Next Generation EU: il nostro impegno con l’Europa
Con il Next Generation EU l’Italia ha la possibilità di ripartire con forza e cambiare volto. Una grande responsabilità verso gli Italiani e gli Europei
Con il Next Generation EU l’Italia ha la possibilità di ripartire con forza e cambiare volto. Una grande responsabilità verso gli Italiani e gli Europei
La fase politica è nuova, nuovissima. La politica no: per le logiche nelle quali si muove è sostanzialmente la stessa dei due decenni passati, solo di qualità calante. Se le elezioni politiche italiane del 4 marzo 2018 sono state un fatto di rottura per il sistema dei partiti, la pandemia del 2020 e la non scontata reazione a essa da parte dell’Europa hanno del tutto cambiato i termini del confronto politico, le basi della conversazione nazionale, le fondamenta dei paradigmi su cui era costruita la stagione passata. Il risultato, sommato alla crisi da virus, è per ora una confusione probabilmente mai registrata in tutta la storia repubblicana. C’è però una speranza: il piano per la ripresa Next Generation EU varato dal Consiglio europeo lo scorso 21 luglio. Per l’Italia, i 209 miliardi previsti dal Recovery Fund (parte del Next Generation EU) possono essere una grande opportunità ma sono anche un rischio: è su questo che da ora e per i prossimi mesi e anni si misurerà la capacità del Paese di uscire positivamente dalla crisi.
Next Generation EU
L’opportunità è evidente: nel medio termine, cioè dall’anno prossimo in poi, all’Italia arriveranno da Bruxelles 81,4 miliardi in trasferimenti diretti di bilancio, in sostanza sussidi a fondo perduto, e altri 127,4 in forma di prestiti. È un notevole segno di solidarietà europea ed è un cambiamento di passo da parte dei Paesi della Ue, i quali prendono, se pur in via eccezionale a causa degli effetti della pandemia, la strada della mutualità sia nel raccogliere denaro sui mercati sia nella distribuzione asimmetrica delle risorse (il Governo di Roma è quello che ne riceverà di più).
I 209 miliardi arrivano con una serie di condizionalità: in sostanza devono essere utilizzati per ridurre le debolezze dell’economia e per creare un ambiente favorevole alla crescita sostenibile. E qui sta l’opportunità: avere risorse considerevoli, anche se non infinite, non solo per infrastrutture e progetti “verdi” ma anche per accompagnare riforme che nel breve periodo possono avere effetti di restrizione della crescita prima di dispiegare la loro positività. Le condizionalità poste da Bruxelles dicono che non si tratta di denaro per manovre di corto respiro, per semplice distribuzione, per il mantenimento dell’esistente (men che meno per le politiche di consenso) ma per affrontare il cambiamento: cambiamento che l’economia italiana aveva necessità assoluta di imboccare prima della pandemia e che ora diventa vitale.
L’impegno con l’Ue
Entro la metà di ottobre, Roma dovrà presentare a Bruxelles i suoi piani, rispettosi delle condizionalità insite nel Next Generation EU. A quel punto capiremo se l’opportunità sarà colta. Trattandosi di un impegno di lungo termine – da prendere con gli italiani ma anche con i cittadini dei Paesi europei che tra l’altro ci regalano denaro – è bene che le decisioni e i piani di cambiamento, di riforma e di innovazione vedano la partecipazione di tutte le forze politiche, non solo quelle di Governo. Al momento – agosto 2020 – le idee e le proposte in campo non sono esaltanti: investimenti, certo, ma per ora ancora generici. Il problema è che all’Italia e alla sua economia non bastano tanti soldi da spendere: non solo perché spesso i Governi hanno mostrato di non saperli usare in modo efficiente ma soprattutto perché i denari europei non possono essere utilizzati per evitare di affrontare le questioni centrali per il Paese, cioè le riforme strutturali delle quali si parla da anni e che tutti conoscono (mercato del lavoro, giustizia, amministrazione pubblica, scuola, università, eccetera). Il Recovery Fund può sostenere il varo di queste riforme, e questa è una notevole opportunità. Ma qui, però, si affaccia il rischio.
Se la politica italiana userà i 209 miliardi per evitare scelte di riforma radicali, se li utilizzerà andando avanti come in passato solo con più soldi da distribuire qui e là, il fallimento sarà storico e possibilmente definitivo. Su questo è importante che gli italiani abbiano le idee chiare. I Paesi della Ue hanno deciso di sostenere l’Italia (e altri Paesi in difficoltà) certo per solidarietà ma soprattutto per due motivi. Se, accelerata dalla pandemia, la crisi di lunga storia travolgesse il Paese, il crollo coinvolgerebbe immediatamente la Ue e forse lo stesso euro. Detto in termini più crudi: gli europei donano denaro agli italiani per evitare un colossale fallimento europeo. In secondo luogo, c’è la questione della divergenza tra economie. Se la Germania e altri Paesi si riprendono meglio di altri, perché strutturalmente più forti e con maggiori risorse nazionali a disposizione, i rischi di diverse velocità di ripresa creerebbero tensioni, sia per il mantenimento di medio-lungo periodo del mercato unico europeo sia all’interno della Banca centrale europea che non potrà continuare per sempre a sostenere le finanze pubbliche italiane attraverso l’acquisto di titoli sui mercati.
