La transizione digitale è una competizione per la supremazia politica e Washington punta sulla spesa pubblica per l’innovazione, con una politica industriale che allinea il settore privato all’interesse nazional-governativo
Nel loro ultimo libro, Danger Zone: The Coming Conflict with China, Hal Brands e Michael Beckley espongono un concetto fondamentale: le superpotenze del passato e del presente sono divenute tali grazie al dominio delle tecnologie critiche della loro epoca. Prima venne il Regno Unito con il vapore e il ferro, poi gli Stati Uniti con l’acciaio e l’elettronica. La numero uno del futuro, in quella che sembra essere una corsa a due tra America e Cina, dovrà invece avere la leadership sulle telecomunicazioni, l’intelligenza artificiale e il computing quantistico. La tecnologia non è l’unico fattore della primazia geopolitica – la superiorità marittima, per esempio, sembra essere altrettanto importante –, ma è di certo quello più vistoso, di cui i politici dibattono tra di loro e con gli industriali, di cui i giornalisti scrivono e di cui gli analisti esaminano i dettagli. Brands e Beckley offrono dunque una chiave di lettura che permette di capire il senso e l’importanza di una grossa fetta delle notizie che leggiamo o ascoltiamo: la transizione digitale, che ha nel microchip il suo abilitatore e il suo limite, è una competizione per la supremazia politica.
Riportare la cronaca al quadro generale aiuta a percepire la direzione verso cui ci stiamo muovendo. Non appena si entra in possesso della giusta chiave interpretativa, l’attualità diventa più leggibile. E anche i comunicati ufficiali dei governi – nessuna ambizione è nascosta o esiste solo nelle menti speculative degli specialisti di geopolitica – acquistano un senso nuovo. In quello pubblicato dalla Casa Bianca lo scorso 9 agosto, ad esempio, c’è tutto: “mantenere gli Stati Uniti i leader nelle industrie di domani”, si legge, “tra cui le nanotecnologie, l’energia pulita, la computazione quantistica e l’intelligenza artificiale. Il CHIPS and Science Act prevede investimenti intelligenti per consentire agli americani di competere e vincere nel futuro”.
Il CHIPS and Science Act, abbreviato in CHIPS Act, è la legge del presidente Joe Biden per la ricerca scientifica, l’innovazione tecnologica e la produzione di microchip: vale 280 miliardi di dollari in totale, di cui 52,7 destinati alla realizzazione di semiconduttori nel paese. È una legge ambiziosissima, che intende ridare un po’ di potenza manifatturiera all’America, leader nella progettazione di questi microcomponenti ma dipendente dall’Asia – soprattutto da Taiwan e Corea del sud – per la fabbricazione e il confezionamento. Il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha spiegato che è pericoloso fare troppo affidamento dall’estero, specialmente da un’isola vicinissima alla Cina e da lei rivendicata, perché un’interruzione prolungata alla catena di fornitura avrebbe effetti catastrofici: catastrofici per le aziende, che non potrebbero produrre senza i componenti di base, e per l’economia generale, perché l’inflazione aumenterebbe; ma catastrofici anche per la sicurezza, perché i chip sono indispensabili per i sistemi d’arma che proteggono la homeland dalle aggressioni.
L’ambizione del CHIPS Act si vede anche dalle somme impegnate: secondo uno studio dell’Indiana University Bloomington, i finanziamenti previsti dalla legge (se adeguati all’inflazione) superano addirittura gli investimenti per il programma Apollo del 1961-1972, quello che portò gli astronauti sulla Luna. Al di là dei numeri, il paragone con il periodo della corsa allo spazio e della Guerra fredda tra Stati Uniti e Unione sovietica è effettivamente calzante, perché pure in quel caso, per vincere una competizione tecnologica con una potenza rivale, l’America aveva puntato sulla spesa pubblica nell’innovazione. Forse è ancora troppo presto per dirlo con certezza, ma da questo parallelismo si può estrarre una regola generale: quando si avvicina al “momento Sputnik” – quell’istante in cui prende coscienza di essere lì lì per farsi sorpassare –, Washington reagisce schierando una politica industriale. Il principio del laissez-faire lascia il posto all’intervento governativo, perché se il libero mercato non basta più a garantire il vantaggio tecnologico allora l’economia va mobilitata e avviata verso alcune direzioni di valore strategico. In altre parole, il settore privato va allineato all’interesse nazionale-governativo, in un modello di capitalismo politicamente orientato.
Stuzzicate dai 52 miliardi di incentivi e dall’esistenza stessa del CHIPS Act – frutto di un compromesso tra democratici e repubblicani che testimonia una coincidenza di visione tra i due partiti, al di là delle profonde divisioni su altri temi –, molte aziende sia americane (Intel, Micron, Texas Instruments) sia straniere (TSMC, Samsung, GlobalFoundries) hanno investito nella costruzione di fabbriche di semiconduttori negli Stati Uniti. Stando a un’analisi di Charles Wessner, Sujai Shivakumar e Tom Howell, il beneficio manifatturiero sarà duplice. A trarre vantaggio da quegli stabilimenti non saranno infatti solo i soggetti che utilizzano i chip per i loro prodotti, e che dunque occupano il segmento a valle (downstream) della filiera. Ma anche tutti i fornitori di materiali, strumentazioni e componentistica varia come macchinari, prodotti chimici e mascherine da laboratorio. È quello che in gergo si chiama “effetto spillover”: le fabbriche di semiconduttori potrebbero cioè andare a stimolare sia lo sviluppo di tante aziende manifatturiere associate, con le loro tecnologie e i loro lavoratori qualificati, sia la nascita di percorsi di studio dedicati ai microchip nelle università.
