Nonostante il dibattito sull’invasione russa dell’Ucraina, le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti sono e saranno dominate da questioni interne, ma l’esito avrà ripercussioni geopolitiche importanti
Dopo l’assalto del 6 gennaio dell’anno scorso al Campidoglio di Washington DC, dieci eletti alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti nelle file del Partito repubblicano hanno votato per l’impeachment dell’ex Presidente Donald Trump. Quattro di questi hanno deciso di non ricandidarsi. Altrettanti hanno perso le primarie, sconfitti da candidati trumpiani. Soltanto due hanno superato le primarie e correranno alle elezioni generali di novembre per mantenere il loro seggio.
Il caso più eclatante è quello di Liz Cheney, figlia di Dick, ex vicepresidente di George W. Bush. Ha perso le primarie repubblicane nel Wyoming contro Harriet Hageman, sostenuta da Trump. L’ex presidente, lasciata la Casa Bianca e in vista di una possibile ricandidatura nel 2024, ha investito la maggior parte delle sue energie per sostenere uomini e donne che si sono candidati per scalzare i membri di Camera e Senato che considera sleali nei suoi confronti. Come Cheney. Che però non sembra voler cedere. “Farò tutto il necessario per garantire che Donald Trump non si avvicini mai più allo Studio Ovale, e dico sul serio”, ha dichiarato dopo la sconfitta definendo l’ex Presidente “una minaccia e un rischio molto grave per la nostra Repubblica”. Per sconfiggerlo sarà necessario “un fronte ampio e unito di repubblicani, democratici e indipendenti, ed è quello di cui intendo far parte”, ha spiegato rifiutandosi però di dire se si candiderà alla presidenza. Ha però ammesso che è “qualcosa a cui sto pensando”. “Il nostro lavoro è lungi dall’essere finito”, ha detto, evocando l’ex Presidente Abraham Lincoln, che perse le elezioni del Congresso prima di salire alla presidenza e difendere l’Unione.
I repubblicani dopo le primarie
Ma il suo risultato alle primarie – e il margine di oltre 35 punti della sua sconfitta, che sembrava impensabile soltanto due anni fa (figlia di un ex vicepresidente, esponente di una delle famiglie politiche più importanti del Wyoming e la numero tre dei repubblicani alla Camera) – sembrano confermare il rapido spostamento a destra del Partito repubblicano. Un tempo era dominato da conservatori interessati alla sicurezza nazionale e aperti agli affari, come suo padre, ma ora è nelle mani del fronte populista trumpiano che nega la sconfitta alle elezioni presidenziali del 2020. Davanti a questo scenario, Cheney è diventata la voce più chiara e forte contro Trump all’interno del Partito repubblicano. Inevitabile il giubilo dell’ex Presidente. “Presumo che con la pesante sconfitta” della Cheney, “molto più grande di quanto fosse stato previsto”, la Commissione sul 6 gennaio “inizierà rapidamente il bellissimo processo di dissoluzione”, ha scritto Trump su Truth, il suo – nel senso che è stato creato dal Trump Media & Technology Group – nuovo social preferito dopo la cacciata da Twitter. “Questo è stato un referendum sulla caccia alle streghe infinita. La gente ha parlato”, ha aggiunto.
Se il Partito repubblicano otterrà la maggioranza della Camera e del Senato alle elezioni di novembre, il nuovo Congresso potrebbe essere fatto a immagine e somiglianza di Trump. Ma la sua influenza presenta un rischio, quello di rendere il Partito repubblicano una sorte di club di Trump: può permettergli di riconquistare la Camera costandogli in termini di appeal alle presidenziali del 2024.
L’onda rossa in cui i repubblicani trumpiani sperano e confidano potrebbe non essere travolgente come previsto fino a poco fa. Per i democratici, infatti, la tornata elettorale potrebbe non essere catastrofica come le precedenti elezioni di metà mandato con un democratico alla Casa Bianca. Un indicatore statale ritenuto affidabile per i risultati federali nell’ultimo decennio è lo Stato di Washington. Quest’anno, il voto democratico aggregato nelle primarie per la Camera dello Stato è stato peggiore di oltre 5 punti percentuali rispetto alla performance nell’anno della cosiddetta onda blu del 2018. Ma è stato superiore di altrettanti punti rispetto ai risultati ottenuti nel 2010 e nel 2014, due anni di onda rossa.
