Il successo grazie all’accordo di libero scambio che ha favorito gli investimenti occidentali. Artefice il Presidente Phuc che rischia di perdere presa a livello politico
Da una parte, numeri roboanti. Dall’altra, manovre di potere. Il Vietnam si pone sotto la luce dei riflettori per i suoi ottimi dati economici, ma intanto qualcosa si muove ai vertici della sua rigida gerarchia decisionale. Rischiando potenzialmente di cambiare regole e prassi su cui la vita politica del Paese del Sud-Est asiatico si è sempre basata.
Partiamo dalla luce. L’economia vietnamita è cresciuta dell’8,02% nel 2022, il ritmo annuale più veloce dal 1997. Si tratta di un dato superiore anche all’ambizioso +6,%-6,5% che era stato fissato dal governo. Non che negli anni precedenti si andasse male: nel 2020, primo anno di pandemia, il Vietnam è stato il Paese asiatico a crescere di più (2,9%), persino più della Cina che allora sembrava aver voltato pagina per prima rispetto all’Occidente. Parziale rallentamento col +2,58% del 2021, quando la prima vera ondata di Covid-19 aveva costretto a diverse restrizioni e chiusure le autorità dell’esecutivo, portando a un serio impatto sull’attività delle fabbriche.
Ma ora il rimbalzo è fortissimo, spinto soprattutto dalle esportazioni ma anche dalle vendite al dettaglio. Segno che l’economia vietnamita si sta rafforzando su due fronti. Il primo: l’industria manifatturiera. Il secondo: i consumi, cresciuti nell’anno appena trascorso del 19,8%. Segnale estremamente positivo, quest’ultimo, che lascia intravedere la crescita del mercato interno grazie allo storico processo di rafforzamento della classe media. Un fenomeno in pieno divenire e che nei piani del Partito comunista vietnamita dovrebbe consentire ad Hanoi di entrare nella top 20 delle più grandi economie mondiali dei prossimi anni.
Sul fronte manifatturiero, il Vietnam si sta giovando degli effetti collaterali della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina. Basti citare l’aumento del 13,5% degli investimenti diretti esteri, che hanno superato i 22,4 miliardi di dollari. Non è un caso, visto che sempre più grandi aziende internazionali spostano parte della loro produzione in Vietnam. A partire dai giganti dell’elettronica, che hanno l’obiettivo di diversificare il loro business asiatico e portano segmenti produttivi all’esterno della Cina. L’esempio più celebre è quello di Apple, che entro la prima metà del 2023 inizierà a produrre in Vietnam alcuni dei suoi MacBook, per la prima volta fuori dal territorio cinese. Un segnale fondamentale, che chiarisce come a spostarsi non sono solo industrie manifatturiere in posizione medio bassa nella catena di valore, magari a causa dell’accresciuta concorrenza o dell’aumento del costo del lavoro in Cina. No, ora arrivano anche grandi produttori hi-tech. Ma la lista è lunga: Samsung, Hp, Dell, nonché i fornitori come Foxconn e Pegatron, stanno mettendo radici sempre più profonde nel Paese, in grado anche di attrarre sempre più spesso nuovi progetti, come per esempio quello di Lego. Il gigante danese dei giocattoli aprirà in Vietnam la sua prima fabbrica a emissioni zero, un progetto da un miliardo di dollari.
Gli investimenti occidentali e in particolare europei sono favoriti anche dall’accordo di libero scambio sottoscritto nel 2019 ed entrato in vigore nel 2020. Ma l’uomo copertina che ha favorito quell’accordo rischia ora di perdere presa a livello politico. Si tratta del presidente Nguyen Xuan Phuc, ex premier confinato a inizio 2021 nel ruolo di presidente, figura più cerimoniale e con meno incisività politica di quella di primo ministro e soprattutto di segretario generale del Partito che sembrava destinato a ricoprire.
Il leader è rimasto invece Nguyen Phu Trong, che al XIII Congresso di due anni fa ha ottenuto uno storico e inaspettato terzo mandato. Il vincolo dei due mandati era stato rispettato sin dai tempi di Le Duan, così come in Cina era stato rispettato dai tempi di Deng Xiaoping. Trong, in modo simile a Xi Jinping, ha costruito la sua reputazione su una ostentata inflessibilità in materia di sicurezza e di anticorruzione, promossa attraverso la spietata campagna della “fornace ardente” che gli ha consentito di sbarazzarsi dei rivali politici sconfitti al XII congresso del 2016. Il mancato accordo sul nome del suo successore, con il delfino Tran Quoc Vong rimasto fuori persino dal politburo, ha fatto sì che Trong restasse al suo posto.
Trong ha ulteriormente cementato il suo potere dopo una mossa a sorpresa del Comitato centrale del Partito, che ha rimosso gli incarichi a due vicepremier. Si tratta di Pham Binh Minh, incaricato della diplomazia generale, e Vu Duc Dam, incaricato della sanità pubblica. Il reato di Minh sarebbe la mancanza di supervisione su uno scandalo nel quale circa 40 persone sono state arrestate per aver presumibilmente intascato tangenti dai passeggeri a cui era stata data priorità d’imbarco per rimpatriare in Vietnam durante le fasi più espansive della pandemia. Dam è invece finito nel mirino per la sua supervisione del modo in cui il governo ha condotto le gare d’appalto per i kit di analisi del coronavirus. Il processo è stato poi rivelato come viziato da brogli, dando vita a uno scandalo che ha portato all’espulsione e all’arresto di un ex ministro della Sanità e di un ex sindaco di Hanoi.
Ma la sensazione è che dietro ci sia un disegno più ampio di natura politica. C’è chi ritiene che possa essere anche il preludio di qualche mossa più clamorosa che possa anche toccare uno dei cosiddetti “quattro pilastri” della politica vietnamita, che oltre a segretario generale, presidente e premier includono anche il presidente dell’Assemblea nazionale.
Finché si cresce così tanto a livello economico, è più semplice nascondere rivali politici sotto il tappeto.