Il processo appena descritto è già realtà in Texas, dove si concentrano tanti siti manifatturieri della porzione a monte (upstream) della supply chain dei semiconduttori. Quando nell’agosto 2021 Samsung fece sapere di stare valutando l’apertura di una fabbrica nello stato, Schunk Xycarb Technology annunciò che avrebbe costruito un secondo impianto di strumenti al quarzo. Un mese dopo un’altra azienda, Huntsman Corporation, disse che avrebbe ingrandito la capacità produttiva texana di ammine, dei materiali di base. A dicembre 2021 la società chimica Merck KGaA dichiarò di voler spendere circa 1 miliardo di dollari in elettronica, attività di ricerca e sviluppo e aumento della produzione in quattro siti negli Stati Uniti. Questo effetto “a catena” è visibile anche a Phoenix, in Arizona, dove TSMC sta costruendo una fabbrica di wafer, dei materiali a forma di fetta che servono per realizzare i chip. L’upstream si è presto attivato a livello locale: a gennaio 2022 Sunlit ha cominciato a costruire un impianto per l’acido fluoridrico, che si usa per la lavorazione e la pulizia dei semiconduttori; Air Liquide ha annunciato un investimento da 60 milioni per la fornitura di idrogeno ultrapuro, elio e anidride carbonica.
Oltre a irrobustire i vari anelli, in alto e in basso, della filiera, nuove e avanzate fabbriche di chip negli Stati Uniti possono incentivare la nascita di industrie associate o derivate, che riprendono le competenze e le sfruttano per scopi nuovi. Un esempio interessante – anche perché rivolto a una tecnologia di enorme valore strategico – è quello di Intel e QuTech, nederlandese, che stanno lavorando alla riconversione dei processi produttivi del silicio per ottenere invece qubit di silicio: ne serviranno in grandi quantità per consentire l’evoluzione del computing quantistico, di cui Washington teme l’utilizzo duale, civile-militare, da parte di Pechino. In Texas la nuova fabbrica di Samsung dovrebbe produrre semiconduttori per i sistemi di guida autonoma dei veicoli elettrici di Tesla, che l’anno scorso ha trasferito in questo stato il suo quartiere generale anche per avvicinarsi ai chipmakers. Già nel 2018, del resto, la società di telecomunicazioni AT&T aveva annunciato una partnership con Samsung per la creazione di una “Innovation Zone” dedicata alla manifattura per il 5G: la scelta cadde sul capoluogo texano Austin proprio per via della presenza di un’industria dei semiconduttori. Il trasferimento di competenze da un settore a un altro non è semplice, e non è scontato che possa avere successo; ma la tendenza è notevole.
La mobilitazione economica messa in atto dalla Casa Bianca non riguarda solo gli Stati Uniti ma anche i loro alleati in Nordamerica, Europa e Asia. Non sempre, però, questi hanno voglia di farsi trascinare nel confronto con la Cina, che impone il sacrificio dei rapporti commerciali sull’altare della geopolitica. Il 7 ottobre il dipartimento del Commercio ha annunciato un pacchetto di restrizioni alle vendite in Cina di microchip avanzati e di software e macchinari necessari a produrli. Sfruttando le debolezze di Pechino (dipendente dalle importazioni di semiconduttori sofisticati, non essendo in grado di fabbricarseli) e i punti di forza di Washington (le tecnologie di design e manufacturing sono principalmente americane), l’amministrazione Biden punta a isolare la Repubblica popolare e a bloccarne i progressi sull’intelligenza artificiale e i supercomputer. Questi comparti, indispensabili per chi voglia essere una grande potenza, non possono svilupparsi senza chip all’avanguardia. Ma le aziende cinesi non potranno più acquistare prodotti e servizi contenenti manufatti o proprietà intellettuali statunitensi, a prescindere dalla nazionalità del venditore.
L’obiettivo politico alla base del controllo delle esportazioni è chiaro perché esplicitato da Jake Sullivan. Il consigliere ha spiegato che gli Stati Uniti non utilizzeranno più questo meccanismo restrittivo per mantenere “vantaggi “relativi” rispetto ai concorrenti su alcune tecnologie chiave”. Il tradizionale scarto di due generazioni tecnologiche di distanza tra Washington e gli avversari è stato consegnato al passato: adesso l’America vuole conservare “un vantaggio più ampio possibile” attraverso una strategia sistematica e inevitabilmente più aggressiva. I cui contraccolpi possono essere tre. Il primo è sconvolgere le filiere globali: Pechino non sa realizzare semiconduttori avanzati ma è una produttrice importante di chip da 28 nanometri, presenti in molti dispositivi elettronici e veicoli. Se Biden impedisce questa manifattura, manda in crisi tante industrie nel mondo; la soglia critica delle restrizioni alle vendite è infatti stata tracciata più giù, a 14 nanometri. Il secondo contraccolpo è innervosire gli alleati, come il Giappone e i Paesi Bassi, a cui gli Stati Uniti chiedono di partecipare all’isolamento della Cina; ma seguire Washington significherebbe privare le loro aziende – Tokyo Electron e ASML, rispettivamente – di un grosso mercato. Il terzo è sottrarre entrate economiche alle società americane di apparecchiature per i semiconduttori, come LAM Research, KLA e Applied Materials: proprio la Cina è la loro fonte principale di ricavi. Ogni anno queste imprese prendono cifre miliardarie dai loro profitti e le reinvestono nell’innovazione, mantenendosi così sempre all’avanguardia. Minori risorse possono però significare minori possibilità di finanziare la ricerca e lo sviluppo, e maggiori rischi di deperimento competitivo. Per loro e per gli interi Stati Uniti.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
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