Singapore: intenso e frontale lo Shangri-La Dialogue
Per tre giorni, oltre 600 delegati da 49 paesi presenti al massimo summit di sicurezza dell'Asia-Pacifico, hanno assistito alle manovre contrapposte delle due grandi potenze, Stati Uniti e Cina. È la loro relazione ad aver dominato la scena.
Per tre giorni, oltre 600 delegati da 49 paesi presenti al massimo summit di sicurezza dell’Asia-Pacifico, hanno assistito alle manovre contrapposte delle due grandi potenze, Stati Uniti e Cina. È la loro relazione ad aver dominato la scena.
Chi sperava in segnali di disgelo dallo Shangri-La Dialogue di Singapore è rimasto deluso. Una rapida e cordiale stretta di mano prima della cena di apertura è stato l’unico contatto noto tra Lloyd Austin, segretario alla Difesa degli Stati Uniti, e Li Shangfu, ministro della Difesa cinese. Nessun bilaterale, tante critiche e nessuna concessione in vista, con anzi i due impegnati a indicare il rivale come fonte di instabilità. Per tre giorni, oltre 600 delegati da 49 paesi presenti al massimo summit di sicurezza dell’Asia-Pacifico, hanno assistito alle manovre contrapposte delle due grandi potenze, Stati Uniti e Cina. È la loro relazione ad aver dominato la scena, dopo che lo scorso anno si era parlato molto di più di Ucraina.
D’altronde, come ha detto l’alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la sicurezza Josep Borrell durante una delle sessioni plenarie, “in Europa abbiamo una guerra. Ma il centro della competizione globale è qui, nell’Indo-Pacifico”. Da Singapore si esce non coi segnali di disgelo previsti da Joe Biden al termine del G7, ma semmai con la solidificazione di due linee contrastanti. E per i padroni di casa di Singapore “in larga parte inconciliabili”, come affermato dal primo ministro in pectore della città-stato, Lawrence Wong. La sensazione è che, preso atto della divaricazione di prospettive, si lavori non tanto alla ricerca dell’armonia ma alla stabilizzazione della disarmonia. Non un caso che sia nel discorso di apertura di John Chipman (direttore dell’IISS, l’istituto che organizza da 20 anni il vertice) e di Ng Eng Hen (ministro della Difesa di Singapore) si siano richiamati ai “lati positivi” della guerra fredda, come lo stop alla corsa nucleare e i paletti stabiliti per evitare che il confronto si trasformasse in conflitto.
La prospettiva americana
Praticamente tutte le conversazioni pubbliche e private negli ampi e lussuosi locali dello Shangri-La, l’hotel simbolo della diplomazia di Singapore, erano concentrate su questo: le relazioni tra Washington e Pechino. Il discorso di Austin, intitolato “la leadership americana nell’Indo-Pacifico”, è teso a rivendicare la posizione di guida degli Stati Uniti nella regione. Il capo del Pentagono ha elencato tutte le attività di sicurezza nell’area, compresi i nuovi accordi e sviluppi facilitati in qualche modo dalla guerra in Ucraina: rafforzamento dei rapporti militari col Giappone, estensione dell’ombrello nucleare con la Corea del Sud, AUKUS con i sottomarini a propulsione nucleare (e “non con armi nucleari”, ha tenuto a sottolineare rispondendo alle accuse cinesi), accesso a nuove basi militari delle Filippine, vaste esercitazioni congiunte con tutti gli alleati e accordo di sicurezza con Papua Nuova Guinea. Poi ha sottolineato anche il riavvio dei rapporti tra Tokyo e Seul, esaltando il valore della cooperazione trilaterale dei due vicini della Cina. Promettendo una maggiore disponibilità nel trasferimento tecnologico militare e una maggiore interoperabilità delle rispettive forze armate. Poi è passato all’attacco sui “tentativi di cambiare lo status quo” nel mar Cinese meridionale e nel mar Cinese orientale, citando le manovre nei pressi dei vari paesi del Sud-Est asiatico e del Giappone. Con riferimenti a “manovre non professionali”, in riferimento al recente incontro ravvicinato tra jet sul mar Cinese meridionale.
