Guido Talarico ha intervistato Shahrbanoo Sadat, scrittrice e regista afghana di 31 anni che è riuscita a scappare da Kabul
È scappata miracolosamente da Kabul. Una fuga dilaniante, perché avrebbe voluto portare via con sé un centinaio di persone e invece è toccato a lei salvare i 50 che sono partiti e condannare i 50 che sono restati.
Lei è Shahrbanoo Sadat, una regista e scrittrice afghana di 31 anni. Una giovane donna di successo, un’intellettuale che rappresenta l’altra faccia dell’Afghanistan. Nata a Teheran ma cresciuta a Kabul, Sadat ha studiato all’Atelier Varan, un’istituzione culturale della capitale afghana. Il suo primo lungometraggio “Wolf and Sheep”, girato nel 2010 grazie alla collaborazione con la Cinéfondation di Cannes quando era appena ventenne, l’ha fatta diventare la più giovane regista mai selezionata. Il film ha vinto il premio principale alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2016. Il suo secondo lungometraggio “The Orphanage”, film attualissimo ripresentato durante il Festival del Cinema di Villa Medici attualmente in corso, è la seconda parte di una pentalogia basata su un diario inedito di Anwar Hashimi. La incontriamo proprio nell’Accademia di Francia a Roma. Ci sediamo sugli scalini del palco prima che un’altra giornata di proiezioni cominci. Lei è un fiume in piena, come solo le grandi donne sanno essere. Trasuda energia, rabbia e speranza.
“In Afghanistan oggi c’è morte e disperazione – racconta – ma anche tanta speranza. Io sono una figlia dell’11 settembre. Quella data per me e per la mia generazione è il simbolo del ritorno a casa. E gli ultimi vent’anni non sono stati inutili. La gente è cambiata, ha riscoperto cose che con i Talebani erano andate perdute. Abitudini di vita che oggi è impossibile fermare. E allora dico che dopo questo terribile abbandono occidentale i primi a dover reagire devono essere gli afghani. Devono farsi sentire, reagire all’oppressione, battersi per le proprie libertà. So che non sarà facile. I Talebani sono terroristi che usano la forza e lo fanno soprattutto contro le donne. Ma ho speranza, ho ancora tanta fiducia nella mia gente”.
Lei è una donna simbolo, rappresenta le afghane di nuova generazione colte e affermate nel mondo del lavoro. Per questo ruolo forse ha una responsabilità in più. Come la vive?
Le donne della mia generazione, ma anche quelle più grandi, sono diverse da quelle di ieri. Sono cambiate. Hanno consapevolezza del proprio ruolo. Questi venti anni di maggiore libertà hanno tracciato un solco profondo. Non rinunceranno facilmente alle loro prerogative: alla formazione, al lavoro, alla libertà individuale. Sarà uno dei territori di maggiore scontro con i talebani. Se ci fate caso questo nuovo atteggiamento già emerge nei tanti video che arrivano da Kabul. Le donne sfilano a viso scoperto, protestano, parlano con i Talebani. Fanno domande! Tutte cose che non avrebbero mai fatto prima. È un cambiamento irreversibile. Certo, ci sarà uno scontro e sarà duro. Ma io confido nell’irreversibilità di questo cambiamento.
L’atteggiamento moderato dei Talebani di queste prime settimane sembra più una scelta tattica, un modo per tranquillizzare l’occidente. In realtà già si scorgono vari segnali della loro brutalità. Lei cosa ne pensa?
Non sono cambiati. Sono sempre gli stessi: terroristi che gestiscono il potere con la forza. Si, i primi segnali li mostrano meno aggressivi, ma nella realtà sono brutali come sempre. Hanno questo atteggiamento perché devono prendere in mano il paese e hanno bisogno della popolazione quindi si mostrano meno cattivi del solito. Ma, lo ripeto, anche per loro non sarà facile. Dovranno fare conti con una mentalità cambiata. E le mentalità non si affogano nel sangue.
Come considera la decisione americana di lasciare l’Afghanistan e di farlo negoziando a Doha direttamente con i Talebani?
Gli americani fanno sempre quello che gli pare. Sono venuti qui venti anni fa ed è stato un bene perché ci hanno liberato da questa gente, ma poi hanno impiegato male il tempo della loro occupazione. Hanno costruito molto poco. L’accordo firmato a Doha è una duplice follia perché ha regalato a loro il Paese, delegittimando allo stesso tempo il governo esistente. Un messaggio che di fatto ha ucciso ogni tentativo di resistenza e provocato una fuga generale.
L’evacuazione invece come è stata gestita? Lei come l’ha vissuta?
Un dramma, uno stillicidio. Le liste di gente autorizzata a partire sono cominciate a luglio. Naturalmente solo vip e persone vicine agli occidentali. È stato terribile, famiglie divise, scene di disperazione per le strade, l’assalto all’aeroporto. Anche per me è stata molto dura. Ero combattuta. Da un lato volevo restare lì per essere da esempio, per unirmi alla lotta di chi è restato. Dall’altra parte sapevo che a restare avrei rischiato moltissimo e forse continuando a fare il mio lavoro anche da fuori avrei potuto dare un aiuto maggiore. In tutti casi è stato terribile. Ho dovuto fare scelte molto difficili.
Cosa può fare oggi l’Europa per aiutare il popolo afghano?
L’Europa si è accodata alle scelte americane. La prima cosa da fare è non riconoscere il Governo talebano. È importante, un gesto concreto di solidarietà. La seconda è continuare ad accogliere i profughi, a sostenere gli afghani. Avranno bisogno di sentirsi ascoltati, aiutati.
E Cina, Russia, Pakistan e Iran? Che ruolo giocheranno?
Hanno posizioni diverse. La Russia riconoscerà il Governo talebano, non vede l’ora. Cina, Pakistan e Iran faranno gli interessi loro. La Cina ha già inviato 31 milioni di aiuti, dà soldi per avere controllo. Tenteranno tutti di fare quel che hanno sempre fatto: utilizzare l’Afghanistan come il loro playground.
È fiduciosa sul futuro dell’Afghanistan?
Si. Ho fiducia. Ce la possiamo fare. La gente deve seguire l’esempio delle donne. Deve scendere in piazza manifestare la voglia di difendere i propri diritti, le proprie libertà. Sarà dura. Pagheremo prezzi altissimi. Ma noi per primi dobbiamo fare capire che l’Afghanistan non è dei Talebani.