Cile, Argentina e Bolivia vantano i depositi di litio più grandi al mondo, risorsa fondamentale nell’era della mobilità elettrica. Puntano a evitare di essere solo un magazzino estrattivo
Lo chiamano il “Triangolo del litio”: sono le maggiori riserve al mondo, nascoste nei salares che punteggiano gli altipiani e i deserti, là dove Argentina, Bolivia e Cile si accovacciano uno con l’altro. Il Servizio geologico Usa ha stimato che la sola Bolivia potrebbe avere riserve come nessun altro, pari a 21 milioni di tonnellate. Se c’è una parola che ricorre nelle agende dei tre Paesi è senz’altro questa: litio. Materiale ambito: è la chiave per la nuova mobilità elettrica, sostenuta dai programmi di investimenti green di Bruxelles, Pechino, Washington.
Il Cile sforna dati e proiezioni. Non è un caso: è il secondo produttore, dopo l’Australia, coprendo rispettivamente il 29% e il 48% del litio estratto nel mondo (dati 2019), quote che vanno progressivamente calando man mano che nuovi Paesi si affacciano. L’ultimo è il Messico, che ha annunciato di aver trovato grandi riserve di litio in argilla, nello stato settentrionale di Sonora, stimate dal Servizio geologico Usa pari a 1,7 milioni di tonnellate. Non sarà facile: a differenza delle rocce australiane e ancor più delle salmueras del Triangolo, il litio da argilla è ancora estremamente complicato e costoso da estrarre. L’annuncio, comunque, ha spinto le autorità messicane ad accelerare l’iter di una legge ad hoc ed è tuttora accesa la discussione su quale ruolo far giocare allo Stato.
Per ora, sono i tre del Cono Sud a prendersi la scena. In Cile, fin dai tempi della dittatura militare, il litio è considerato una “risorsa strategica” (si pensava utile a fili bellici e nucleari): ha vissuto una fase di monopolio statale e poi, dal 1983, una completa privatizzazione. Qui operano due delle cinque più importanti industrie del litio, la statunitense Albemarle e la cilena SQM che a tutt’oggi coprono il 30% del mercato internazionale (e il 42% come corporate) e hanno agito indisturbate per anni.
La svolta è avvenuta nel 2014 quando la presidente Michelle Bachelet ha creato la Commissione Nazionale del Litio: i 20 esperti, dopo 5 mesi di lavoro, hanno consegnato una “visione strategica”, con al centro un maggior protagonismo dello Stato, per “dinamizzare l’esplorazione e lo sfruttamento, massimizzare la redditività, implementare un’attività industriale diversificata e potenziare la filiera della ricerca”.
A quel punto la CORFO, l’agenzia nazionale di sviluppo economico, ha avuto il supporto politico per rinegoziare i contratti con Albemarle e SQM, attivando tutti i meccanismi legali e una capacità di trattativa sorprendente. Il risultato? A fronte di un aumento delle quote di estrazione, ha spuntato una data di fine concessione, royalties che vanno dal 6,8% fino al 40% a seconda del prezzo della materia prima, contributi fissi o percentuali per finanziare i processi industriali e le comunità locali, oltre all’obbligo di destinare fino al 25% della produzione a prezzi facilitati a favore delle nascenti industrie di batterie o nanotecnologie.
La CORFO ha assegnato all’impresa Nanotec la costruzione di un impianto industriale, per il quale potrà attingere anche al 10% delle risorse destinate all’Istituto di Tecnologie Pulite (ITL). Quest’ultimo, che sta prendendo forma nella città di Antofagasta, è stato affidato nel dicembre scorso al consorzio Associated Universities Inc. (AUI), fondato dalle più prestigiose università nordamericane. In campo estrattivo, intanto, si muove anche il colosso statale del rame, la Codelco, che nel Salar de Maricunga lavorerà a breve assieme al consorzio australiano-canadese Minera Salar Blanco.
Il caso dell’Argentina
Dall’altra parte della Cordigliera, Buenos Aires deve invece fare i conti con la divisione di competenze tra province e livello federale: le prime sono responsabili delle risorse minerarie e delle relative concessioni, mentre su scala nazionale valgono il codice minerario e le norme sugli investimenti nel settore. Le imprese godono di un regime fiscale fisso per trent’anni e le royalties non superano il 3% del valore “a boca de mina”, che diventa solo l’1,6% una volta detratti i costi di produzione.
Secondo il “Forum interuniversitario di specialisti del litio”, tenuto il marzo scorso, per pagare meno alle casse pubbliche le multinazionali del litio vendono il materiale poco processato da filiale a filiale, comprimendo così i prezzi. “Non hanno nessun obbligo di lavorazione – scrivono nel loro rapporto i ricercatori – e quello che fa fede è la dichiarazione aziendale”. Anche per lo studio di impatto ambientale, è considerato sufficiente quello presentato dalla stessa impresa, senza che ci sia un’autorità indipendente che lo valuti. Da qui le forti tensioni con le comunità locali, che vedono le terre inaridirsi e inquinarsi e ben poche compensazioni.
