Una proposta per frenare il “global warming” lascia freddo l’establishment scientifico.
L’idea è di schermare il Pianeta dai raggi solari per rallentare l’incalzante riscaldamento globale.
È una sorta di esperimento planetario i cui rischi sono imprevedibili e globali, ma per alcuni è una possibile via d’uscita dalla crisi climatica che si prospetta. In termini tecnici si parla di “geoengineering solare”, o di “gestione della radiazione solare”, e nasce dall’osservazione della natura: così come i vulcani sono in grado di raffreddare il pianeta eruttando in pochi giorni immense quantità di polveri sospese e altre sostanze nell’atmosfera, un rilascio controllato di solfati (o altro) potrebbe schermarci dai raggi solari. Non molto, ma forse abbastanza.
Ci è riuscito il vulcano filippino Pinatubo nel 1991, quando sputò 10 milioni di tonnellate di anidride solforosa nell’atmosfera, formando degli aerosol capaci di abbassare le temperature globali di quasi un grado per circa un anno. Ma si parla di eruzioni colossali, ancora più eccezionali di quella dell’islandese Eyjafjallajokull a cui si deve, invece, una modesta riduzione delle emissioni di CO2 grazie al blocco dei voli nei cieli europei, ma le cui emissioni non hanno avuto impatto sul clima terrestre.
La vita degli aerosol atmosferici è limitata e dopo un anno o due l’effettovulcano termina.
È vero però che il loro impatto sul clima è stato sottovalutato. Tanto che le emissioni vulcaniche spiegherebbero, seppure solo in parte, la discrepanza tra le temperature osservate – più fresche – e quelle invece previste dai climatologi durante la decade passata.
In uno studio pubblicato sulla rivista Nature Geoscience, Benjamin Santer, del Lawrence Livermore National Laboratory (Usa), calcola infatti che le eruzioni dal 1998 ad oggi spiegherebbero almeno il 15% della differenza tra le temperature misurate e quelle attese. Il risultato è stato ricevuto con sollievo dai proponenti dell’effetto serra, in affanno per le previsioni “bucate” degli ultimi anni. Se dunque i vulcani sono in grado di raffreddare il pianeta, non potremmo farlo anche noi, perfino – propone qualche entusiasta – facendoli eruttare artificialmente?
La tentazione è grande, ma Santer – e con lui molti altri scienziati – è convinto che imitare i vulcani sia pericoloso: “Un intervento di questo tipo, anche se fosse di successo nel rallentare il riscaldamento globale, avrebbe conseguenze imprevedibili sull’ambiente.”
Secondo David Keith, dell’Università di Harvard, controllare l’atmosfera artificialmente è invece possibile. Dice infatti che un moderato impiego di queste tecniche ridurrebbe i rischi climatici. Per Keith: “Ci sono diverse sostanze che potremmo mettere nella stratosfera, per esempio i solfati, di cui conosciamo bene il comportamento e gli svantaggi, ma ci sono anche altre sostanze, forse perfino più efficaci di cui ancora sappiamo poco”. Per esempio il sale, che immesso in alcune particolari nubi marine le renderebbe più riflettenti. Lo studioso ammette che queste tecnologie andrebbero usate con cautela “e comportano dei rischi”.
Ma, anche vista l’incapacità finora dimostrata dai governi dei paesi industrializzati di trovare soluzioni radicali e alternative, il “piano B” delle geoingegnerie potrebbe meritare attenzione. Keith e altri scienziati ripetono con insistenza che il metodo sarebbe economico, rapido, ed efficace. Termini, questi, che rimbalzano e si amplificano nei palazzi dei governi. Le incertezze sono molte. Per esempio l’effetto sul buco dell’ozono potrebbe essere devastante. Per non parlare poi degli aspetti etici e politici: chi ha il diritto di decidere di iniziare un esperimento di tale impatto, e a scala globale? Per altri, puntare sul geoengineering potrebbe inoltre distrarre dall’occuparsi del problema di fondo: ovvero quello di ridurre, drasticamente, le emissioni di gas-serra.
“La discussione su queste tecniche è sempre più accesa”, spiega Dane Scott, dell’Università del Montana, che dice: “Il discorso ha mantenuto finora un profilo modesto, anche per la mancanza di ricerche sostanziose. La gestione della radiazione solare è relativamente economica e fattibile, ma la sua applicazione rimane carica di incertezze”. Ad esempio, dice Scott: “Abbassando le temperature medie con un progetto di ingegneria solare potremmo modificare i cicli monsonici e le piogge in alcune regioni, con impatti importanti sulla agricoltura e sugli ecosistemi delicati.”
Ora però giungono i primi studi sull’efficacia teorica del geoengineering, e sono tutt’altro che ottimisti. In una ricerca pubblicata sempre su Nature, David Keller, della Helmholtz Centre for Ocean Research di Kiel (Germania), ha valutato cinque tecnologie di geoengineering, tra cui gli aerosol stratosferici. Secondo Keller e colleghi queste tecnologie non sarebbero in grado di impedire il superamento della soglia dei 2°C in più di temperatura superficiale prevista per il 2100. Insomma, anche l’uso combinato di più tecnologie non ci metterebbe al riparo dai rischi del cambiamento climatico. Inoltre, dice ancora Keller, potrebbero invece produrre “seri effetti collaterali”. John Shepher, dell’Università di Southampton (Gran Bretagna) commenta: “Questo lavoro conferma che il geoengineering non è una ‘pallottola magica’ che ci salverà dal riscaldamento globale” e sottolinea che i metodi che modificano i sistemi biologici o chimici della Terra non possono che avere seri effetti collaterali.
Da “pallottola magica” le soluzioni di gestione della radiazione solare si potrebbero trasformare in “fuoco amico.”
Una proposta per frenare il “global warming” lascia freddo l’establishment scientifico.