Il governo di Varsavia disconosce platealmente l’autorità Ue, dalla quale riceve finanziamenti essenziali per la sua tenuta. Il 90% della popolazione è contraria a una Polexit
A metà luglio la Corte costituzionale polacca ha stabilito che le modifiche imposte dalla Corte europea di giustizia alle controverse riforme del settore giudiziario varate dall’esecutivo polacco sono incostituzionali. La Polonia non sarebbe, dunque, tenuta a ottemperarvi.
Una sentenza campale, che potrebbe scuotere le fondamenta dell’Ue. Il massimo organo giuridico della Polonia, egemonizzato da giudici considerati vicini al governo conservatore guidato da Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, PiS), ha esplicitamente ribaltato la gerarchia su cui si fonda l’impianto normativo dell’Unione, enunciando la supposta priorità della legge nazionale su quella comunitaria. Il ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro, leader di Polonia Solidale (Solidarna Polska) e tra gli architetti più riconoscibili della riforma del settore giudiziario, ha parlato di un atto legittimo “contro l’interferenza, l’usurpazione e l’aggressione giuridica degli organi dell’Ue”.
Nelle parole di Adam Bodna, difensore civico polacco: “Stiamo assistendo a una Polexit, che sta gradualmente avverandosi per via giuridica”.
La decisione della Corte costituzionale polacca, inoltre, è arrivata poche ore dopo la richiesta, sempre da parte della Corte europea di giustizia, di sospendere la “camera disciplinare” introdotta da Varsavia nel 2018, un organo di nomina parlamentare incaricato di monitorare la condotta dei giudici e dotato della facoltà di comminare punizioni come sospensione, riduzione dello stipendio o revoca dell’immunità. In questo caso, la minaccia di sanzioni pecuniarie da parte della Commissione europea è bastata per costringere l’esecutivo a fare marcia indietro. A denti stretti, il leader del PiS Jarosław Kaczyński ha accettato di bloccare l’attività della camera disciplinare, pur promettendo che verranno escogitati altri metodi per fare in modo che “i giudici agiscano secondo la legge”.
Una vittoria di Pirro per Bruxelles, che non altera la sostanza delle cose: la Polonia si sta deliberatamente collocando al di fuori − o al di sopra − del perimetro legislativo comunitario.
Secondo la Commissione, i provvedimenti intrapresi dall’esecutivo targato PiS, salito al potere nel 2015 e riconfermato nel 2019, mirano ad annullare l’indipendenza del potere giudiziario, soggiogandolo a quello esecutivo. Secondo gli ultranazionalisti polacchi, misure come la camera disciplinare per i giudici sarebbero invece doverose per contrastare la corruzione ed estromettere dalle corti del paese tutti i funzionari che hanno collaborato con il regime comunista (la cosiddetta campagna di “lustrazione”), regime ufficialmente terminato in Polonia da più di tre decenni.
Qualunque delle due versioni si abbracci, al momento tutti concordano su un fatto: una Polexit effettiva, sul modello Brexit, resta uno scenario inverosimile. Per almeno due ragioni.
La prima: la maggioranza della popolazione è fermamente contraria all’ipotesi secessionista. Come nel resto dei paesi dell’ex blocco comunista, anche in Polonia la critica all’Ue non si accompagna alla volontà di abbandonarla. Secondo l’agenzia di sondaggi CBOS, dal 2005 − l’anno dopo l’entrata nell’Ue della Polonia − almeno il 70% dei polacchi è sempre rimasto a favore della permanenza nel blocco. Dalla salita al governo del PiS, la percentuale è cresciuta, toccando il 90% nel 2019.
La seconda: la Polexit non conviene nemmeno al governo. Non esistendo nel corpus normativo dell’Ue meccanismi giuridici che permettano l’espulsione di uno Stato dall’Unione, PiS e sodali sanno di poter tirare la corda senza pagare un prezzo particolarmente elevato. Certamente non sul piano politico, visto che la loro base ha già da tempo digerito, quando non incentivato, la postura sovranista ed euroscettica, ma neanche sul piano finanziario. Da notare, infatti, che questo stallo alla polacca, potenzialmente micidiale per il futuro del blocco, si è prodotto solo pochi mesi dopo l’introduzione del rispetto dello “Stato di diritto” tra i criteri per l’assegnazione dei fondi del prossimo bilancio pluriennale (2021-2027). Un’innovazione che, secondo i fautori, avrebbe dovuto attenuare le velleità degli aspiranti autocrati al potere nei paesi membri, in primis dei due osservati speciali: oltre al PiS di Kaczyński, la Fidesz di Viktor Orbán, in Ungheria.