Attualmente l’Argentina copre il 7% del mercato, pur avendo riserve stimate al 12% a livello globale. La deregulation sul litio è figlia degli anni ’90 e della sbornia liberista, che nessun Governo ha messo in discussione. Resiste, perché nelle sue cicliche e drammatiche crisi, l’Argentina ha fame di investimenti. Non passa giorno che non ci siano annunci di nuovi progetti in Catamarca o a Salta o a Jujuy. Quest’ultima è la più attiva. Qui il Governo locale ha creato un’impresa pubblica, la Jemse, che partecipa con quote dell’8,5% nelle attività dei due privati operativi nelle saline: la Sales de Jujuy (joint venture tra la giapponese Toyota Tutso Corp. e la australiana Orocobre) e la Minera Exar (società tra la canadese Lithium Americas Corp e la cinese Ganfeng Lithium Co. Ltd.). La Jemse ha firmato di recente anche una joint venture con l’italiana Seri Group, che fa il suo ingresso in Argentina per un impianto di assemblaggio di batterie. Sempre con l’italiana, si è accordata anche la Y-TEC, l’impresa statale nata dal centro di ricerche nazionale e YPF, la petrolifera di stato, per produrre celle di batterie.
Il caso della Bolivia
La Bolivia rappresenta il caso opposto, ma non meno caotico. Qui il modello è fortemente statalizzato, ha goduto finora della collaborazione delle potenti organizzazioni sindacali e contadine e fa difficoltà a trovare un modo per aprirsi a partner internazionali. Il metallo è considerato monopolio statale fin dal 2008, attraverso la YLB, l’azienda nazionale del litio. Nel 2018 si è messa alla ricerca di soci strategici: alla fine ha scelto la tedesca Aci Systems con cui sfruttare il Salar de Uyuni e creare una società mista per la produzione di batterie. Quest’ultima è saltata per decisione dell’ex-presidente Evo Morales, dopo le forti tensioni con il Governo di Potosì (in mano all’opposizione) a poche settimane dal voto presidenziale del novembre 2019. Proprio quel voto e le violente vicende che ne sono seguite hanno lasciato per un anno il Paese in una caotica transizione, fino alle elezioni dell’ottobre 2020, da cui è uscito vincitore Luis Arce, riportando al potere il partito di Evo. Il Governo ha di recente annunciato di aver ripreso i contatti con l’azienda tedesca, interrotti da allora.
L’altro fronte boliviano del litio sono i Salares di Coipasa e Pastos Grandes. In questo caso, la scelta è caduta sulla cinese Xinjiang TBEA Group, in cordata con una serie di altre imprese cinesi. Il governo preme per dar vita a una propria produzione industriale attorno al litio, sulla scia delle due imprese-pilota già attive. Il 31 maggio si è chiusa una call internazionale, cui hanno risposto 19 aziende di varie nazionalità per introdurre i nuovi processi estrattivi diretti (EDL), capaci di aumentare la produzione e diminuire l’utilizzo d’acqua.
Qualunque sia il modello di politiche pubbliche, i tre Paesi giurano di voler evitare una deriva solamente estrattivista e sognano un boom industriale. Ma, come sottolinea il quotidiano boliviano La Razon, questo sforzo arriva in un momento in cui “l’accelerazione dello sviluppo tecnologico dell’industria del litio sta avvenendo altrove e intanto il prezzo del metallo cade continuamente”. Non solo i tre Paesi scontano ritardi propri e distorsioni del mercato, limiti tecnologici e mancanza di materie prime necessarie (il litio rappresenta solo il 10% di una batteria, oltre a nichel e cobalto), ma non hanno neanche un mercato regionale su cui riversare gli eventuali prodotti, come sono invece quelli di gran dimensione e consumo di Stati Uniti, Cina o Europa. Cosa fare, dunque? Martin Ubaya e Paulo Pascuini, ad esempio, nel rapporto elaborato qualche mese fa per la CEPAL, suggeriscono di non piazzarsi in filiere poco competitive, ma “trovare delle nicchie di specializzazione produttiva” fortemente innovative. La sfida è aperta.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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Il Cile sforna dati e proiezioni. Non è un caso: è il secondo produttore, dopo l’Australia, coprendo rispettivamente il 29% e il 48% del litio estratto nel mondo (dati 2019), quote che vanno progressivamente calando man mano che nuovi Paesi si affacciano. L’ultimo è il Messico, che ha annunciato di aver trovato grandi riserve di litio in argilla, nello stato settentrionale di Sonora, stimate dal Servizio geologico Usa pari a 1,7 milioni di tonnellate. Non sarà facile: a differenza delle rocce australiane e ancor più delle salmueras del Triangolo, il litio da argilla è ancora estremamente complicato e costoso da estrarre. L’annuncio, comunque, ha spinto le autorità messicane ad accelerare l’iter di una legge ad hoc ed è tuttora accesa la discussione su quale ruolo far giocare allo Stato.