Ma il principale nodo della discordia sulle due potenze, come noto, è Taiwan. “Un conflitto sullo Stretto di Taiwan sarebbe devastante, l’economia mondiale dipende dallo status quo”, ha avvisato Austin, internazionalizzando sempre di più una questione che la Cina considera interna. Austin ha garantito che gli Usa “mantengono la stessa linea, in linea con la politica dell’unica Cina e il Taiwan Relations Act. Siamo impegnati a preservare lo status quo e ci opponiamo a cambi unilaterali da entrambe le parti”. Cioè, si implica: un’azione militare cinese e una dichiarazione di indipendenza formale di Taiwan. Ma la delegazione cinese lamenta la mancata esplicitazione di questo secondo punto, che nel 2022 c’era stata ed è mancata anche nel documento finale del G7 di poche settimane fa a Hiroshima: “Non supportiamo l’indipendenza di Taiwan”. Ma Austin in realtà non cita nemmeno le esercitazioni di Pechino intorno a Taiwan dopo la visita di Pelosi e quelle più recenti. Nel 2022 aveva invece citato le manovre aeree e navali di Pechino, mettendo in dubbio la volontà cinese di mantenere lo status quo e collegando direttamente il fronte ucraino a quello taiwanese. Non sfugge questo elemento ad alcuni osservatori cinesi presenti a Singapore, che descrivono l’intervento come “meno duro” del precedente, “segnale che vogliono provare a parlare”.
Quando ha tenuto il suo discorso, Austin ancora non sapeva della collisione sfiorata tra una nave da guerra cinese e un cacciatorpediniere americano nello Stretto, un segnale che Pechino intende reiterare con maggiore forza la sua pretesa di sovranità. Cercando di trasformare sempre più lo Stretto in una sorta di “mare interno”, come già si evinceva dalle recenti esercitazioni militari svolte dopo l’incontro in California tra la presidente taiwanese Tsai Ing-wen e lo speaker del Congresso americano Kevin McCarthy. Ma il capo del Pentagono sostiene di essere convinto che un conflitto “non è imminente, né inevitabile”. Ma lancia un appello al dialogo: “Il momento giusto per parlare è qualsiasi momento, il momento giusto per parlare è ogni momento, il momento giusto parlare è adesso”. E ancora: “Più parliamo e più possiamo evitare incidenti che rischiano di portarci a un conflitto”.
La prospettiva cinese
Il giorno dopo il discorso di Austin, è stata la volta della risposta di Li Shangfu, al suo primo discorso da ministro di fronte a una platea internazionale. Come ampiamente previsto, Li comincia illustrando i principi della Global Security Initiative, il programma lanciato da Xi Jinping lo scorso anno: “mutuo rispetto” e “opposizione all’egemonismo”, equità contro la “legge della giungla”, richiamo ai principi della carta delle Nazioni Unite e no alla “mentalità da guerra fredda”. Tutti punti già noti della posizione cinese, che trovano da qualche mese una sistematizzazione sotto l’ombrello della GSI. Molte domande retoriche dirette a presentare gli Usa come agente di instabilità: “Chi sta minando la stabilità? Quali sono le radici di caos e instabilità?”. Li respinge l’ipotesi di una Nato asiatica e di un confronto tra blocchi. “Le strategie sul cosiddetto Indo-Pacifico non dovrebbero contenere elementi ideologici e alleanze militari contro minacce immaginarie o si rischia di arrivare a una profezia che si autoavvera”. Li esalta poi il ruolo di stabilità economica garantito dalla Cina alla regione. Molto breve il passaggio sull’Ucraina, in cui si limita a ribadire che Pechino lavora per costruire un ampio dialogo tra le parti. Citate le iniziative diplomatiche su Afghanistan e Asia occidentale. Sul mar Cinese meridionale sostiene che la libertà di navigazione continua a essere garantita e che i paesi asiatici “possono risolvere le differenze tra loro”. Li ripete l’impegno a uno sviluppo pacifico, ma ribadisce che la Cina “non esiterà a difendere i legittimi interessi”. E al centro di questi viene citata Taiwan. Anche qui, discorso in linea col 2022: reiterazione di sovranità, opposizione a “interferenze esterne”, critiche esplicite al DPP (il partito di maggioranza) sulla “negazione del consenso del 1992” e sforzi per “cancellare l’identità cinese di Taiwan”. La “riunificazione” è un “processo storico che non può essere fermato” e per raggiungerla, come sempre, non viene escluso l’utilizzo della forza. “Se qualcuno prova a separare Taiwan dalla Cina, il nostro esercito non esiterà un secondo a intervenire”. Tutte cose già dette dal predecessore Wei Fenghe nel 2022, ma anche qui l’intervento è un po’ più breve. Manca per esempio questo passaggio in riferimento al DPP: “In quanto elemento dei gruppi stranieri anti-cinesi, essi saranno solo usati e poi abbandonati dai loro padroni”. Il passaggio più preoccupante è però quello sull’incidente sfiorato sullo Stretto, di cui si è avuta notizia poche ore prima del discorso di Li. “Non si tratta di passaggi innocenti, alcuni paesi usano la libertà di navigazione come pretesto per esercitare egemonia di navigazione”, ha detto il ministro della Difesa in risposta a delle domande dei delegati. Come evitare incidenti? “Non si navighi troppo vicino ai territori altrui”. Questo commento lascia presagire che si possano ripetere i rischi di incidenti durante i passaggi sullo Stretto. A Singapore, dai delegati di diversi paesi emerge preoccupazione su questa possibilità, altri collegano la situazione alla mancanza di dialogo, implicando che una ripresa delle comunicazioni Usa-Cina porterebbe a una gestione diversa da parte di Pechino di questi passaggi.
