Il capo del Partito comunista cinese nel Tibet ha dichiarato che il Paese vedrà sviluppo e prosperità solo se rimarrà sotto la guida del Partito
Il 23 maggio del 1951, settant’anni fa, la Cina ottenne la sovranità sul Tibet attraverso un accordo – l’Accordo dei diciassette punti – che mirava a integrare la regione al resto del territorio cinese e a modernizzarla attraverso una serie di riforme. Il processo di assimilazione (“sinizzazione”) del Tibet è stato complicato e anche violento: gli episodi più noti in questo senso sono la rivolta del marzo 1959 (repressa dall’esercito cinese) e la fuga del Dalai Lama; la distruzione dei templi e dei simboli religiosi nel periodo della Rivoluzione culturale; oppure le immolazioni per protesta verso Pechino dal 2009.
Riassumere cosa sia successo in questi sette decenni è difficile anche per via delle opposte propagande che hanno rimodellato la storia per fini politici: da una parte quella occidentale, che si concentra sulle violazioni dei diritti umani ed è vicina al Dalai Lama Tenzin Gyatso, capo politico e religioso; dall’altra parte quella del Governo di Pechino, che considera il Dalai Lama un separatista e un esponente di un sistema feudale, e che mette piuttosto l’accento sulla realizzazione di infrastrutture e sul maggiore benessere sociale.
Religione e socialismo
Ieri Wu Yingjie, il capo del Partito comunista cinese nel Tibet, ha per l’appunto tenuto un discorso nel quale ha enfatizzato la costruzione di scuole, l’asfaltatura delle strade e i miglioramenti del sistema sanitario della regione. A suo dire, il Tibet potrà proseguire “su questa strada dello sviluppo prospero” solo se rimarrà sotto la guida del Partito.
In un passaggio particolarmente significativo, Wu ha detto che “sempre più credenti” tibetani sono passati “dal perseguire una bella vita nell’aldilà a vivere una bella vita in questa”, e che “la religione è stata sempre di più compatibile con una società socialista”.
Il Partito comunista cinese è ufficialmente ateo, mentre la regione nettamente più diffusa in Tibet è il buddismo. Benché in Cina sia garantita la libertà religiosa, la fede viene monitorata con grande attenzione dal Governo centrale – attraverso la ricerca di un controllo sulle autorità spirituali –, che la ritiene una potenziale minaccia all’ordine sociale e alla stabilità. Il buddismo tibetano, in altre parole, è tollerato solo se ha caratteristiche cinesi.
La “compatibilità” tra religione e socialismo di cui parlava Wu è appunto uno degli obiettivi della campagna di assimilazione culturale portata avanti da Pechino in Tibet per disinnescare le istanze separatiste-autonomiste, e che passa anche per il trasferimento nella regione di cittadini di etnia han, il gruppo dominante nella nazione. Accanto a questo, ci sono gli investimenti infrastrutturali per favorire la crescita economica.
Lo scorso agosto il Presidente cinese Xi Jinping aveva detto che la Cina dovrà costruire una “fortezza inespugnabile” per mantenere la stabilità in Tibet, tutelare l’unità nazionale ed educare le masse nella lotta contro il separatismo. Oltre a menzionare alcuni concetti chiave come armonia, modernità e socialismo, Xi ha insistito sul valore dell’indottrinamento ideologico per “piantare i semi dell’amorevole Cina nel profondo dei cuori di tutti i giovani” tibetani.
Il valore geopolitico del Tibet
Pochi giorni dopo l’intervento di Xi, Reuters aveva riportato la notizia di un piano da 146 miliardi di dollari per l’accelerazione nelle infrastrutture, che hanno un valore sia civile che militare. Il potenziamento delle ferrovie e delle strade migliora infatti sia la connettività nel Tibet, sia quella tra il Tibet e l’interno della Cina, permettendo una mobilitazione più rapida delle forze armate nel caso di crisi al confine (come quella recente con l’India).
Da un punto di vista geopolitico, il controllo sul Tibet è utile alla Cina perché le garantisce l’accesso ai fiumi Azzurro, Giallo e Mekong. E poi perché la regione confina con l’India, e permette dunque a Pechino – vista l’immediata prossimità – di rivendicare la sovranità sullo stato indiano dell’Arunachal Pradesh.
Il Tibet è anche un terreno di scontro diplomatico tra la Cina e gli Stati Uniti: Washington denuncia la condizione dei diritti umani nella regione per isolare Pechino e convincere gli altri Paesi ad adottare misure punitive nei suoi confronti; la Cina respinge queste dichiarazioni e le giudica come delle violazioni dei propri affari interni.
Il capo del Partito comunista cinese nel Tibet ha dichiarato che il Paese vedrà sviluppo e prosperità solo se rimarrà sotto la guida del Partito
Il 23 maggio del 1951, settant’anni fa, la Cina ottenne la sovranità sul Tibet attraverso un accordo – l’Accordo dei diciassette punti – che mirava a integrare la regione al resto del territorio cinese e a modernizzarla attraverso una serie di riforme. Il processo di assimilazione (“sinizzazione”) del Tibet è stato complicato e anche violento: gli episodi più noti in questo senso sono la rivolta del marzo 1959 (repressa dall’esercito cinese) e la fuga del Dalai Lama; la distruzione dei templi e dei simboli religiosi nel periodo della Rivoluzione culturale; oppure le immolazioni per protesta verso Pechino dal 2009.
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