Le prime campagne di vaccinazione alla fine del ‘700 scatenarono sospetto e diffidenza tra la popolazione. E ancora oggi una cattiva informazione alimenta tali scetticismi
Le prime campagne di vaccinazione alla fine del ‘700 scatenarono sospetto e diffidenza tra la popolazione. E ancora oggi una cattiva informazione alimenta tali scetticismi
Nel 2015 un’équipe di scienziati italiani – informatici, matematici, fisici e statistici – dell’Imt Institute for Advanced Studies di Lucca pubblicò sulle pagine della rivista Plos ONE un articolo che avrebbe fatto molto scalpore nei mesi a venire. Si intitolava Emotional Dynamics in the Age of Misinformation e descriveva quantitativamente i comportamenti delle persone che propagano contenuti di disinformazione scientifica (gli autori, nella fattispecie, si erano concentrati sugli utenti dei social network) e, di contro, dei cosiddetti debunker, cioè di coloro che si occupano sistematicamente di smascherare le bufale. Dopo aver analizzato un imponente corpus di contenuti Facebook, gli scienziati, guidati da Walter Quattrociocchi, arrivarono alla conclusione che, in fin dei conti, non c’era poi tanta differenza tra le due tribù (e non è un’iperbole: il lavoro successivo, sempre sullo stesso tema, si chiama per l’appunto Debunking in a World of Tribes): stesso modo di interagire con gli altri, stesse dinamiche emotive, stessa indisponibilità al dialogo. In sostanza, spiegavano Quattrociocchi e colleghi, il popolo del web – che con un approccio un po’ riduzionista e un certo grado di approssimazione si può considerare uno spaccato della società umana – è un conglomerato iper-polarizzato e fortemente omofilo, composto di tantissime “bolle” impenetrabili dall’esterno, i cui occupanti ascoltano solo quello che gli piace sentirsi dire e sono capaci di parlare soltanto alla propria pancia.
Lo scetticismo sulle campagne di vaccinazione
Un problema, quello della polarizzazione delle opinioni, tornato prepotentemente agli onori delle cronache al tempo del Covid-19: mai come in questo momento storico la comunità appare spaccata su questioni di estrema importanza, su cui si giocano la salute pubblica, la tenuta dell’economia, il buon funzionamento della società. C’è di tutto, nel mare magnum delle (dis)informazioni che circolano e rimbalzano, si amplificano e si modificano, si inoltrano e si condividono: dai moderati, se così si possono definire, convinti che il Covid-19 sia poco più di un’influenza e che faccia del male solo agli anziani o a chi soffre di altre malattie, ai complottisti più estremi, quelli che negano l’esistenza stessa del virus o che sostengono che il patogeno sia stato creato artificialmente da eminenze grigie al fine di controllare il mondo. E i dati sulla mortalità, le immagini degli ospedali strapieni, o i camion di Bergamo stipati di bare? Fotomontaggi, macchinazioni, messinscene. L’avvio della campagna di vaccinazione, se possibile, ha esacerbato ancora di più le controversie, il che non è troppo sorprendente, se si tiene conto del fatto che i vaccini sono da sempre il terreno d’elezione per disinformazione e complottismi di ogni sorta.
Niente di nuovo: lo scetticismo sui vaccini è una questione vecchia di anni, ormai. Già le prime campagne di immunizzazione di massa, sul finire del Settecento, provocarono sacche di resistenza nella popolazione, spaventata da questa pratica misteriosa che veniva imposta dalle autorità e che per di più doveva essere effettuata sulle persone sane, il che è psicologicamente molto diverso dall’assunzione di un farmaco quando si è malati, magari in presenza di sintomi manifesti e fastidiosi. A quell’epoca le prime procedure, effettivamente abbastanza invasive e naïf, consistevano nell’inoculazione di pus infetto di origine bovina, e fin d’allora l’attenzione per le libertà individuali provocò la nascita dei primi movimenti anti-vaccinazioni in Inghilterra e negli Stati Uniti.
Le “nuove” ondate di anti-vaccinismo hanno invece un’origine precisa e molto più recente: tutto ebbe inizio nel 1998, quando il medico inglese Andrew Wakefield pubblicò sul Lancet, una delle più prestigiose riviste mediche del mondo, uno studio che segnalava un possibile legame tra somministrazione del vaccino trivalente per morbillo, parotite e rosolia (Mmr) e insorgenza di autismo. Risultati che lo spinsero a chiedere pubblicamente la sospensione della somministrazione del vaccino in attesa di nuove ricerche. E da lì ebbe inizio un’ondata di panico che investì prima l’Inghilterra e poi il mondo. Peccato che, come si scoprì qualche anno più tardi, i risultati di Wakefield non solo erano sbagliati, ma erano stati addirittura contraffatti ad arte per biechi motivi economici. Ma ormai la frittata era fatta: nonostante centinaia di studi successivi smentirono categoricamente l’esistenza della correlazione paventata da Wakefield, il nesso tra vaccini e autismo è ancora uno dei cavalli di battaglia più duri a morire e cari ai no-vax. E torniamo ad avvertirne gli strascichi ancora oggi: ne sono un esempio le proteste in seguito all’introduzione dell’obbligatorietà dei vaccini per l’iscrizione dei bambini a scuola e quelle che si ripetono a ogni inizio della campagna di vaccinazione anti-influenzale.