Sui rapporti con gli Usa, Li riconosce che le relazioni sono al “minimo” da decenni. L’unico punto su cui Li e Austin sono sembrati d’accordo è nel definire un possibile conflitto “devastante”. Li definisce comunque la Cina pronta al dialogo ma chiede a Washington di “agire con sincerità”. Pechino ha rifiutato il bilaterale a Singapore lamentando l’assenza di un clima adeguato. Il riferimento di diversi delegati cinesi allo Shangri-La Dialogue è alla mancata rimozione delle sanzioni in vigore dal 2018 per l’acquisto di componenti militari dalla Russia. Allora, Li era un generale dell’esercito. La sua nomina a ministro è arrivata solo a marzo di quest’anno, una mossa voluta da Pechino per segnalare a Washington che non vuole più scendere a compromessi per riavviare il dialogo. Il significato simbolico è chiaro: “Se davvero volete parlare con noi, dovete accettare gli ufficiali scelti da noi, dunque il nostro modello di sviluppo”. Non a caso un punto sul quale Li ha insistito molto nel suo discorso è quello del “mutuo rispetto”. Al termine del G7, Biden aveva paventato la rimozione delle sanzioni, ma il Dipartimento di Stato lo ha subito smentito. Sinora dunque niente riavvio del dialogo di difesa, interrotto sin dall’agosto 2022 dopo la visita di Pelosi a Taipei.
Chi sta parlando sono i servizi di intelligence. Durante il summit, il Financial Times ha dato la notizia che il direttore della Cia William Burns è stato in missione in Cina il mese scorso. E proprio durante lo Shangri-La, a Singapore si sono inusualmente riuniti, in quello che Reuters ha definito “conclave segreto”, anche i rappresentanti dell’intelligence di vari paesi, compresi quelli di Usa e Cina. Al summit era d’altronde presente tra gli speaker anche Avril Haines della National Intelligence. L’incontro non è per forza un segnale positivo, ma la dimostrazione più concreta che i canali di comunicazione consueti sono seriamente otturati.
La prospettiva regionale
Lo scorso anno, lo Shangri-La Dialogue era stato la sede della tetra previsione del premier giapponese Fumio Kishida, che nel discorso di apertura aveva indicato come l’Asia avrebbe potuto diventare la “prossima Ucraina”. Questa volta, il primo a parlare è stato Anthony Albanese. Il premier australiano ha provato ad allontanare il fatalismo: “Passare dall’immaginare la guerra come impossibile a descriverla come inevitabile danneggia in egual modo i nostri interessi. La pace va conquistata ma il futuro dell’Indo-Pacifico è scritto da tutti noi”, ha dichiarato il premier australiano. In generale, la regione si sente comunque a rischio di diventare un’arena di confronto. Un’esperienza già vissuta in maniera catastrofica, come ricorda il ministro di Singapore Ng Eng Hen: “Dobbiamo evitare l’incubo di due guerre contemporanee tra Europa e Asia. Credo tutti siano d’accordo ma purtroppo la traiettoria geopolitica rischia di andare in quella direzione se non si riprende il dialogo”. Il ministro cita poi l’aumento esponenziale delle spese militari a livello regionale. “Non è fonte di instabilità in sé, ma in assenza di dialogo e reciproco contenimento rischia di trasformarsi in una corsa al riarmo che può portarci verso la catastrofe”. Nota di colore: proprio su queste parole rimbomba dall’esterno un tuono fortissimo e prolungato che dà l’avvio a un temporale. Risate e dark humour in sala stampa e sul palco, dove il ministro si ferma per qualche secondo.
