Prima dell’invenzione della cronaca nera si cantavano le murder ballads. Narravano di crimini violenti e cruente punizioni, e qualche volta instillavano nell’ascoltatore umana compassione per l’assassino oltre che per la vittima.
KNOXVILLE GIRL – The Louvin Brothers
Di questa ballata incisa negli anni ’50 si possono rintracciare i precedenti in un poema d’epoca elisabettiana. E’ la storia di un femminicidio, si direbbe oggi. Nella prima strofa un tizio incontra una ragazza e la porta a passeggiare una domenica sera. Nella seconda strofa questo tizio prende un bastone, uccide la ragazza e la getta nel fiume. Nessuno può evitargli di finire i suoi giorni in una “vecchia cella sporca” perché ha ammazzato “la ragazza che amava”. Ma perché lo ha fatto?
Per gli studiosi di murder ballads ogni incomprensibile violenza sulla donna che il protagonista dice di amare nasconderebbe il terrore della sessualità femminile agli occhi dei maschi. Di questo connubio perverso tra sesso e peccato il duo country dei Louvin Brothers fu tra gli interpreti più scatenati nell’America degli anni ’50. Erano ferventi battisti e capaci di intitolare un disco intero all’incombente minaccia di Satana, ma alcolizzati, violenti e sciupafemmine. Ira Louvin morì in un incidente stradale insieme alla sua quarta moglie lo stesso giorno che la polizia lo stava cercando per metterlo in galera, colpevole di guida in stato d’ebbrezza.
MA MI – Milva/Giorgio Strehler
Alla metà degli anni ’50, in una Milano che più Milano non si può, Giorgio Strehler mette in scena L’opera da tre soldi di Bertold Brecht. Una delle più celebri battute del commediografo tedesco recita: Cos’è l’effrazione di una banca rispetto alla fondazione di una banca? Con questa lezione in testa e l’aiuto del suo musicista di fiducia Fiorenzo Carpi, Strehler scrive Ma mi e Le mantellate per il recital “Canzoni della mala”. L’interpretazione è affidata all’allora fidanzata del regista: Ornella Vanoni, figlia di una ricca famiglia meneghina, torbida e darkissima in scena.
Ma mi è la storia in tre atti di un piccolo malavitoso milanese il quale, già arrestato dai “todesch de la Wermacht” e di nuovo interrogato anni dopo in questura da un commissario “brut teron”, mai tradirà i suoi complici e amici. Finirà in una cella di San Vittore a chiedersi che mondo è quello in cui “la libertà vale una spiata”. La canzone sarà cantata in seguito da Tino Carraro, Enzo Jannacci, Milva.
In un varietà Rai dell’epoca, Strehler dirige Milva e insiste sulla sfrontatezza, sull’allegria seria (così poco italiana, aggiunge) di questo piccolo criminale che non può darci lezioni di legge ma di moralità forse sì. Negli anni ’90 la canzone fu associata ai protagonisti della Tangentopoli milanese, molti dei quali socialisti come lo Strehler partigiano, che si ritrovarono a San Vittore come i malavitosi di cui avevano cantato in gioventù. “Mi parli no”, mormoravano tra sé e sé.
20 CHNAM KNONG KOK (20 anni in prigione) – Sin Sisamouth
In Cambogia, negli anni ’60 -’70, molte canzoni intrecciavano lo stile tradizionale alle musiche ascoltate alla radio dei soldati americani: ritmi latini, crooning, rock psichedelico. L’effetto, dal nostro punto di vista, è straniante e fantastico. Star assoluta del genere fu Sin Sisamouth. Figlio di un secondino, infermiere di professione, cantante e musicista sopraffino, compose qualcosa come 1000 canzoni, compresa questa lacrimevole “20 anni in prigione”. Sinossi: un marito geloso sconta in un carcere la pena per aver ammazzato l’amante della moglie, scoperta in flagrante adulterio mentre ha abbandonato la figlia piccola tutta sola.
Più tragico ancora il destino di queste canzoni: vennero bandite dai khmer rossi, che fucilarono tutti i cantanti. Anche il povero Sin Sisamouth. Nessuno sa esattamente dove e quando. Chi dice sulla strada mentre cercava di tornare a Phnom Pehn con la seconda moglie incinta, chi dice in un carcere. Una leggenda vuole che prima dell’esecuzione abbia cercato di commuovere i suoi aguzzini intonando una canzone.
Prima dell’invenzione della cronaca nera si cantavano le murder ballads. Narravano di crimini violenti e cruente punizioni, e qualche volta instillavano nell’ascoltatore umana compassione per l’assassino oltre che per la vittima.