Sisi e il generale Haftar, non ha infatti interesse a esacerbare i rapporti con Ankara e, anzi, potrebbe essere danneggiata dalla concorrenza egiziana nel mercato energetico se si concretizzasse il progetto EastMed. Dunque il Cremlino ha tutto l’interesse a collocarsi al centro di un negoziato che garantisca sia la sfera di influenza turca, sia le ambizioni egiziane, sia i buoni rapporti con Israele che con l’Europa.
E proprio l’Europa è l’attore geopolitico che in questo momento rappresenta la maggiore incognita, soprattutto nella prospettiva di medio-lungo periodo. Finora ha agito divisa per non colpire unita e così facendo ha lasciato spazio ad altri attori (Russia e Turchia in primis) in scenari che storicamente erano invece nella sua sfera di influenza (Libia, ma non solo). Eppure per posizione geografica degli Stati che la compongono (in particolare Grecia, Cipro e Italia), per potenza economica e quindi per leva economica in qualsiasi negoziato, per rapporti con gli Stati Uniti – che un domani potrebbero quantomeno diminuire il disimpegno dallo scenario europeo-mediorientale –, per peso nella Nato e per possibile potenza bellica (un sentiero finora inesplorato o quasi a livello europeo, ma su cui le cancellerie del vecchio continente pare abbiano iniziato a ragionare negli ultimi anni), l’Unione europea sarebbe nella posizione ideale per guadagnare un ruolo centrale in tutti i tavoli aperti nel Mediterraneo orientale. Una sua azione unitaria e coerente potrebbe insomma cambiare tutte le carte sul tavolo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Da quando gli Stati Uniti hanno prima teorizzato, col celebre “Pivot to Asia” dell’allora Segretario di Stato Hillary Clinton, e poi dimostrato, tanto negli anni della presidenza Obama quanto in quelli della presidenza Trump, un loro minore impegno in Europa e Medio Oriente, la Storia ha qui ripreso a scorrere in canali che la pax americana sembrava aver ostruito negli ultimi decenni.
In particolare nel Mediterraneo orientale la competizione tra attori nazionali per il controllo delle risorse energetiche, per la spartizione dei mari e, in ultima analisi, per la supremazia geopolitica è cresciuta nel giro di pochi anni fino a toccare livelli preoccupanti. La Nato, che dell’allontanamento americano (ora unito alla malcelata insofferenza dell’attuale presidente degli Stati Uniti) è la prima vittima, finora non è sembrata essere in grado di assumere il ruolo di camera di compensazione tra le spinte divergenti dei suoi membri. La Russia, che storicamente nel Mediterraneo ha avuto un ruolo marginale, è ora in grado di proiettare la propria influenza strategica dalla Siria ai Balcani, dalla Libia all’Egitto, impersonando il ruolo del mediatore che in tutte le partite aperte conviene sia coinvolto e da tutte le mediazioni può trarre un profitto. Gli Stati nazionali si stanno disponendo su linee di frattura pericolose, che per ora sembra possano essere gestite prevalentemente con gli strumenti della diplomazia, ma che negli Stati più fragili già sfociano in guerre di prossimità (si pensi al caso della Libia) e che un domani potrebbero causare scosse ancor più pericolose per la pace nella regione.
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