Molti paesi hanno mostrato la ricerca di un complicato equilibrio. Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti hanno ufficializzato il preannunciato accordo per la condivisione di un sistema radar anti missilistico. Ma sia Tokyo sia Seul hanno mantenuto una linea più cauta di quanto qualcuno si aspettava sulla Cina. Il ministro della Difesa giapponese Hamada Yasukazu ha criticato implicitamente Pechino per gli ingressi nelle acque territoriali altrui e ha sollevato il problema dei cavi sottomarini, dopo che nelle isole Matsu controllate da Taipei negli scorsi mesi si era verificata una recisione. Uno scenario che molti analisti militari considerano possibile in caso di potenziali azioni militari, soprattutto verso isole e stati insulari. Ma Hamada non ha citato Taiwan nel suo discorso, nonostante sia risaputo che per Tokyo la sua stabilità rappresenta una priorità della nuova strategia di difesa nazionale.
Il ministro sudcoreano Lee Jong-sup ha invece parlato esclusivamente di Corea del Nord, lanciando solo una velata critica a Pechino sulla mancata approvazione delle risoluzioni alle Nazioni Unite di condanna dei lanci missilistici di Pyongyang. Lee ha però rivendicato la scelta dell’amministrazione di Yoon Suk-yeol di rafforzare i rapporti di sicurezza con Usa e Giappone, motivandoli con l’esigenza di aumentare la deterrenza e coi fallimenti dei precedenti tentativi di dialogo nell’era Moon Jae-in.
Molto attive le Filippine, che con Ferdinand Marcos Jr. si sono avvicinate molto agli Usa. Lo speaker di Manila ha parlato nella stessa sessione di Regno Unito e Canada, mentre la domanda più accesa nei confronti del cinese Li è arrivata proprio da un delegato filippino, che ricorda le manovre nelle acque dell’arcipelago e sostiene che le parole e le azioni della Cina siano “discordanti”. Più defilato il Vietnam, che sta comunicando molto con Washington di recente ed è anch’esso oggetto di manovre navali cinesi. Nessuno speaker per Hanoi. Se la Cambogia promette trasparenza sull’utilizzo delle sue strutture militari, nel tentativo di fugare i dubbi sulla base navale di Ream dove gravitano mezzi cinesi, c’è anche chi si schiera abbastanza apertamente al fianco di Pechino. È il caso di Timor Est. Il presidente José Ramos-Horta giustifica l’avvicinamento di diversi paesi della regione e del cosiddetto Sud globale alla Cina: “In tanti erano stati lasciati soli, con Pechino non lo sono più”. Ancora Ramos-Horta: “La Cina è ora una potenza globale e i suoi interessi sono intrecciati col resto del mondo. Non credo che abbia interesse a uccidere la mucca che le dà il latte”. Sostegno a Pechino anche su Taiwan: “Vanno evitate azioni provocatorie di attori esterni”.
Le prospettive sull’Ucraina
A confermare che le visioni del Sud globale spesso non collimano con quelle dei paesi occidentali, c’è stata anche e soprattutto la proposta di pace dell’Indonesia sull’Ucraina. Sentimento che porta a prospettive diverse da quelle occidentali, anche sulla guerra. Il simbolo di un solco che sembra essersi allargato è la proposta di pace dell’Indonesia. Il ministro della Difesa Prabowo Subianto si richiama alla “saggezza dei leader” di Stati Uniti e Cina per evitare il conflitto in Asia. Poi si lancia a sorpresa sull’Ucraina: “Propongo di firmare un documento congiunto per chiedere la fine delle ostilità”. E articola un’idea di pace alla coreana: “Primo: cessate il fuoco. Secondo: istituzione di una zona demilitarizzata di 15 chilometri da entrambi i lati. Terzo: invio di forze di pace delle Nazioni unite. Quarto: referendum nei territori contesi per far decidere a loro da che parte stare”. Alle critiche, Subianto replica: “Non equiparo aggressore e aggredito, in passato l’Indonesia e altri paesi asiatici sono stati aggrediti in maniera anche più sanguinosa. Ci sono anche altre guerre nel mondo. Ho fatto una proposta di pace, a che cosa serve l’Onu se non a risolvere i conflitti? La storia insegna che ci vuole un compromesso”. Una visione condivisa da altri, in Asia, magari con sfumature diverse rispetto alla proposta “sui generis” di Subianto.
