In un quadro di sostanziale stabilità, la domanda di un ricambio della classe dirigente è cresciuta negli ultimi anni e raramente ha trovato soddisfazione
Le elezioni per la Duma non sono mai state molto significative. Non durante il decennio di Boris Yeltsin (1991-2000), quando il pluralismo era più accentuato, e sempre meno nel corso del ventennio putiniano (2000-oggi), in cui l’irrigidimento della “democratura” russa, con la marginalizzazione del Parlamento e l’opposizione sistemica a fare sempre più il gioco dei poteri forti e di Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, ha contribuito alla perdita di importanza del voto nazionale per l’assemblea legislativa. Ciò nonostante hanno rappresentato almeno una volta, nel 2011, il punto di partenza per le forti proteste della variegata parte dell’elettorato anti sistemico: in quell’occasione le elezioni e le grandi manifestazioni di piazza hanno coinciso con il ritorno di Putin al Cremlino dopo la staffetta con Dimitry Medvedev (2008-2012), fattore determinante per l’accensione della miccia di quella era stata definita da alcuni come una primavera russa e poi si era dissolta ovviamente nel nulla.
Le possibilità che dieci anni dopo la storia si ripeta sono tutto sommato remote, in primo luogo perché la Russia negli ultimi anni ha adottato un modello più autoritario dove lo Stato si sta impegnando per il controllo e la repressione, più stringente della “democrazia sovrana” teorizzata da Vladislav Surkov tre lustri fa; in secondo luogo perché non si scorge ora come possa brillare una scintilla in grado di avviare un cambiamento radicale. La vicenda di Alexey Navalny, figura di riferimento di un lembo dell’opposizione extraparlamentare, elevato a rivale numero uno di Putin dalla stampa occidentale e finito nelle patrie galere, è solo l’esempio di come i poteri forti, al e nei dintorni del Cremlino, trattano gli avversari scomodi e rumorosi, non certo però la rappresentazione di una realtà manichea di un paese diviso in buoni e cattivi, dove il principe del Male è Vladimir Putin e l’eroe del Bene appunto Alexey Navalny.
La Russia è molto più complessa di come viene descritta in Occidente e il Cremlino ha più torri e corridoi di quanti non se ne vedano: la struttura di potere non è monolitica e non guardare sotto la punta dell’iceberg serve solo alla propaganda. I russi stessi sono i primi testimoni di tutto questo, partendo dal fatto che la stragrande maggioranza di loro (il 62% secondo i dati di un’indagine del Levada Center di luglio), disapprova le attività di Navalny, mentre il 14% è a favore. I valori negativi sono addirittura quasi raddoppiati dal 2013. Le cifre, a cui se ne possono aggiungere altre dello stesso tono, stridono con l’immagine diffusa all’estero di un popolo russo soffocato da Putin e bisognoso dell’aria fresca di Navalny. Non solo: i rating del Presidente sono stabilmente al di sopra del 60%, dopo il tonfo, si fa per dire, di un anno fa, quando erano scesi al 59%. In aggiunta, per sottolineare la fiducia dell’elettorato nel sistema Putin, va detto che dal gennaio 2020, da quando cioè Mikhail Mishustin ha sostituito al governo Medvedev dopo 8 anni, anche il Primo Ministro è sempre sopra il 50% e ha invertito il rapporto negativo del suo predecessore. L’80% dei russi non ha nessuna intenzione di scendere in piazza per questioni politiche, il 16% è disposto a farlo.
Non pare insomma che la situazione in Russia nell’estate prima delle elezioni sia esplosiva o la nazione sia in preda a crisi politico-sociali irreversibili. Presidente e governo godono di buona fiducia, l’umore nel Paese risponde alla classica esigenza di stabilità, o paura del cambiamento, che contraddistingue i russi. Navalny in carcere non è certo una spina nel fianco sanguinante del Cremlino e anche se il suo caso, a corrente alternata, continuerà a intralciare simbolicamente i rapporti tra Mosca e Occidente, non influenzerà più di tanto le questioni interne russe, almeno sul breve periodo e finché comunque verrà tenuto fuori dai giochi di potere e non troverà forti alleati anche all’interno del sistema. La cornice internazionale vede Mosca in prima fila tra i player senza i quali non si possono risolvere le crisi, dalla Libia alla Siria, dall’Ucraina all’Iran e ovviamente all’Afghanistan. In più, l’emergenza Covid, sebbene tra luci e ombre nella gestione da parte delle autorità e nel complicato approccio della popolazione, non pare aver inciso molto, né nel rapporto tra stato e società, senza cioè esasperazioni e divisioni, né sul lato economico.
