Oggi la Cina è forte, ambiziosa e più assertiva su quelli che considera suoi interessi fondamentali, a partire dalla riunificazione con Taiwan fino alla disputa al confine con l’India
Aria, mare e terra. I fronti aperti per la Cina non escludono nessun elemento. Tranne, fortunatamente, il fuoco. Almeno per ora. Da Taiwan al mar Cinese meridionale fino al confine con l’India, i dossier strategico-militari per la Repubblica popolare si moltiplicano. In realtà, sono lì da lungo tempo, ma quantomeno sono stati tutti riaperti nell’ultimo periodo. Le questioni irrisolte sulle dispute terrestri e marittime, nonché quella riguardante lo status di Taiwan, sono sul tavolo da decenni. Ma ora hanno un’urgenza più impellente, perché la Cina non è più quella di Mao Zedong o quella di Deng Xiaoping. La Cina di oggi è forte, ambiziosa e dunque anche assertiva su quelli che considera suoi interessi fondamentali.
A partire dalla “riunificazione” con Taiwan, ferita aperta di una Repubblica popolare che con Xi vuole completare il percorso di “ringiovanimento nazionale”. Negli ultimi anni, appare sempre più chiaro che lo status quo è a rischio. Da una parte, la crescente assertività di Pechino che dopo aver “normalizzato” Hong Kong guarda come prossimo step a Taipei; dall’altra, la costruzione di un’identità “altra” da parte di Taiwan che con Tsai Ing-wen si dice pronta al dialogo ma senza precondizioni. Ergo, senza la preventiva accettazione del principio della “unica Cina”, che invece il Guomindang (il partito nazionalista cinese oggi all’opposizione) riconosceva attraverso lo strumento del cosiddetto “consenso del 1992”.
La prima decade di ottobre, come accade da tempo, è stata particolarmente tesa nei rapporti intrastretto. Prima i 156 mezzi aerei dell’Esercito popolare di liberazione che sono entrati nello spazio di identificazione di difesa aerea di Taipei (la cui esistenza non è riconosciuta da Pechino), poi la notizia delle esercitazioni di invasione terrestre nella provincia del Fujian, a poche miglia nautiche dalle coste taiwanesi. In mezzo la notizia della permanenza a Taiwan di un contingente di consiglieri militari americani, impegnati ad addestrare le forze locali nel resistere a eventuali tentativi di invasione, che secondo il Governo di Taipei potrebbero avvenire entro il 2025.
Difficilmente prima del 2023, quando Xi Jinping dovrebbe ottenere il suo terzo mandato, il Presidente cinese darebbe il via libera a un’operazione con un’ampia forbice di possibilità tra successo e fallimento. Un rischiatutto che non rientra nelle corde della tradizione politica cinese. Non è un caso che nel suo discorso di sabato 9 ottobre, pronunciato in occasione delle commemorazioni per la rivolta di Wuchang, avvio della rivoluzione Xinhai che portò alla fine della dinastia imperiale dei Qing e alla fondazione della Repubblica di Cina (ancora oggi nome ufficiale di Taiwan), Xi non abbia utilizzato la formula della riunificazione da completare “senza escludere l’utilizzo della forza”.
Non tanto un passo verso Joe Biden, che aveva parlato di un presunto “accordo su Taiwan” al quale Xi avrebbe promesso di attenersi durante la loro recente telefonata, quanto un messaggio ai taiwanesi stessi e magari al Guomindang, che nelle ultime settimane ha scelto Eric Chu come suo nuovo leader. Chu ha incontrato Xi nel 2015 e ha subito manifestato la volontà di rilanciare il dialogo intrastretto. Segnale che il Partito comunista vuole incentivare, sperando nella vittoria del Guomindang alle elezioni presidenziali del 2024. Quello che Pechino potrebbe voler creare è una situazione nel quale il voto del 2024 passi per i taiwanesi come una scelta non solo tra Partito democratico progressista e Guomindang ma come una scelta anche tra guerra e pace. Nel frattempo, l’esercito cinese allarga la cosiddetta zona grigia operativa intorno all’isola e alza la pressione.
Negli ultimi giorni è tornato d’attualità anche il tema del confine terrestre con l’India. Il tredicesimo ciclo di colloqui militari, che si è svolto sul lato cinese della frontiere Chushui-Moldo, non ha portato nessun risultato tangibile. Anzi, i giornali indiani hanno parlato di nuovi scontri nella zona contesta dell’Arunachal Pradesh la scorsa settimana. Secondo Nuova Delhi, sarebbero in atto tentativi unilaterali da parte cinese di alterare lo status quo in violazione degli accordi bilaterali. Ricostruzione smentita da Pechino. “La questione del confine tra Cina e India rimane bloccata”, scrive il tabloid di Stato Global Times. “La causa principale è che la parte indiana non ha ancora sviluppato un atteggiamento corretto nei negoziati. Fa sempre richieste irrealistiche non in linea con la situazione reale o con la sua forza”. Questa sembra essere la parola chiave: forza. E Pechino ora sente di averne tanta.
Aria, mare e terra. I fronti aperti per la Cina non escludono nessun elemento. Tranne, fortunatamente, il fuoco. Almeno per ora. Da Taiwan al mar Cinese meridionale fino al confine con l’India, i dossier strategico-militari per la Repubblica popolare si moltiplicano. In realtà, sono lì da lungo tempo, ma quantomeno sono stati tutti riaperti nell’ultimo periodo. Le questioni irrisolte sulle dispute terrestri e marittime, nonché quella riguardante lo status di Taiwan, sono sul tavolo da decenni. Ma ora hanno un’urgenza più impellente, perché la Cina non è più quella di Mao Zedong o quella di Deng Xiaoping. La Cina di oggi è forte, ambiziosa e dunque anche assertiva su quelli che considera suoi interessi fondamentali.
A partire dalla “riunificazione” con Taiwan, ferita aperta di una Repubblica popolare che con Xi vuole completare il percorso di “ringiovanimento nazionale”. Negli ultimi anni, appare sempre più chiaro che lo status quo è a rischio. Da una parte, la crescente assertività di Pechino che dopo aver “normalizzato” Hong Kong guarda come prossimo step a Taipei; dall’altra, la costruzione di un’identità “altra” da parte di Taiwan che con Tsai Ing-wen si dice pronta al dialogo ma senza precondizioni. Ergo, senza la preventiva accettazione del principio della “unica Cina”, che invece il Guomindang (il partito nazionalista cinese oggi all’opposizione) riconosceva attraverso lo strumento del cosiddetto “consenso del 1992”.