È iniziato l’esodo delle aziende strategiche europee verso il Nuovo Mondo dove il contesto business-friendly e il meccanismo di incentivi dell’Inflation Reduction Act attirano non solo per l’entità dei sussidi ma per la semplicità e velocità di accesso
Era aria di geopolitica quella che si respirava una mattina di inizio dicembre negli studi di LA7. Intervistato da Alessandra Sardoni a Omnibus, il Ministro delle Imprese Adolfo Urso spiegava che era necessaria una “politica industriale europea” per rispondere non solo alla Cina, concorrente economica e rivale sistemica, ma anche – “ed è qui la novità” – agli Stati Uniti. Il Ministro faceva riferimento all’Inflation Reduction Act, la legge anti-inflazione del presidente Joe Biden che contiene 369 miliardi di dollari in incentivi alla manifattura di tecnologie per la transizione ecologica. È una misura pensata per rispondere al primato produttivo cinese sui dispositivi per le energie pulite (pannelli fotovoltaici, batterie per i veicoli elettrici, turbine eoliche, elettrolizzatori per l’idrogeno verde) e impedire che l’America sviluppi una dipendenza industriale dall’avversaria, con tutte le possibili ripercussioni sulla salute dell’economia e sulla sicurezza nazionale.
Inflation Reduction Act: l’incubo della Ue
L’Inflation Reduction Act è una legge geopolitica. Il suo scopo è nazionalizzare o regionalizzare (in Nordamerica, ossia Canada e Messico) la fabbricazione di tutti quegli apparecchi e quei macchinari necessari al processo di decarbonizzazione, in modo da restituire potenza manifatturiera agli Stati Uniti e permettere il distacco dalla Cina e dall’Asia: buona parte dell’agenda legislativa dell’amministrazione Biden – si pensi al CHIPS Act per i semiconduttori – risponde a questo scopo. Il problema è che l’Inflation Reduction Act ha spaventato l’Unione europea, facendole sognare incubi di de-industrializzazione. La legge ha creato infatti un divario competitivo tra le due sponde dell’oceano Atlantico: da una parte ci sono sussidi abbondanti e facilmente accessibili, e bassi prezzi dell’energia che permettono alle aziende di ridurre i costi operativi; dall’altra parte, nel Vecchio continente, la situazione è praticamente opposta.
A Bruxelles si teme allora l’esodo delle aziende strategiche verso il Nuovo Mondo, e qualcuna sta già preparando i bagagli. Volkswagen ha sospeso i piani per l’apertura di una fabbrica di batterie in Europa orientale per dare priorità al Nordamerica e accaparrarsi 9-10 miliardi di euro in aiuti. Tra auto elettriche e batterie, BMW spenderà 1,7 miliardi di dollari per allargarsi in Carolina del sud. Tesla ha ridimensionato i piani in Germania per focalizzarsi sugli Stati Uniti. Air Liquide, società francese di gas industriali, non vuole perdere l’opportunità della legge anti-inflazione. Linde, tedesca ma attiva nello stesso ramo, stima investimenti da 30 miliardi di dollari in dieci anni sul territorio americano. Northvolt, che assembla batterie nel nord della Svezia, pensa di spostare il grosso della capacità futura negli Stati Uniti: con un impianto potrebbe raccogliere oltre 8 miliardi di euro di incentivi. La società elettrica spagnola Iberdrola investirà più risorse in America che in Europa. Così farà pure Ecocem, impresa irlandese di cemento a basse emissioni. Enel ha stanziato 600 milioni di euro per espandere l’impianto di pannelli solari di Catania, ma circa 1 miliardo di dollari per costruire una struttura simile negli Stati Uniti. Il colosso chimico tedesco BASF chiuderà diversi stabilimenti in Germania perché il gas costa troppo, tagliando 2600 posti di lavoro, ma manterrà la presenza in America. Lanxess, stessa nazionalità e stesso comparto, ha anticipato che si concentrerà sugli Stati Uniti. Ford licenzierà 3800 persone in Europa, ma aprirà una fabbrica di batterie nel Michigan da 3,5 miliardi di dollari per 2500 nuovi occupati. Anche Holcim, Siemens Energy, Shell, Volvo, Airbus e ArcelorMittal hanno mandato messaggi poco incoraggianti all’Unione.
