L’Argentina è stato l’unico paese latinoamericano ad opporsi al riconoscimento dello Stato Palestinese come membro a pieno titolo dell’Assemblea Generale dell’Onu. Una svolta drastica, l’ennesima dall’arrivo di Javier Milei al potere, nella politica estera del paese.
Solo 9 stati si sono opposti alla risoluzione approvata settimana scorsa in seduta straordinaria dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che prevede l’ampliamento delle prerogative dei rappresentanti dello stato della Palestina negli organismi Onu.
Sebbene mantenga lo status di Osservatore, e quindi senza il diritto di voto, la Palestina potrebbe accrescere le proprie possibilità di intervento e rappresentanza in vista del riconoscimento della condizione di membro a pieno titolo dell’Onu, bloccata dal veto degli Usa nel Consiglio di Sicurezza. Repubblica Ceca, Ungheria, Israele, Micronesia, Nauru, Palau, Papua Nuova Guinea, Stati Uniti e Argentina si sono opposte durante la votazione. L’ambasciatore di Tel Aviv è stato anche protagonista di una scena che ha fatto il giro del mondo: con un tritacarta in miniatura ha distrutto una copia della Carta dell’Onu in segno di protesta contro “l’integrazione di uno stato terrorista” nell’organizzazione.
Ma circa la votazione di venerdì scorso, nella diplomazia latinoamericana si è prestata speciale attenzione alla decisione di Buenos Aires di allinearsi a Usa e Israele per la prima volta in più di 70 anni. Tutti gli stati latinoamericani, eccezion fatta per l’Argentina di Milei e il Paraguay che si è astenuto, hanno votato a favore della risoluzione che riconosce alla Palestina una maggior rappresentanza diplomatica. Anche il Guatemala, unico paese al mondo ad aver seguito i passi del governo Trump nel trasferimento della propria ambasciata a Gerusalemme. Quella del nuovo governo argentino sembrerebbe essere l’ennesima svolta in politica estera, nel contesto del ritorno delle cosiddette “relazioni carnali” con Washington.
L’Argentina infatti manteneva dal 1947, anno in cui è approdata la questione palestinese all’Onu, una politica detta “dell’equidistanza”, basata sul riconoscimento del diritto del popolo palestinese ad organizzarsi in uno stato indipendente e quello del popolo israeliano a vivere in sicurezza, dentro a frontiere internazionalmente riconosciute. Il 29 novembre del ‘47 il governo del presidente Juan Domingo Perón si astenne alla votazione che stabilí la divisione del territorio palestinese, ma fu tra i primi a stabilire relazioni diplomatiche col neonato stato di Israele nel maggio del 1949.
L’obiettivo esplicito della strategia inaugurata negli anni ’50 fu quella di compensare qualsiasi gesto ufficiale fatto a favore di una delle due parti, con un avvicinamento nei confronti dell’altra per bilanciare sempre la posizione argentina ed evitare ricadute sulle relazioni degli alleati più stretti dell’una e l’altra parte. In quegli anni, e in buona parte ancora oggi, si trattava di una questione molto sentita nel paese, la cui tradizione di accoglienza di migranti da ogni parte del mondo è alla base dell’identità nazionale: la comunità araba è la terza per presenza in Argentina dopo gli italo-discendenti e gli spagnoli, e Buenos Aires ospita la più grande comunità ebraica dell’America Latina e la quinta più numerosa del mondo. L’equidistanza intorno al conflitto israelo-palestinese è dunque anche una questione di equilibrio interno.
I primi cenni di revisione della politica dell’equidistanza arrivarono negli anni ‘90 durante il governo di Carlos Saúl Menem, primo presidente di origini arabe dell’Argentina, e primo presidente argentino a visitare ufficialmente Israele. L’orientamento della politica estera di Menem era segnato da un allineamento totale con Washington, il ché portò l’Argentina a schierarsi con Tel Aviv e i propri alleati in diverse occasioni.
Il paese in quegli anni arrivò addirittura a inviare i propri militari alla prima Guerra del Golfo del 1991, e ruppe le relazioni con la Repubblica Islamica dell’Iran, con cui l’Argentina aveva stabilito linee di cooperazione intorno allo sviluppo nucleare per uso pacifico negli anni precedenti.
Il cambiamento di rotta comportò un altissimo costo per il governo Menem: nel 1992 un attentato contro l’ambasciata di Israele a Buenos Aires provocó la morte di 22 persone ed una commozione inedita nel paese. Due anni più tardi, un altro attentato terrorista colpì la sede dell’Associazione Mutuale Israelita Argentina (Amia), e uccise 85 persone nel cuore della capitale, il più grande attentato internazionale della storia dell’America Latina.
Qualche settimana fa la giustizia argentina ha confermato la conclusione a cui sono arrivati gli inquirenti sul caso Amia, secondo cui ad organizzare l’attentato furono alti funzionari del governo iraniano dell’epoca, e gli autori materiali furono membri di Hezbollah.
Ma nemmeno gli attentati degli anni ‘90 modificarono radicalmente la posizione ufficiale del paese, saldamente costruita attorno all’assioma “due popoli, due stati”, e l’azione diplomatica argentina fu generalmente coerente. Nemmeno Israele fece particolari pressioni su Buenos Aires per rompere questa tradizione, anche perché i conflitti in Medio Oriente rivestivano, e rivestono tuttora, un’importanza secondaria nell’attività diplomatica argentina.