L’idea indonesiana è stata subito respinta da Ue e Ucraina. Prima, implicitamente, dall’alto rappresentante per gli esteri Josep Borrell: “Se vogliamo che la guerra finisca subito basterebbe smettere di mandare le armi all’Ucraina. Ma non vogliamo la pace del più forte, non vogliamo che l’Ucraina diventi una nuova Bielorussia. L’Europa vuole una pace giusta”. Ancora più netto il rifiuto di Oleksii Reznikov, ministro della Difesa di Kiev. “L’Indonesia non ha parlato con noi e il suo piano sembra un piano della Russia. Non abbiamo bisogno di questa strana proposta”.
Dai paesi occidentali non sono emerse nuove idee, almeno ufficialmente, e si continua a garantire il sostegno all’Ucraina in attesa della controffensiva. Da parte cinese, più eloquente di Li è stato Cui Tiankai, ex viceministro degli Esteri: “Non abbiamo una proposta di pace con una soluzione concreta, ma ci stiamo sforzando per facilitare un dialogo”. Cui afferma che la Cina è aperta “a qualsiasi buona idea per arrivare a una fine della guerra immediata, ma finora vediamo arrivare solo armi”. Intrigante quando Cui ricorda il periodo trascorso in URSS in Manciuria, in un pezzo di territorio sottratto dagli zar ai Qing: “Ma quando l’URSS è caduta non ne abbiamo approfittato per vendicarci, abbiamo fatto prevalere la voglia di stabilità”. Poi un altrettanto interessante e irrituale colloquio diretto con Reznikov, che chiede a Cui: “So che Mao e Stalin firmarono un accordo in cui si diceva che l’Urss era il fratello maggiore e la Cina il fratello minore. Ora mi pare che Xi e Putin abbiano un accordo ribaltato. Potete convincere il fratello minore a ritirarsi?” Cui non si fa trovare impreparato: “All’epoca rompemmo i rapporti con l’Urss proprio perché non ci piaceva quel tipo di rapporto, oggi non vogliamo ripeterlo noi ai loro danni”. Il diplomatico cinese prova a rassicurare: “Non arrivate a conclusioni affrettate: se in passato le potenze in ascesa hanno usato la forza non significa che la userà anche la Cina”. E ancora: “Vogliamo fare più sforzi per far capire le nostre politiche, ma anche altri paesi devono sforzarsi per capire noi”. Stati Uniti e Cina, però, al momento sembrano capirsi poco.
Chi sperava in segnali di disgelo dallo Shangri-La Dialogue di Singapore è rimasto deluso. Una rapida e cordiale stretta di mano prima della cena di apertura è stato l’unico contatto noto tra Lloyd Austin, segretario alla Difesa degli Stati Uniti, e Li Shangfu, ministro della Difesa cinese. Nessun bilaterale, tante critiche e nessuna concessione in vista, con anzi i due impegnati a indicare il rivale come fonte di instabilità. Per tre giorni, oltre 600 delegati da 49 paesi presenti al massimo summit di sicurezza dell’Asia-Pacifico, hanno assistito alle manovre contrapposte delle due grandi potenze, Stati Uniti e Cina. È la loro relazione ad aver dominato la scena, dopo che lo scorso anno si era parlato molto di più di Ucraina.
D’altronde, come ha detto l’alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la sicurezza Josep Borrell durante una delle sessioni plenarie, “in Europa abbiamo una guerra. Ma il centro della competizione globale è qui, nell’Indo-Pacifico”. Da Singapore si esce non coi segnali di disgelo previsti da Joe Biden al termine del G7, ma semmai con la solidificazione di due linee contrastanti. E per i padroni di casa di Singapore “in larga parte inconciliabili”, come affermato dal primo ministro in pectore della città-stato, Lawrence Wong. La sensazione è che, preso atto della divaricazione di prospettive, si lavori non tanto alla ricerca dell’armonia ma alla stabilizzazione della disarmonia. Non un caso che sia nel discorso di apertura di John Chipman (direttore dell’IISS, l’istituto che organizza da 20 anni il vertice) e di Ng Eng Hen (ministro della Difesa di Singapore) si siano richiamati ai “lati positivi” della guerra fredda, come lo stop alla corsa nucleare e i paletti stabiliti per evitare che il confronto si trasformasse in conflitto.
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