La risposta europea: il Green Deal Industrial Plan
L’Inflation Reduction Act è legge da metà agosto 2022. La risposta dell’Unione europea è arrivata solo a inizio febbraio 2023: si chiama Green Deal Industrial Plan e non prevede nuove risorse, ma attinge alle somme già stanziate con altri programmi (ad esempio con NextGenerationEU e con i fondi per la politica di coesione 2021-2027) e rimaste inutilizzate. Il cardine del piano della Commissione per l’industria verde è l’allentamento della normativa comunitaria sugli aiuti di stato: minori vincoli significano maggiori possibilità di intervento governativo a sostegno dei settori toccati dalla conversione ecologica, quelli che potrebbero aver bisogno di una mano (pubblica) per svilupparsi o per riconvertirsi. Il rischio di questo approccio, però, è lo sfaldamento di uno dei principi fondanti dell’Unione: il mercato unico. Il cosiddetto level-playing field – cioè la parità di condizioni tra i ventisette paesi membri, garanzia di riduzione delle differenze economiche – è infatti minacciato dall’ammorbidimento delle regole sugli aiuti di stato: i governi in possesso di grandi risorse finiranno per destinare più soldi al supporto delle aziende nazionali, rendendole più competitive rispetto a quelle che non potranno contare su sostegni altrettanto ricchi. L’esito più probabile è un’esasperazione di quanto avvenuto nel 2022: dei 672 miliardi di euro in aiuti di stato approvati dalla Commissione l’anno scorso, la quota della Germania è valsa il 53% del totale e quella della Francia il 24%. L’Italia era al terzo posto, ma non godendo di ampi margini fiscali di manovra si era fermata parecchio indietro, al 7% appena.
Al governo italiano, dunque, il rilassamento degli aiuti di stato non piace. Già a dicembre, a Omnibus, il Ministro Urso spiegava che la revisione della normativa rappresenta “una strada che potrebbe aggravare la questione europea”, portando proprio l’esempio tedesco. Parlava di disparità di risorse, di squilibri competitivi e di sbriciolamento del mercato unico, ma introduceva anche un tema prettamente geopolitico. Secondo Urso, iniziare una corsa ai sussidi o una guerra dei dazi tra l’Unione europea e gli Stati Uniti sarebbe infatti sbagliato “perché dividerebbe l’Occidente”; al contrario, tra Bruxelles e Washington deve esserci “sintonia”, così che possano unire le forze contro Pechino. Un paio di mesi dopo, a febbraio, il Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha disegnato uno scenario simile: “se l’Europa facesse un atto uguale e contrario” all’Inflation Reduction Act “non sarebbe solo la fine della globalizzazione ma il ritorno a un mondo segregato dove il confronto non è più fra democrazie e autocrazie dell’Est, ma fra blocchi”. Poi è toccato alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che al Sole 24 Ore ha detto che l’obiettivo dell’Italia “non è creare un Inflation Reduction Act europeo in risposta alla legge sull’inflazione americana. La strada maestra è il rafforzamento del dialogo transatlantico, che privilegia il coordinamento delle politiche economiche delle due aree, europea e americana”.
Il made in Europe
Tanto atlantismo può servire a convincere la Commissione europea a non adottare una politica industriale che avvantaggi Berlino rispetto a Roma: l’Italia vorrebbe piuttosto un nuovo fondo comune per le tecnologie emergenti, quello European Sovereignty Fund già evocato da Ursula von der Leyen, che però sembra lontano. La posizione italiana è grossomodo condivisa dalla Spagna. Ma l’idea di emettere altro debito europeo piace poco alla Germania. Anche i Paesi Bassi sono scettici. Austria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Irlanda, Repubblica ceca e Slovacchia temono una proliferazione di sussidi verso aziende prive di valore strategico. Il piano europeo per l’industria verde è dunque essenzialmente una creazione della Francia, che ha capacità di spesa e ambizioni di sovranità tecnologica per sé e per l’Unione: a gennaio Parigi ha elaborato una strategia per il made in Europe nei settori chiave per la transizione energetica (batterie, idrogeno, dispositivi per le fonti rinnovabili, materie prime), con degli obiettivi minimi di produzione interna da raggiungere entro il 2030 attraverso sussidi e crediti d’imposta.
Nella Commissione, l’architetto principale del Green Deal Industrial Plan è proprio un francese, il commissario per il Mercato interno Thierry Breton, mosso dal desiderio di creare dei campioni industriali europei per la conversione ecologica. Il suo approccio interventista è tuttavia osteggiato da tre commissari di orientamento liberista: il nederlandese Frans Timmermans al Clima, il lettone Valdis Dombrovskis al Commercio e ovviamente la danese Margrethe Vestager alla Concorrenza. Per formazione e ideologia, l’idea di espandere l’intervento statale nell’economia li convince poco. E infatti Dombrovskis e Vestager hanno voluto sottolineare che l’utilizzo eccessivo degli aiuti pubblici potrebbe svantaggiare i paesi con le minori capacità finanziarie, e che bisogna stare attenti con l’allentamento delle regole o si rischia di alimentare le differenze socio-economiche tra i ventisette membri. Tutti e tre hanno scritto una lettera al Financial Times per ricordare che “il modello europeo è basato sull’apertura”, non sulle chiusure protezionistiche, e dunque l’Unione dovrebbe lavorare alla creazione di “un ambiente favorevole alle imprese” che stimoli l’innovazione e gli investimenti privati, perché “il denaro pubblico non sarà sufficiente” a pagare la rivoluzione industriale della sostenibilità.