Lo scetticismo sul vaccino anti Covid
Oltre che, naturalmente, gli scetticismi relativi al vaccino contro il Covid-19: accanto agli ottimisti, che accettano di buon grado (anzi, non vedono l’ora) di farsi vaccinare, ci sono i più cauti, quelli che preferirebbero aspettare di avere più dati a disposizione prima di sottoporsi alla somministrazione, e ancora i no-vax tout court, che rifiutano questa come tutte le altre campagne di immunizzazione facendo appello alla libertà di scelta in materia sanitaria. Le motivazioni di quest’ultima frangia (che, fortunatamente, non è troppo nutrita) sono le solite, al limite del paradossale: oltre al già citato (e smentito) legame con l’autismo, c’è chi sostiene che i vaccini “modificano il Dna umano” (falso: “allenano” il sistema immunitario a conoscere il patogeno) o che “contengono feti abortiti” (falso: quasi tutte le linee cellulari da cui vengono sviluppati i vaccini sono coltivate in laboratorio), o, ancora, che contengono microchip per il monitoraggio da remoto del nostro stato di salute.
Più ragionevoli, invece, sono le considerazioni degli scettici più moderati, tra i quali figurano anche esponenti della comunità scientifica: il virologo Andrea Crisanti, per esempio, a novembre scorso dichiarò pubblicamente che non si sarebbe sottoposto alla vaccinazione senza prima avere in mano i dati che attestavano sicurezza ed efficacia del preparato; poi a gennaio i dati sono arrivati e Crisanti si è effettivamente vaccinato. Una delle obiezioni, per esempio, riguarda la tempistica: dal momento che in media la realizzazione e la sperimentazione di un vaccino richiedono diversi anni, è lecito chiedersi se un vaccino creato in meno di dieci mesi sia efficace. La risposta è che questa volta lo sforzo della comunità scientifica, a causa dell’incombere dell’emergenza, è stato molto più imponente che in passato; e per di più i ricercatori hanno potuto contare sulle competenze accumulate su un coronavirus molto simile a Sars-CoV-2, quello che una ventina di anni fa causò l’epidemia di Sars. Grazie a queste conoscenze è stato possibile individuare in fretta il meccanismo che questo virus usa per eludere le difese delle cellule, iniettare al loro interno il proprio materiale genetico e indurle poi a produrre nuove copie di se stesso, che a loro volta portano avanti l’infezione.
C’è poi la questione della sicurezza: parte degli scettici si chiede se sia stato possibile verificare, in così poco tempo, che i vaccini anti-Covid non siano pericolosi per l’organismo. Possiamo essere ragionevolmente sicuri che sia così: nel complesso, i test clinici per il vaccino di Pfizer–BioNTech, per esempio, hanno interessato oltre 40mila individui, e i dati sono stati rivisti da esperti esterni, da ricercatori indipendenti, da un gruppo consultivo esterno all’ente statunitense che si occupa di sicurezza dei farmaci (la Fda), dalla Fda stessa e dalla sua equivalente europea (l’Ema), nonché dalle autorità sanitarie dei singoli Paesi dove sono state avviate le vaccinazioni. Il tutto accelerando il più possibile i passaggi burocratici, ma non quelli scientifici. E ancora, connesso all’obiezione precedente: gli effetti collaterali non saranno troppo forti e pericolosi? La risposta è ancora no, almeno se comparati ai sintomi della malattia “vera”: dai test clinici e dalle vaccinazioni finora effettuate sono emersi soltanto effetti avversi temporanei e di lieve entità, come dolore nel punto dell’iniezione, mal di testa, brividi e senso di spossatezza. Possiamo stare ragionevolmente tranquilli, insomma, sempre che riusciremo a produrre e somministrare i vaccini alla svelta, senza perdere altro tempo prezioso. Ma questa è un’altra storia.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Le prime campagne di vaccinazione alla fine del ‘700 scatenarono sospetto e diffidenza tra la popolazione. E ancora oggi una cattiva informazione alimenta tali scetticismi
Nel 2015 un’équipe di scienziati italiani – informatici, matematici, fisici e statistici – dell’Imt Institute for Advanced Studies di Lucca pubblicò sulle pagine della rivista Plos ONE un articolo che avrebbe fatto molto scalpore nei mesi a venire. Si intitolava Emotional Dynamics in the Age of Misinformation e descriveva quantitativamente i comportamenti delle persone che propagano contenuti di disinformazione scientifica (gli autori, nella fattispecie, si erano concentrati sugli utenti dei social network) e, di contro, dei cosiddetti debunker, cioè di coloro che si occupano sistematicamente di smascherare le bufale. Dopo aver analizzato un imponente corpus di contenuti Facebook, gli scienziati, guidati da Walter Quattrociocchi, arrivarono alla conclusione che, in fin dei conti, non c’era poi tanta differenza tra le due tribù (e non è un’iperbole: il lavoro successivo, sempre sullo stesso tema, si chiama per l’appunto Debunking in a World of Tribes): stesso modo di interagire con gli altri, stesse dinamiche emotive, stessa indisponibilità al dialogo. In sostanza, spiegavano Quattrociocchi e colleghi, il popolo del web – che con un approccio un po’ riduzionista e un certo grado di approssimazione si può considerare uno spaccato della società umana – è un conglomerato iper-polarizzato e fortemente omofilo, composto di tantissime “bolle” impenetrabili dall’esterno, i cui occupanti ascoltano solo quello che gli piace sentirsi dire e sono capaci di parlare soltanto alla propria pancia.
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