L’incognita Biden
Ma l’incognita per i democratici potrebbe rivelarsi il loro leader, cioè il Presidente Joe Biden. Niente di nuovo: le elezioni di metà mandato sono da sempre un referendum sull’inquilino della Casa Bianca. Tuttavia, un tempo Biden era uno dei più richiesti nel partito in occasione delle campagne elettorali. Oggi si ritrova in una posizione a lui poco familiare. Viene attaccato più spesso negli spot televisivi di quanto non lo fossero Barack Obama nel 2010 e Trump nel 2018. Nella discussione online delle campagne democratiche non viene nominato. Secondo un sondaggio del Washington Post, i candidati negli Stati in bilico cercano di evitarlo.
La media dell’indice di gradimento del Presidente Biden è al di sotto del 40%, il che fa presagire una sconfitta pesante. I democratici sperano che i numeri migliorino, ma quasi mai i presidenti vedono i loro indici di gradimento crescere in maniera sensibile nell’anno delle elezioni di metà mandato. Il gradimento dell’inquilino della Casa Bianca è generalmente l’indicatore più seguito in questi periodi. Dopo c’è l’economia con i numeri dell’occupazione.
Tuttavia, quest’anno i timori per l’inflazione sembrano prevalere e il Presidente sta cercando di correre ai ripari. Dopo un sofferto percorso al Congresso, il piano cardine dell’amministrazione su clima, salute e inflazione è diventato legge a metà agosto. Sono previsti investimenti energetici, una limitazione dei prezzi dei farmaci prescritti e una nuova tassa minima alle grandi multinazionali. “Con questa legge, i cittadini americani hanno vinto, mentre gli interessi particolari hanno perso”, ha dichiarato il Presidente. I democratici sono da sempre sostenitori della riduzione del deficit per contenere l’inflazione. E così hanno messo in piedi questo pacchetto che dovrebbe ridurlo di circa 275 miliardi nei prossimi dieci anni. Soltanto il tempo dirà se il piano avrà effetti soltanto a breve termine o anche nel medio.
Le ripercussioni internazionali
Nonostante il dibattito sull’invasione russa dell’Ucraina, le elezioni di metà mandato sono e saranno dominate da questioni sociali, con i repubblicani impegnati su temi interni come l’economia, il bilancio, l’immigrazione e la sicurezza delle frontiere.
Ma l’esito delle elezioni di metà mandato potrà avere ripercussioni geopolitiche importanti. Infatti, se i repubblicani conquistassero la maggioranza alla Camera o al Senato, Biden sarà costretto a concentrarsi maggiormente su questioni “esecutive” e mettere fine alla fase “legislativa” della sua amministrazione, come ha scritto William A. Galston, editorialista del Wall Street Journal, evidenziando le sfide che il presidente dovrà affrontare – soprattutto da parte di Iran, Russia e Cina – e che richiederanno la sua attenzione costante.
Il ritorno all’accordo nucleare JCPoA sembra non distante mentre scriviamo. La Russia non sembra decisa a fermare la sua aggressione ai danni dell’Ucraina. Mantenere l’unità europea potrebbe rivelarsi ancora più difficile di quanto non sia stato finora, con l’inverno alle porte e Mosca che non si fa remore a utilizzare le forniture energetiche come arma per indebolire il sostegno del Vecchio continente a Kiev. Infine, la Cina, dove il leader Xi Jinping aspetta il terzo mandato dal Partito comunista cinese. Il confronto su Taiwan è il problema più urgente per la Casa Bianca, come dimostrato dalla recente visita di Nancy Pelosi, Speaker della Camera, a Taipei. Davanti a Pechino che punta a un lento assorbimento dell’isola, gli alleati degli Stati Uniti – in particolare Giappone e Filippine – potrebbero essere chiamati a scelte difficili per timore di essere inghiottiti a loro volta in futuro.
Per esempio, davanti a questo scenario l’amministrazione Biden dovrà dimostrare la determinazione di impostare una strategia per potenziare le capacità difensive di Taiwan, rafforzare la fiducia dei suoi alleati e migliorare la deterrenza nel Pacifico. Cose difficili da realizzare senza il sostegno del Congresso. In ballo c’è la politica estera degli Stati Uniti nei prossimi due anni almeno. Potrebbe apparire incerta, persino contraddittoria, agli occhi degli alleati.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Dopo l’assalto del 6 gennaio dell’anno scorso al Campidoglio di Washington DC, dieci eletti alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti nelle file del Partito repubblicano hanno votato per l’impeachment dell’ex Presidente Donald Trump. Quattro di questi hanno deciso di non ricandidarsi. Altrettanti hanno perso le primarie, sconfitti da candidati trumpiani. Soltanto due hanno superato le primarie e correranno alle elezioni generali di novembre per mantenere il loro seggio.