Il progetto europeo
Detto ancora in altri termini: gli italiani, a cominciare dai partiti, devono avere presente che c’è un progetto europeo per rafforzare la Ue, per farla più unita e più moderna e competitiva. E che l’uscita dell’Italia dal suo lungo declino di produttività e di crescita è parte essenziale di questo sforzo europeo: che se fallisce a Roma fallisce anche a Bruxelles. La responsabilità sulle spalle della politica italiana è dunque enorme. I cosiddetti Paesi “frugali”− quelli guidati da Olanda ma che sui contenuti hanno trovato appoggi anche a Berlino e nella stessa Angela Merkel – hanno comprensibilmente posto il problema del moral hazard: non è che se diamo molti denari all’Italia questa li userà per coprire le sue inconsistenze e non farà i cambiamenti che deve, in attesa di altri aiuti in futuro? Non è che – si sono chiesti e all’Aja si sono anche risposti – l’Italia si ritiene too-big-to-fail, come le grandi banche nella crisi del 2008, e quindi si metterà sulla strada dell’azzardo morale, cioè dell’attesa continua che siano gli altri a pagare per evitare che fallisca?
Naturalmente, ai dubbi europei così come agli attestati di fiducia di AngelaMerkel e di Emmanuel Macron, sarà la politica italiana a dovere dare una risposta e a dimostrare che l’economia del Paese è in grado di camminare da sola. I piani da presentare in ottobre e la loro attuazione nei prossimi anni saranno il banco di prova. Non solo perché Bruxelles e il Consiglio europeo valuteranno i passi intrapresi da Roma, con la possibilità teorica, per quanto non troppo probabile, che sospendano l’erogazione di alcune tranche di aiuti se il programma di riforma italiano si ferma. Ma anche perché prima o poi – più o meno quando il Pil europeo sarà tornato ai livelli del 2019, comunque non prima del 2022 – il Patto di Stabilità, oggi sospeso, in qualche forma riprenderà vita. Non ci si può attendere che da ora in poi la Germania e i Paesi nordici abbandonino la politica dei conti pubblici in ordine.
Politica che – e non è poco – ha consentito loro di avere risorse accumulate in passato da impiegare nel momento della crisi. A quel punto, l’Italia dovrà almeno avere imboccato la strada di una crescita economica decente, di una ridefinizione delle spese dello Stato e di un bilancio pubblico sotto controllo, con il rapporto debito/Pil indirizzato verso il calo. Quando si parla della famosa Resilienza, a Berlino (ma non solo) la convinzione è che la prima resilienza stia nei conti in ordine.
Per la politica italiana, arriva insomma un momento della verità, che la pandemia, le sue conseguenze economiche e sociali e le decisioni europee rendono impossibile da evitare. Responsabilità verso gli italiani ma anche verso gli europei. Questa volta non può sbagliare. Ce la farà?
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
La fase politica è nuova, nuovissima. La politica no: per le logiche nelle quali si muove è sostanzialmente la stessa dei due decenni passati, solo di qualità calante. Se le elezioni politiche italiane del 4 marzo 2018 sono state un fatto di rottura per il sistema dei partiti, la pandemia del 2020 e la non scontata reazione a essa da parte dell’Europa hanno del tutto cambiato i termini del confronto politico, le basi della conversazione nazionale, le fondamenta dei paradigmi su cui era costruita la stagione passata. Il risultato, sommato alla crisi da virus, è per ora una confusione probabilmente mai registrata in tutta la storia repubblicana. C’è però una speranza: il piano per la ripresa Next Generation EU varato dal Consiglio europeo lo scorso 21 luglio. Per l’Italia, i 209 miliardi previsti dal Recovery Fund (parte del Next Generation EU) possono essere una grande opportunità ma sono anche un rischio: è su questo che da ora e per i prossimi mesi e anni si misurerà la capacità del Paese di uscire positivamente dalla crisi.
Next Generation EU
L’opportunità è evidente: nel medio termine, cioè dall’anno prossimo in poi, all’Italia arriveranno da Bruxelles 81,4 miliardi in trasferimenti diretti di bilancio, in sostanza sussidi a fondo perduto, e altri 127,4 in forma di prestiti. È un notevole segno di solidarietà europea ed è un cambiamento di passo da parte dei Paesi della Ue, i quali prendono, se pur in via eccezionale a causa degli effetti della pandemia, la strada della mutualità sia nel raccogliere denaro sui mercati sia nella distribuzione asimmetrica delle risorse (il Governo di Roma è quello che ne riceverà di più).
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