Cosa manca all’Europa
È proprio il contesto business-friendly a mancare nel Vecchio continente, lamentano gli imprenditori: c’è troppa burocrazia, dicono, e troppa dispersione degli aiuti tra programmi comunitari (InvestEU, Innovation Fund e Horizon Europe, solo per citarne alcuni) e schemi nazionali. L’Inflation Reduction Act invece li attira non soltanto per l’entità dei sussidi, ma proprio per la semplicità di accesso. Il sostegno pubblico statunitense ha la forma del credito d’imposta, chiaro e facile da ottenere: se produci idrogeno verde, hai diritto a un credito fino a 3 dollari al chilo; se realizzi celle di batterie, sono 35 dollari per kilowattora di capacità; se fabbrichi veicoli elettrici, si arriva fino a 7500 dollari. Negli Stati Uniti le regole sono le stesse in qualunque parte del territorio mentre nell’Unione europea no, perché la tassazione rientra tra le materie di competenza nazionale; ma se i paesi membri vogliono introdurre crediti o sussidi vari, devono ottenere l’autorizzazione di Bruxelles. In Europa investire è più scoraggiante e rischioso perché i tempi per l’ottenimento dei fondi pubblici possono essere lunghi mesi o anni, addirittura. Un’altra differenza rispetto all’America è che lì i sussidi tendono a raggiungere le startup, innovative per loro stessa natura, mentre qui vengono perlopiù indirizzati verso aziende grandi e strutturate, che non sempre hanno bisogno di essere sorrette dai governi.
Non sono tanto le dimensioni degli aiuti, insomma, ma l’efficienza nel distribuirli. È un aspetto che la Commissione dovrà migliorare se vorrà attirare – e mantenere – le aziende nell’Unione: l’istituzione stessa stima che serviranno investimenti pubblici e privati da 520 miliardi di euro all’anno per raggiungere gli obiettivi sulla riduzione delle emissioni al 2030. La transizione ecologica è certamente necessaria e aprirà tante opportunità, ma ha anche un costo che non può gravare sui contribuenti. “Se lo stato guida questa transizione”, ha detto Vestager, “allora anche gli aiuti di stato sono legittimi in certe occasioni, a patto che nessuno salti alla conclusione di dire “Beh, lasciamo che sia il contribuente a fare tutto”. Senza gli investimenti privati”, ammette, la decarbonizzazione “non si può fare”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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Era aria di geopolitica quella che si respirava una mattina di inizio dicembre negli studi di LA7. Intervistato da Alessandra Sardoni a Omnibus, il Ministro delle Imprese Adolfo Urso spiegava che era necessaria una “politica industriale europea” per rispondere non solo alla Cina, concorrente economica e rivale sistemica, ma anche – “ed è qui la novità” – agli Stati Uniti. Il Ministro faceva riferimento all’Inflation Reduction Act, la legge anti-inflazione del presidente Joe Biden che contiene 369 miliardi di dollari in incentivi alla manifattura di tecnologie per la transizione ecologica. È una misura pensata per rispondere al primato produttivo cinese sui dispositivi per le energie pulite (pannelli fotovoltaici, batterie per i veicoli elettrici, turbine eoliche, elettrolizzatori per l’idrogeno verde) e impedire che l’America sviluppi una dipendenza industriale dall’avversaria, con tutte le possibili ripercussioni sulla salute dell’economia e sulla sicurezza nazionale.
L’Inflation Reduction Act è una legge geopolitica. Il suo scopo è nazionalizzare o regionalizzare (in Nordamerica, ossia Canada e Messico) la fabbricazione di tutti quegli apparecchi e quei macchinari necessari al processo di decarbonizzazione, in modo da restituire potenza manifatturiera agli Stati Uniti e permettere il distacco dalla Cina e dall’Asia: buona parte dell’agenda legislativa dell’amministrazione Biden – si pensi al CHIPS Act per i semiconduttori – risponde a questo scopo. Il problema è che l’Inflation Reduction Act ha spaventato l’Unione europea, facendole sognare incubi di de-industrializzazione. La legge ha creato infatti un divario competitivo tra le due sponde dell’oceano Atlantico: da una parte ci sono sussidi abbondanti e facilmente accessibili, e bassi prezzi dell’energia che permettono alle aziende di ridurre i costi operativi; dall’altra parte, nel Vecchio continente, la situazione è praticamente opposta.