Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, approvato dalla Ue, prevede nel complesso 58 riforme, 132 investimenti e 525 obiettivi, in parte target, in parte tappe da rispettare. Tutto entro il 2026
Non si tratta di spendere. Si tratta di investire. Già questa è una cornice da sistemare attorno al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) preparato dal Governo e approvato dalla Commissione Ue. Investire significa impiegare denaro – nel caso italiano 191,5 miliardi di fondi europei – con l’obiettivo di avere un ritorno. Lo si dice spesso ma questa volta non è semplice teoria o speranza. Il Next Generation EU – 750 miliardi – e il suo strumento principale di attuazione, la Recovery and Resilience Facility da 672,5 miliardi, verranno erogati ai Paesi europei sulla base dei risultati raggiunti, stabiliti in precedenza e vincolanti. Se non si rispettano gli obiettivi e le tappe predefinite per raggiungerli, ci si deve correggere, recuperare o altrimenti rinunciare alle tranche di aiuti. Fa eccezione il primo esborso, il prefinanziamento pari al 13% della cifra totale attesa che verrà versato dopo il Consiglio europeo di fine luglio che darà il via libera alle valutazioni della Commissione sui programmi presentati dai Paesi: per l’Italia saranno poco meno di 25 miliardi, nove in sovvenzioni a fondo perduto, quasi 16 in prestiti.
Il Pnrr è lì, insomma, se non scolpito nella pietra, chiaro e da rispettare. Per questa ragione occorre verificare che i risultati siano reali e raggiunti nei tempi previsti. Per questo motivo è importante la nomina dei sette economisti nel Nucleo tecnico sul coordinamento della Politica Economica presso il Dipartimento per la Programmazione (Dipe) a Palazzo Chigi. Contro la scelta dei sette – cinque uomini e due donne – 150 economisti hanno scritto una lettera a Mario Draghi per contestare la composizione del Nucleo, troppo liberale a loro dire. In realtà, la funzione del Nucleo sarà essenziale proprio nel giudicare l’efficacia delle misure prese, l’impatto degli investimenti effettuati, la coerenza con gli impegni presi con la Ue, oltre ad aiutare i Comuni nella realizzazione di progetti. Il fatto che tra i sette ci siano due figure liberali per fare valutazioni tecniche sull’uso del denaro pubblico proprio nel momento in cui questo denaro di Stato è molto, non è un limite, come dicono i 150, ma è anzi una garanzia di controllo che il denaro dei cittadini europei non venga sprecato e che fondi di Stato non tolgano aria ai fondi dei privati, anzi li stimolino. La funzione del Nucleo sarà dunque di grande rilevanza. Sostenuta, quando ce ne sarà bisogno, dalla Dg Reform di Bruxelles, guidata da Mario Nava, che mette a disposizione le sue competenze per aiutare i Paesi a rispettare obiettivi e tappe di avvicinamento (milestones).
Un’impresa titanica
In effetti, ci vorrà lo sforzo e la collaborazione più ampia per restare sui binari tracciati. L’impresa è qualcosa di mai provato finora. Non tanto per la difficoltà di impiegare i fondi, un business nel quale l’Italia non è mai stata un campione. Soprattutto perché gli investimenti devono avvenire in parallelo e in sintonia con un programma di riforme strutturali poderoso, in sostanza quelle evocate e mai fatte nei decenni passati. Da realizzare in tempi brevissimi. È l’elemento chiave affinché dalla Ue continuino ad arrivare le tranche di fondi previste. Per esempio, dopo i quasi 25 miliardi che arriveranno in estate, entro l’anno ne dovrebbero arrivare altri 24,1, 11,5 in sussidi e 12,6 in prestiti. Ma contemporaneamente e obbligatoriamente, entro dicembre l’Italia dovrà avere messo in campo la riforma della Giustizia civile e penale, la riforma della pubblica amministrazione e quella degli appalti pubblici, le nuove regole sulla spending review, la riforma dei meccanismi di gestione delle insolvenze, la proroga del Superbonus energetico e un intervento di stimolo a favore del turismo. Si tratta di 51 tappe da rispettare.
Mario Draghi e i suoi Ministri sono al lavoro da tempo su questi passaggi ma, come è evidente, si tratta di uno sforzo titanico. Che comunque dovrà andare avanti nel 2022 e negli anni successivi quando però gran parte delle riforme dovrebbero essere avviate. Nei primi sei mesi dell’anno prossimo, arriveranno altri 24 miliardi ma solo a patto che vengano centrate altre 45 milestones: piano per la digitalizzazione della scuola, la riforma delle assunzioni degli insegnanti, l’accelerazione degli interventi per creare efficienza energetica, la promozione di venture capital e di startup finalizzati alla transizione ecologica. Il Pnrr, ora con il timbro della Commissione Ue, prevede nel complesso 58 riforme, 132 investimenti e 525 obiettivi, in parte target in parte tappe da rispettare. Tutto entro il 2026, data di scadenza della Recovery and Resilience Facility.