Nel dicembre del 2010, durante il governo di Cristina Fernandez de Kirchner (2007-2015) l’Argentina ha riconosciuto formalmente lo Stato Palestinese, “entro i confini esistenti nel 1967 e secondo quanto stabilito dalle parti nel corso del processo negoziale”, una formula che permette al paese di mettere le mani avanti in caso di nuovi accordi ed eventualmente riconoscere le rivendicazioni israeliane nel futuro.
Il governo conservatore di Mauricio Macri (2015-2019) riprese lo slancio dato da Menem alle relazioni con Israele e Usa: nel settembre del 2017 Benjamin Netanyahu realizzò la prima visita di un capo di governo israeliano nella storia dell’Argentina, e pochi mesi più tardi il governo Macri annunciò l’inclusione di Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroriste riconosciute dall’Argentina.
A livello internazionale Buenos Aires modificò il proprio voto storico e cominciò ad astenersi nel seno dell’Unesco di fronte alle risoluzioni sui territori occupati; stessa posizione assunse anche in occasione dello storico voto sulla risoluzione dell’Onu che annulla la proclamazione di Gerusalemme come capitale unica di Israele.
Il ritorno del peronismo al potere nel 2019 con Alberto Fernandez vide anche il ritorno ad un maggior equilibrio nella posizione argentina sulla questione. Fernandez ha condannato senza mezze misure l’attacco portato avanti da Hamas il 7 ottobre del 2023, ha espresso personalmente la propria solidarietà al presidente e al primo ministro israeliani, e ha istruito la diplomazia argentina a lavorare assieme a quella israeliana per liberare gli ostaggi portati nella striscia di Gaza: tra essi vi erano 15 argentini. Il paese però votò a favore della risoluzione che chiedeva una tregua umanitaria alle operazioni israeliane a Gaza, e in un polemico comunicato il 1º novembre 2023 condannò le “violazioni al diritto internazionale umanitario” portate avanti dall’esercito israeliano.
L’arrivo di Milei alla Casa Rosada ha stravolto l’equazione. Gerusalemme è stata la prima città che ha visitato da presidente, rompendo la storica tradizione secondo la quale il Brasile è la prima meta di tutti i presidenti argentini appena eletti. Assieme a Netanyahu ha annunciato la sua intenzione di trasferire l’ambasciata argentina da Tel Aviv alla città sacra, ha annunciato l’inclusione di Hamas nella lista delle organizzazioni considerate terroriste, e ha confermato che Israele e Stati Uniti saranno i nuovi alleati strategici dell’Argentina.
“Schierarsi non è una scelta tra le altre, ma un obbligo morale”, ha riassunto recentemente durante un omaggio alle vittime dell’Olocausto. “Denunciare il terrorismo islamico è un obbligo. L’Argentina sarà a fianco di Israele, con fermezza e per sempre”.
Tra le eccentricità che contraddistinguono la vita politica e personale di Javier Milei spicca la sua recente conversione all’ebraismo, guidata da un rabbino locale, Axel Wahnish, nominato ambasciatore argentino in Israele e in attesa dell’approvazione (tutt’altro che scontata) da parte del Senato.
Il 13 aprile, dopo il raid missilistico iraniano su territorio israeliano, Milei aveva addirittura accennato alla possibilità di un coinvolgimento militare argentino in difesa di Israele. Sospese il proprio viaggio in Europa, dove avrebbe dovuto firmare un accordo per l’acquisto di una flotta di aerei da combattimento dalla Danimarca, per celebrare una riunione del Comitato di Crisi da lui ordinato per discutere la situazione in Medio Oriente.
L’ambasciatore israeliano a Buenos Aires, Eyal Sela, fu invitato a partecipare alle riunioni del gabinetto di governo durante i giorni successivi, un fatto inedito per l’amministrazione pubblica argentina.
L’allontanamento argentino dai paesi arabi risponde a un più generale distacco dai paesi del Sud Globale, come si è visto nel caso del rifiuto di entrare a far parte dei BRICS a gennaio, e ad una rapidissima subordinazione agli indirizzi che gli Usa vogliono dare all’ordine internazionale.
Milei ha riattivato le manovre argentine per poter entrare a formar parte a pieno titolo dell’OSCE, ha cercato di riprendere le negoziazioni per un trattato di libero scambio tra l’UE e il Mercosur, e ha riaperto le porte alla presenza militare degli Stati Uniti nella strategica zona antartica.
Lo slancio dato al vincolo con Tel Aviv dunque risulta chiave nella proiezione geopolitica del nuovo governo argentino, che attende un’ulteriore spinta alla propria posizione dalle elezioni negli Usa di novembre: la consolidazione del tandem Trump-Milei infatti potrebbe significare una grande svolta per Israele in America Latina.
Sebbene mantenga lo status di Osservatore, e quindi senza il diritto di voto, la Palestina potrebbe accrescere le proprie possibilità di intervento e rappresentanza in vista del riconoscimento della condizione di membro a pieno titolo dell’Onu, bloccata dal veto degli Usa nel Consiglio di Sicurezza. Repubblica Ceca, Ungheria, Israele, Micronesia, Nauru, Palau, Papua Nuova Guinea, Stati Uniti e Argentina si sono opposte durante la votazione. L’ambasciatore di Tel Aviv è stato anche protagonista di una scena che ha fatto il giro del mondo: con un tritacarta in miniatura ha distrutto una copia della Carta dell’Onu in segno di protesta contro “l’integrazione di uno stato terrorista” nell’organizzazione.