Secondo l’ultimo rapporto della World Bank l’economia russa crescerà nel 2021 e nel 2022 del 3,2%, nel 2023 del 2,3%. Passi piccoli, sufficienti però a recuperare il terreno perduto durante gli ultimi due anni a causa della pandemia e in un contesto mondiale analogo, dove l’economia mondiale ha perso in media il 3,8%, il 5,4% se si guardano solo i paesi avanzati. La ripresa dovrebbe essere sostenuta anche dai prezzi del petrolio in rialzo, dall’aumento dei consumi delle famiglie e degli investimenti pubblici. Per gli analisti della Banca mondiale la buona performance dell’economia russa nel contesto internazionale si deve agli sforzi di stabilizzazione macro economica fatti sotto Putin anche negli ultimi anni, soprattutto da quando il Paese è stato colpito dalle sanzioni occidentali avviate dopo la crisi ucraina del 2014, che hanno portato a migliori risultati di bilancio. Inoltre si è registrata una maggiore regolamentazione e supervisione nel settore bancario, con capitali rafforzati e aumentate riserve di liquidità; i legami più stretti con la Cina, anche a causa del boicottaggio sul fronte occidentale, hanno offerto più slancio e l’ampio settore pubblico ha fatto da tampone contro la disoccupazione. Se i salari medi reali sono aumentati nel biennio 2019-20, il reddito disponibile pro capite è stato invece rosicchiato dalla crisi. Al momento circa il 12% dei russi vive sotto la soglia di povertà (era quasi il 25% nel 2002, oltre il 40% nel 1999), il nuovo piano nazionale prevede di arrivare al 6% nel 2030. Detto in soldoni, la Russia di Putin, pur soffrendo delle solite malattie strutturali, dalla “Dutch disease” alla corruzione dilagante, non sembra essere proprio sull’orlo della catastrofe, almeno per ora.
Il quadro economico, insieme a quello politico, consente dunque all’inquilino del Cremlino di dormire in fondo sonni tranquilli. Benché rigido e invecchiato, il sistema Putin è ancora solido e se da un lato dà segnali di stanchezza, non mancano quelli di rinnovamento, anche se l’impressione di fondo è che il nodo chiave del passaggio di potere dalla vecchia generazione a quella nuova, come accaduto con Yeltsin-Putin tra il 1998 e il 2000, non sia ancora stato risolto. La competizione tra i gruppi di potere nella quale il presidente in questi anni è stato arbitro e mediatore continua ad andare a corrente alternata verso l’appuntamento fondamentale, quello sì, delle elezioni presidenziali del 2024. Il voto alla Duma da questo punto di vista si inserisce nella fase di transizione in cui il Cremlino crede ancora nella vecchia guardia, visto che i due candidati di punta di Russia Unita sono il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov e quello della difesa Sergei Shoigu. Accanto alla sorpresa Mishustin, tirato fuori dal cilindro meno di due anni fa, sono comunque le pedine più affidabili per Vladimir Putin nel cementare il consenso in parlamento.
È certo però anche che la fiducia verso il partito del Cremlino non sarà quasi totale come è stato nel passato. Soprattutto nelle metropoli, da Mosca e Pietroburgo, ma anche all’est del paese, la domanda per un ricambio della classe dirigente è cresciuta negli ultimi anni e solo raramente ha trovato soddisfazione. Troppo poco per una rivoluzione, ma abbastanza per fa scattare il campanello d’allarme: Putin, al di là dei compromessi con l’opposizione sistemica di liberaldemocratici, comunisti e socialdemocratici, dovrà trovare in qualche modo un equilibrio con le spinte extraparlamentari che verranno nei prossimi mesi e anni.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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Le possibilità che dieci anni dopo la storia si ripeta sono tutto sommato remote, in primo luogo perché la Russia negli ultimi anni ha adottato un modello più autoritario dove lo Stato si sta impegnando per il controllo e la repressione, più stringente della “democrazia sovrana” teorizzata da Vladislav Surkov tre lustri fa; in secondo luogo perché non si scorge ora come possa brillare una scintilla in grado di avviare un cambiamento radicale. La vicenda di Alexey Navalny, figura di riferimento di un lembo dell’opposizione extraparlamentare, elevato a rivale numero uno di Putin dalla stampa occidentale e finito nelle patrie galere, è solo l’esempio di come i poteri forti, al e nei dintorni del Cremlino, trattano gli avversari scomodi e rumorosi, non certo però la rappresentazione di una realtà manichea di un paese diviso in buoni e cattivi, dove il principe del Male è Vladimir Putin e l’eroe del Bene appunto Alexey Navalny.