Oltre ai 191,5 miliardi che se tutto funzionerà arriveranno dall’Europa – 68,9 in sussidi e 122,6 in prestiti a tassi agevolati che andranno a nutrire il debito pubblico – il Governo ha predisposto un Fondo Complementare di 30,6 miliardi che è tutto debito nazionale e altri 26 miliardi da destinare entro il 2032 a opere specifiche e al reintegro delle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione. In tutto, 248 miliardi, un quarto di trilione.
Investimenti e riforme
Il Pnrr vero e proprio destina 82 miliardi al sud del Paese, punta a riparare i danni provocati dalla pandemia da Covid-19, a riequilibrare le divergenze territoriali, a favorire il lavoro e lo studio di donne e giovani, a digitalizzare il Paese e a innescare una crescita economica solida ed ecologicamente sostenibile (oltre che finanziariamente). Per “Digitalizzazione, Innovazione, Competitività e Cultura” prevede 40,7 miliardi (più 8,5 dal Fondo Complementare) con gli obiettivi di portare una connessione web al cento per cento della popolazione entro il 2026, di portare fibra ottica in novemila scuole che ora non l’hanno, di connettere 12 mila punti del Sistema Sanitario. Per “la Rivoluzione Verde e la Transizione Ecologica” sono sul tavolo 68,6 miliardi (dei quali 9,3 dal Fondo) per potenziare il riciclo dei rifiuti (al 55% gli elettrici, al 65% le plastiche, al 100% il tessile, all’85% la carta), per ridurre le perdite di acqua potabile dalle reti idriche, per rendere energeticamente efficienti 50mila edifici privati e pubblici ogni anno, per sviluppare la ricerca e l’uso dell’idrogeno nell’industria e nei trasporti.
Alle “Infrastrutture per una Mobilità Sostenibile” sono destinati 25,1 miliardi dal Pnrr e 6,3 dal Fondo Complementare: per modernizzare e potenziare i treni regionali, per ridurre i tempi di percorrenza su certe tratte ferroviarie (ad esempio Napoli-Bari in un’ora e mezzo, Palermo-Catania in un’ora), per realizzare “porti verdi”. Quasi 32 miliardi andranno a “Istruzione e Ricerca” per la creazione di 228 mila posti negli asili per bambini da zero a sei anni, per ristrutturare scuole, per creare seimila posti di dottorato a partire dal 2021. “Inclusione e Coesione” beneficerà di 22,4 miliardi (dei quali 2,6 dal Fondo) e creerà una dotazione per l’imprenditoria femminile, darà sostegno alle persone vulnerabili, creerà Zone Economiche Speciali. Infine, 18,5 miliardi (di cui 2,9 dal Fondo) per la “Salute”, dove si prevede di creare 1.288 nuove Case di comunità e 381 ospedali di comunità, dove si punta a fornire assistenza domiciliare al 10% di chi ha più di 65 anni, si vogliono creare 602 Centrali operative territoriali per l’assistenza remota e si compreranno 3.133 nuove grandi attrezzature per diagnosi e cura.
Come si vede anche solo con uno sguardo a volo d’uccello, gli investimenti sono enormi, articolati e non certo semplici da realizzare e da verificare nella qualità e nella tempistica. Se si tiene contro che sono strettamente intrecciati al piano di riforme, che poi è il vero cuore della sfida dei prossimi anni, si può avere un’idea di quanto portentosa sia l’operazione. Della quale sono responsabili Mario Draghi, i suoi Ministri ma anche, forse soprattutto, gli italiani. Se tutto funzionerà – prevede il Governo – nel 2026 il Pil del Paese sarà di 3,6 punti percentuali più alto di quanto lo sarebbe senza Pnrr e derivati. Avremo molti debiti. Ma forse avremo rotto la condanna più che ventennale a non crescere.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, approvato dalla Ue, prevede nel complesso 58 riforme, 132 investimenti e 525 obiettivi, in parte target, in parte tappe da rispettare. Tutto entro il 2026
Non si tratta di spendere. Si tratta di investire. Già questa è una cornice da sistemare attorno al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) preparato dal Governo e approvato dalla Commissione Ue. Investire significa impiegare denaro – nel caso italiano 191,5 miliardi di fondi europei – con l’obiettivo di avere un ritorno. Lo si dice spesso ma questa volta non è semplice teoria o speranza. Il Next Generation EU – 750 miliardi – e il suo strumento principale di attuazione, la Recovery and Resilience Facility da 672,5 miliardi, verranno erogati ai Paesi europei sulla base dei risultati raggiunti, stabiliti in precedenza e vincolanti. Se non si rispettano gli obiettivi e le tappe predefinite per raggiungerli, ci si deve correggere, recuperare o altrimenti rinunciare alle tranche di aiuti. Fa eccezione il primo esborso, il prefinanziamento pari al 13% della cifra totale attesa che verrà versato dopo il Consiglio europeo di fine luglio che darà il via libera alle valutazioni della Commissione sui programmi presentati dai Paesi: per l’Italia saranno poco meno di 25 miliardi, nove in sovvenzioni a fondo perduto, quasi 16 in prestiti.