In virtù della sua taglia e della sua popolazione, la Polonia è da sempre lo Stato che più beneficia dalla redistribuzione dei fondi comunitari; nel 2018 ha realizzato un disavanzo positivo di 11 miliardi di euro. Sono queste risorse che permettono all’esecutivo di lanciare le iniziative munifiche su cui basa gran parte del proprio consenso popolare, come per esempio il noto “programma 500+”, che prevede un sussidio mensile di 500 złoty (circa 110 euro) per ogni figlio a partire dal secondo fino al compimento dei 18 anni.
Detta in breve, l’Ue sovvenziona direttamente le politiche di un governo che ora disconosce platealmente l’autorità stessa dell’Ue.
Secondo Laurent Pech, professore di diritto europeo alla Middlesex University, la Commissione dovrebbe allora battere proprio sul tasto finanziario, imponendo una multa quotidiana a Varsavia e congelando lo sblocco dei fondi fino a quando non sarà ristabilita la primazia del diritto comunitario.
Al momento è difficile capire quale sia la strategia di PiS e alleati, ammesso che esista. Interpellato sul tema, il premier Mateusz Morawiecki ha scongiurato categoricamente la possibilità di un’uscita della Polonia dall’Ue, accusando le opposizioni di fomentare questa paura infondata (“una fantasia politica”) solo a scopi propagandistici. Morawiecki ha spiegato che il governo starebbe soltanto “tutelando le aree in cui, come altri paesi, al momento dell’adesione non abbiamo accettato di cedere sovranità all’Ue”.
Una ricostruzione capziosa. Il primato del diritto comunitario su quello nazionale non è esplicitato nei Trattati (vi è solo un allegato ad hoc al Trattato di Lisbona), ma è stato sviluppato dalla giurisprudenza della Corte europea di giustizia nel corso di più di mezzo secolo. A partire dalla celebre sentenza Van Gend en Loos contro Nederlandse Administratie der Belastingen del 5 febbraio 1963, che obbligava gli Stati membri (della Comunità economica europea, all’epoca) a integrare nel proprio sistema normativo le leggi varate dalle istituzioni comunitarie, questo principio non è mai stato contestato apertamente. Anche Stati, come l’Ungheria, che hanno violato e continuano a violare programmaticamente le norme comunitarie nella prassi hanno comunque sempre agito all’interno di una cornice legalista, dove la legislazione Ue viene formalmente rispettata.
Riguardo la tutela dell’indipendenza del potere giudiziario, l’oggetto del contendere in questo specifico frangente, è generalmente accettato che si tratti di una componente intrinseca di quello Stato di diritto tutelato dall’articolo 2 del Trattato dell’Unione europea. È inoltre menzionato in molte fonti secondarie del diritto comunitario, come all’articolo 21 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Rappresenta quindi uno dei capisaldi della giurisdizione Ue. Tanto che Piotr Hofmański, dallo scorso marzo presidente del Tribunale Penale Internazionale, ha dichiarato che con l’attuale sistema giudiziario la Polonia non avrebbe mai potuto essere ammessa nell’Unione.
I leader dei 27 paesi membri partecipano direttamente all’elaborazione collettiva delle norme valide per tutto il blocco, specialmente confrontandosi nella burrascosa arena del Consiglio europeo, dove vengono negoziate e plasmate concretamente le politiche europee − comprese le varie deroghe accordate a singoli Stati (gli “opt-out”). Una volta che queste politiche vengono implementate dalla Commissione, uno Stato non può esimersi dal rispettarle selezionando à la carte solo quelle che ritiene più convenienti. Diventerebbe impossibile, in tal caso, sviluppare alcuna azione comune.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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Una sentenza campale, che potrebbe scuotere le fondamenta dell’Ue. Il massimo organo giuridico della Polonia, egemonizzato da giudici considerati vicini al governo conservatore guidato da Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, PiS), ha esplicitamente ribaltato la gerarchia su cui si fonda l’impianto normativo dell’Unione, enunciando la supposta priorità della legge nazionale su quella comunitaria. Il ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro, leader di Polonia Solidale (Solidarna Polska) e tra gli architetti più riconoscibili della riforma del settore giudiziario, ha parlato di un atto legittimo “contro l’interferenza, l’usurpazione e l’aggressione giuridica degli organi dell’Ue”.