Ue e Usa hanno raggiunto un accordo sulla fornitura di terre rare: un primo passo verso l’emancipazione dalla Cina, che controlla da sola circa l’80% dell’offerta mondiale di questi metalli
Un accordo sulla fornitura di terre rare stipulato la settimana scorsa tra un’azienda mineraria americana e uno stabilimento di raffinazione in Estonia possiede un’importanza che va ben oltre i termini economici e gli aspetti più settoriali. Si tratta infatti di un primo passo verso la costituzione di una filiera tra gli Stati Uniti e l’Unione europea, e di un primo tentativo di emancipazione dalla Cina.
Il contesto: la Cina e le terre rare
Pechino infatti controlla da sola circa l’80% dell’offerta mondiale di terre rare, un gruppo di elementi metallici fondamentali per la costruzione di dispositivi elettronici, automobili, impianti di energia rinnovabile e mezzi militari. Si tratta insomma di materiali estremamente strategici, specialmente in questo periodo di transizioni ecologiche e digitali. E infatti sia Washington che Bruxelles stanno elaborando delle strategie per smarcarsi dalla dipendenza cinese, che espone entrambe a una pesante vulnerabilità.
Riuscirci non è facile, perché la Cina possiede una sorta di monopolio sulla lavorazione delle terre rare, ovvero quel processo che permette di trasformare il materiale grezzo in una forma raffinata da utilizzare nella manifattura di magneti.
L’accordo Usa-Europa e la lavorazione della monazite
L’accordo tra il produttore americano di uranio Energy Fuels e la società canadese Neo Performance Materials, che gestisce l’impianto di separazione di terre rare in Estonia, è allora rilevante perché aggiunge un primo anello a una catena del valore americano-europea. Non è sufficiente a spostare gli equilibri sul mercato globale, ma può rappresentare l’inizio di qualcosa di più grande.
Energy Fuels spedirà in tutto quindici carichi da venti tonnellate di carbonati di terre rare verso l’Estonia, dove Neo provvederà a separarli in ossidi e in concentrati di terre rare, per poi venderli ai clienti: per esempio imprese che realizzano motori per le auto elettriche, turbine eoliche o hard disk per i computer. Energy Fuels ottiene quei carbonati come sottoprodotto della lavorazione dell’uranio dalla monazite, uno dei pochi minerali che contengono terre rare in quantità accettabili.
Attualmente, la Cina è l’unico produttore su larga scala di terre rare dalla monazite, benché si tratti di un minerale tutto sommato abbondante: ce ne sono per esempio riserve importanti negli Stati Uniti, in Australia, India, Brasile e Sudafrica. Se non ci sono però molte aziende che lavorano la monazite è perché il processo che permette di ricavare le terre rare è complicato dalla necessità di separare questi metalli dall’uranio e dal torio presenti nel minerale, e poi di stoccare i due elementi radioattivi.
Guardare oltre
Energy Fuels sta guardando oltre all’accordo di fornitura con Neo e valutando la possibilità di dotarsi di capacità proprie di separazione delle terre rare, direttamente nel suo stabilimento per l’uranio a White Mesa, nello Utah.
Più in generale, gli Stati Uniti vogliono recuperare l’antico ruolo di estrattori e raffinatori di terre rare che hanno ceduto alla Cina intorno agli anni Ottanta a causa dei costi operativi e ambientali. Sono diversi i progetti in fase di sviluppo sul suolo americano: c’è per esempio MP Materials – l’azienda che gestisce l’unica miniera di terre rare del paese, in California – che vuole rendersi autonoma nella lavorazione; c’è l’australiana Lynas che intende costruire un impianto di trattamento in Texas; c’è NioCorp in Nebraska e ci sono poi le canadesi Rare Element Resources in Wyoming e Ucore Rare Metals in Alaska.
L’Unione europea, invece, ha annunciato a giugno una partnership con il Canada sui minerali strategici (terre rare incluse), ma insiste soprattutto sul riciclo delle materie prime già utilizzate per diminuire la dipendenza dall’esterno.
Ue e Usa hanno raggiunto un accordo sulla fornitura di terre rare: un primo passo verso l’emancipazione dalla Cina, che controlla da sola circa l’80% dell’offerta mondiale di questi metalli